Beato il popolo che non ha bisogno di eroi. Heldenplatz di Thomas Bernhard

Heldenplatz è il titolo di una delle opere teatrali più importanti dello scrittore austriaco Thomas Bernhard, in riferimento a una delle piazze maggiormente attraversate e conosciute di Vienna, che ha visto i fasti degli Asburgo tra l’Hofburg e il Ring, a pochi metri dal “Kunsthistorisches Museum”. Fin qui niente di nuovo, se pensiamo che la penna bernhardiana indica spesso luoghi  facilmente riconoscibili sulla cartina geografica e rintracciabili su google maps.
Ma lo Heldenplatz di Bernhard non è affatto solo questo. La piazza che dà il titolo a questa famosa e discussa pièce è piuttosto quella nota storicamente per le parate militari, e in questo caso – ecco il punto – il luogo simbolo dell’annessione nazista. Piazza degli eroi è allora un topos politico da intendersi come quella massa compatta che nel 1938 salutò e acclamò l’arrivo delle truppe di Hitler a Vienna.

La pièce – è bene ricordarlo – venne rappresentata per la prima volta al Burgtheater di Vienna nel 1988, a cinquant’anni esatti dall’Anschluss, e ha segnato una pietra miliare nella storia del teatro e della cultura austriaca, mobilitando l’intera opinione pubblica della nazione. Non è di certo la prima volta che Bernhard porta in scena l’orrore del nazismo. Se infatti la questione della barbarie fascista attraversa tutta la sua opera, alcune sue produzioni teatrali e letterarie sono incentrate su questi temi: ne sono un esempio paradigmatico il dramma Prima della pensione (1979), o il romanzo Estinzione. Uno sfacelo (1986). Si potrebbe anzi dire che Estinzione (Auslöschung) rappresenti il polo narrativo di Piazza degli eroi, con dei motivi che funzionano da trait d’union tra le due opere. Si tratta degli ultimi lavori di Bernhard, che tracciano in qualche modo il suo testamento spirituale. Un lascito di distruzione, soprattutto nei confronti della propria patria.
Al centro della pièce di Bernhard è infatti una denuncia netta della società austriaca dal dopoguerra, accusata di essere innervata di nazismo. La sentenza durissima che attraversa la pièce è infatti veicolata dalla bocca del protagonista: «Ci sono più nazisti oggi che nel 1938».

Thomas Bernhard, Burgtheater, 1988, “Heldenplatz”, regia di Claus Peymann

Una provocazione alla sua patria, l’ultima frecciata prima della morte, un affronto accentuato dalle parole del lascito testamentario con cui Bernhard vieta la rappresentazione delle sue opere su suolo austriaco.
Un testo tremendo, durissimo, che mette in scena la persistenza del passato nazista, con i suoi riverberi e le sue ramificazioni al di sotto della quotidianità, che mira a evidenziare la permanenza, e anzi l’amplificazione, di quelle strutture politico-sociali autoritarie e fasciste proprie del regime. E non è un caso che la sua rappresentazione abbia mobilitato l’intera opinione pubblica austriaca: molti devono aver giustamente visto tra le righe di questa pièce un riferimento al caso di Kurt Waldheim, l’ex segretario dell’Onu che, divenuto capo dello Stato nel 1986, aveva dovuto ammettere il proprio passato di militare nazista e che, una volta venuti a galla i suoi trascorsi nazionalsocialisti, si rifiutò di lasciare la carica, e si difese con la meschina giustificazione di aver fatto il proprio dovere.

Protagonista della pièce è e resta quella piazza, che fa da scenario ai lunghi monologhi tipicamente bernhardiani. Il primo atto è dominato dal lungo dialogo (quasi monologo) della fedele domestica, Frau Zittel, con la più giovane governante, in un’atmosfera che ricorda Le serve di Genet. Ma chiaramente l’immagine del fedele servitore è un motivo ricorrente nella letteratura austriaca. La donna è intenta a rassettare le camicie del suo datore di lavoro, il Prof. Schuster, che si è appena tolto la vita gettandosi dalla finestra del suo appartamento viennese, su Piazza degli eroi. Si tratta di un docente di filosofia, proveniente da una famiglia ebraica viennese, che, costretto all’emigrazione in seguito all’ascesa del nazismo, aveva trovato asilo politico e una cattedra all’Università di Oxford. Nella sua silhouette si riconoscono molti tratti di Ludwig Wittgenstein, il filosofo amato da Bernhard, che lo ha ispirato nel tratteggiare diversi suoi personaggi. La domestica ricostruisce con il ricordo le ossessioni e le idiosincrasie del suo professore, una mente filosofico-matematica, sempre in bilico tra l’Inghilterra (surrogato della patria) e l’Austria (il luogo dell’infanzia e della giovinezza). Anche per lui il tanto desiderato ritorno a Vienna nel dopoguerra si era trasformato in un non-ritorno a casa. Come è possibile sentirsi a casa dopo la Shoah? Come è possibile sentirsi a casa in quella piazza che ancora pullula di nazismo?

Alle figlie e soprattutto al fratello, suo doppio e suo contraltare, viene affidato il compito di evocare la sua figura. Se Josef Schuster era l’uomo di pensiero, Robert Schuster, il fratello anche lui filosofo, è il professore, incardinato nell’ateneo rivale di Cambridge. Ma la vera differenza tra i due fratelli sta in ben altro. Se Josef, come molti personaggi bernhardiani ha deciso di mettere fine ai suoi giorni perché disgustato da una realtà ripugnante, il fratello si rifugia nel paesino di Neuhaus e accetta passivamente i soprusi e le decisioni dell’amministrazione locale, dichiarandosi stanco di combattere. Insomma si lascia vivere, aspettando la morte. In altre parole, se Josef vedeva tutto, sentiva tutto, e per questo non ha resistito, Robert si chiude gli occhi e si tappa le orecchie per non affrontare la realtà che lo circonda e che – secondo la denuncia di Bernhard – non è poi così diversa da quella della fine degli anni Trenta. Di qui la sua atroce sentenza: “i viennesi hanno sempre odiato gli ebrei e li odieranno per sempre”,

Gli strali di Robert non colpiscono solo l’Austria, nella sua maschera di paese pseudo-socialista, populista e becchino d’Europa. Nel suo cinismo e nichilismo, il personaggio di Bernhard descrive l’Europa come un immenso palcoscenico dove tutto va in rovina, e dove gli attori attendono solo che il regista si presenti per chiuderli nel baratro.
Ma forse la figura più interessante, tra i parenti che si sono riuniti al funerale di Josef Schuster, è la moglie del defunto, la vedova. Come sappiamo dalla pièce, la donna non è mai riuscita a trascorrere del tempo nella sala dell’appartamento di Heldenplatz, e per questo ha deciso repentinamente, alla morte del marito, di disfarsi della proprietà. In quelle stanze ha sempre sofferto, sentendo i rumori di un fantasma del passato troppo ingombrante: la folla che acclama l’arrivo di Hitler.  È la storia che, uscita dalla porta, rientra prepotentemente dalle finestre. Per questa ragione la signora Schuster, interpretata da Betty Pedrazzi, si accascia, alla fine della pièce, sul tavolo di famiglia, assediata dalle voci che sente nella sua testa e che la dilaniano.

Sono le voci del passato? Sicuramente sì, ma sono anche le voci del presente, dei neonazismi, e non solo nella piazza viennese ma in tutto il mondo. Heldenplatz è infatti in ogni città, in ogni paese, in ogni villaggio. Sono, è bene ricordarlo, i segnali che quel fascismo è ancora tra noi e miete ogni giorno delle vittime. E forse, a questo punto, non ci vogliono più neanche delle antenne tanto sensibili per capirlo.
In Italia la pièce di Bernhard, pubblicata diversi anni fa da Garzanti nella traduzione di Roberto Menin, e da tempo fuori commercio, è stata presentata per la prima volta nella magistrale regia di Roberto Andò, con Renato Carpentieri e Imma Villa come protagonisti. Lo spettacolo avrebbe dovuto debuttare al Mercadante a dicembre ma, causa Covid, è andato in scena solo sugli schermi televisivi, prima assoluta in tv, sabato 23 gennaio, alle 21.15 su Rai 5. Non a caso proprio nella settimana dedicata alla memoria. Lo aspettiamo nei teatri d’Italia, così come attendiamo con ansia che il testo Heldenplatz venga ripubblicato.



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