Molti di coloro che intrattengono con le droghe un rapporto disinteressato alla psicofarmacologia difficilmente conosceranno le novità discorsive che attorno ad esse si stanno articolando; con la stessa probabilità, gli stessi non avranno ancora sentito parlare di Rinascimento psichedelico. Per chi si fosse perso le ultime pubblicazione sulla psichedelia dell’editoria minore, come i due volumi Terapie psichedeliche di Adriana D’Arienzo e Giorgio Samorini (Shake, 2019) e Rinascimento psichedelico di Bernardo Parrella (Stampa Alternativa, 2017), e avesse deliberatamente ignorato quelle dell’editoria maggiore, come LSD di Agnese Codignola (UTET, 2018) e Come cambiare la tua mente di Michael Pollan (Adelphi, 2019), ora non ha più scuse: il Rinascimento psichedelico, grazie alla pubblicazione di La scommessa psichedelica, saggio collettaneo a cura di Federico Di Vita (Quodlibet, 2020), ha sconfinato ogni circuito editoriale conquistando la scena del dibattito culturale anche in Italia. Il volume, attraverso l’eterogeneità delle voci che lo compongono, si propone di indagare lo stato dell’arte della ricerca scientifica sulle sostanze psicotrope e, parallelamente, di sondare l’universo multiforme della psichedelia, svelando al lettore “cosa si nasconde oltre la facciata del Rinascimento psichedelico”.
L’espressione Rinascimento psichedelico, in voga da qualche anno in alcuni settori della ricerca e dell’informazione, viene sempre più utilizzata per designare tanto una prospettiva di studio, dalla postura rigidamente scientifica, quanto un periodo storico specifico, ancora in fase di perfezionamento ma indicativamente sovrapponibile al crescendo di trial clinici a base di sostanze psicotrope registrato in alcune nazioni a partire dalla seconda metà degli anni ottanta. Al di là dei miti fondativi, quel che è certo è che ci siamo dentro, che il tempo del presente coincide con tale specificità: “Siamo ormai nel pieno del Rinascimento psichedelico”, scrive Di Vita nella premessa al volume. D’altronde, qualsiasi periodizzazione degna di nota, frutto di un negoziato continuo tra il groviglio delle narrazioni che si contendono l’interpretazione storica degli eventi, non potrebbe che risultare sfumata e controvertibile; ma, a differenza di altri avvenimenti, situati all’interno di una classificazione solo al loro decorso, la fase attuale della psichedelia si è aggiudicata un riconoscimento storico nonostante la sua parabola sia tutt’ora in divenire, esposta a qualsiasi tipo di deragliamento. Non è certo la prima volta che succede: l’originalità dell’universo musicale di fine Settecento, quello, per intenderci, attribuito all’arte nuova di Haydn, Mozart e Beethoven, fu da subito accostata alla nozione di “opera classica”, determinando, di conseguenza, il Classicismo musicale. Gli attori sociali allora coinvolti nell’operazione tassonomica sono però facilmente definibili: chi, a titolo di musicista o teorico, scrive e si interroga sulla musica a cavallo tra Sette e Ottocento[1]. Mentre per ciò che riguarda il Rinascimento psichedelico, chi sarebbero questi attori? A chi si rivolgono? A che titolo? Per provare a rispondere a queste domande bisognerebbe prima di tutto chiedersi in cosa consista il dominio della psichedelia, quali siano i suoi oggetti e quali i suoi attributi.
Psichedelia deriva da “psichedelico”, termine coniato a metà degli anni cinquanta dallo psichiatra Humphry Osmond per descrivere “un pizzico” di qualcosa in grado di far “precipitare all’inferno o librarsi angelico” colui che se ne serve. Questo qualcosa indicava una “classe di sostanze” i cui componenti vengono rinominati “psichedelici” sulla scorta di alcune considerazioni che egli stava condividendo con lo scrittore Aldous Huxley circa l’effetto provocato dal loro utilizzo[2]. Psichedelico, stando a questa definizione, indicherebbe sia l’insieme di queste sostanze (dal punto di vista materiale), sia il loro attributo (l’effetto da esse generato nell’esperienza di chi se ne serve). Se infatti si determinasse il significato di psichedelico solo in base alla classe a cui è stato originariamente associato, presumibilmente LSD, psilocibina e mescalina, il suo utilizzo come categoria dovrebbe essere limitato a sostanze dalla composizione materiale simile, ciò che sembrerebbe suggerire la definizione di “classe di molecole” usata in più occasione da Di Vita; ma, se così fosse, il dominio della psichedelia coinciderebbe con quello della chimica e della farmacologia, cosa che invece non è, almeno per ora. Il successo del termine psichedelico lo si deve invece alla sua funzione di attributo, in virtù del quale saranno chiamate psichedeliche molte delle sostanze dagli effetti simili, siano esse principi o composti, quali DMT, iboga, salvia, ayahuasca, MDMA, ketamina e altre ancora, il cui denominatore comune non risiede nella loro somiglianza molecolare, ma nella loro capacità di generare determinati effetti nell’esperienza. L’etimologia stessa di psichedelico, dal greco ψυχή (psykhé, anima) e δῆλος (dêlos, chiaro, evidente), rinvia a una funzione, ovvero a ciò che rende evidente la psiche, che induce la psiche a manifestarsi. Sorge però un dubbio, ma questo “insieme di sostanze”, nel momento in cui smarrisce la sua aderenza con la classe originaria (verosimilmente LSD, psilocibina e mescalina), in cosa conserva la sua differenze dal resto delle sostanze psicotrope?
Ugo Leonzio, ne Il volo magico, definisce la classe delle droghe nei termini di un rapporto: “La droga è il problema del corpo, il problema della materia. Corpo e materia come cifra di un codice da illuminare”. Il suo predicato, il predicato di tutte le droghe, è “svelare l’invisibile”[3]. Stando a questa definizione, così prossima al significato originario di psichedelico, la distinzione tra il dominio generico della droga e quello specifico della psichdelia sbiadisce fino a scomparire. In virtù di cosa, infatti, l’onirismo degli oppiacei, le rivelazioni dell’hashish, l’ebbrezza del vino, la chiaroveggenza della cocaina, le allucinazioni dello stramonio, le fantasmagorie delle anfetamine non sarebbero anche delle esperienze psichedeliche? Nella misura in cui il campo di pertinenza della psichedelia subisce un’estensione quasi infinita in nome del suo attributo, tanto da essere applicato indipendentemente dal suo oggetto, il suo confine diventa un elastico a disposizione di chiunque. Nella Scommessa psichedelica, ad esempio, Silvia Dal Dosso e Noel Nicolaus tendono l’elastico in direzione dell’informatica, attribuendo ai processi caotici che guiderebbero la circolazione dei meme la capacità, tipica del mago, “di applicare sulla realtà una sospensione momentanea, una parentesi di indeterminatezza che ci permetta di scorgere per un attimo i misteri che si celano al di là del velo”[4]. In questa direzione si muove anche il contributo di Edoardo Camurri, per il quale “Operare una magia significa rendere visibile l’invisibile”, azione a cui avrebbero accesso, in egual misura, “il mago, il cyborg e lo psiconauta”[5].
La visione, presso i greci, era una delle forme più alte della conoscenza. La sua epifania, scrive Giorgio Colli, poteva sopraggiungere in vari modi, come in seno alla mania o all’apice dell’epopteia; esperienze che vengono accostate, rispettivamente, al patrocinio di Dioniso e alla signoria di Demetra[6]. Entrambe le forme di conoscenza agiscono disturbando il confine tra il visibile e l’invisibile; ma la prima, a differenza della seconda, non si sgancia dalla materia, non sconfina nella mistica: “Niente ricorda qui ascesi, spiritualità e dovere: qui parla a noi soltanto un’esistenza rigogliosa”, scrive Nietzsche sulla visione dionisiaca[7]. Anche Leonzio, valorizzando questo aspetto, oppone “ai significati mistici reperibili nelle teofanie religiose” il linguaggio inedito della droga, la cui cifra indovina “una nuova dimensione della carne”[8]. Al contrario, la realtà nella quale Dal Dosso, Nicolaus e Camurri collocano le loro visioni coincide con la regione dell’incorporeo: del virtuale per i primi, del religioso per il secondo. Che sia questa la differenza tra gli psichedelici e gli psicotropi? Il tipo di rapporto che i primi intrattengono con la psiche e i secondi con il corpo? Ma potrebbe mai sussistere una contrapposizione tra corpo e psiche che non sia essa stessa una forma di governo dell’esperienza corporale? Esplicativa, in questo senso, è la metafora scelta da Camurri che, proiettando il discorso psichedelico nel campo del religioso, riabilita una delle correnti più ostili ai piacere del sesso registrata nel mondo antico: lo gnosticismo. L’idea di “guerra spirituale” da lui teorizzata, dove forze opposte si contendono lo spazio del possibile tra algoritmi e riprogrammazioni, è affascinante quanto inadeguata alle architetture di potere della società; per cui, banalmente, il loro rovesciamento non potrebbe concretizzarsi senza l’abbattimento delle pareti fisiche di un carcere, istituzione che precede il cyberspazio e persiste indipendentemente dalle battaglie dei suoi “soldati gnostici”. Non sarà forse per questo che l’aneddotica su Timothy Leary non incontra mai, nel volume, la storia dei Weather Underground?
Di visione, nella Scommessa psichedelica, si occupa anche Gregorio Magini. Questi, contestando a Furio Jesi l’assunto secondo il quale i moderni, privati della festa tradizionale, non avrebbero accesso alla visione, sostiene, di contro, che se c’è una certezza che la psichedelia ci ha dato, proprio attraverso gli allucinogeni, “è che la visione fa parte dell’orizzonte di esperienza in Occidente, esattamente nel senso di «visione nel tempo storico» che egli ritiene irraggiungibile”[9]. A mio avviso, però, l’obiettivo di Jesi non sembra quello di decretare l’inesperibilità di qualsiasi tipo di visione, ma della sua configurazione entro il modello gnoseologico della festa, della visione come forma d’esperienza della festa dei diversi, ovvero della visione come strumento di conoscenza tra “civilizzati” e “selvaggi”, tra l’io e l’altro, la cui “permeabilità” potrebbe realizzarsi solo a partire dall’erosione del perimetro che separa il soggetto conoscente dall’oggetto conosciuto, il “vedere gli altri vedere” e il “vedere degli altri”, svelando, nel loro trasformarsi incontrandosi, l’assenza a cui entrambe le visoni, in modo differente, rimandano. Questa idea specifica di visione che, così impostata, diventa difficile da rovesciare, riguarda, al pari del mito, al pari dell’universalmente umano, il nucleo a cui la “macchina mitologica” rimanda creando l’illusione di nascondere qualcosa che invece esiste solo nel funzionamento stesso della macchina, e per questo non può essere visto. Per macchina mitologica, scrive Enrico Manera, si deve allora intendere “il processo sociale e culturale la cui funzione è, in ogni tempo, intrattenere un rapporto con l’invisibile mediante la produzione del “mito” come materiale primitivo, originale, vivo”; un mito che non esiste in quanto tale ma in quanto prodotto storico, come “parola umana che dice qualcosa colmando il vuoto di senso che sprigiona dall’inconoscibilità dell’essere”[10].
Il mito del Rinascimento psichedelico è la cura, il registro della sua macchina mitologica la scienza. Nel momento in cui entra in funzione, la macchina dispone il discorso della cura psichedelica lungo le sue pareti generando l’idea della sua presenza, la quale però non esiste in quanto tale, ma in quanto tecnica discorsiva della scienza. Potremmo applicare alla mitopoiesi scientifica della cura le stesse parole che Carlo Mazza Galanti, nella Scommessa psichedelica, utilizza nei confronti di Pollan: questi, come essa, “depura la storia degli psichedelici di ogni traccia controculturale per collocarla all’interno della socialmente e politicamente accettabile funzione di supporti medico-terapeutici utili a un’ortopedia della psiche”, autolegittimandosi come modello gnoseologico tramite l’illusione “di rimediare a una serie di malattie tutte eminentemente sociali, eludendone la genesi e il senso più profondamente economico, culturale e politico”[11]. La controcultura, l’equivalente del Medioevo psichedelico, a dispetto di alcune interpretazioni presenti nella Scommessa psichedelica, non ha semplicemente tenuto in vita “la fiaccola iridescente della psichedelia”, ma l’ha demitologizzata lungo un orizzonte di senso incompatibile con il suo utilizzo normativo: l’ha resa inattuale. Il Rinascimento psichedelico, così riposto, lungi dall’essere un’innocua metafora storiografica, si manifesta sempre più come un vero e proprio “regime di storicità” in cui determinati attori, per lo più giornalisti e ricercatori, al pari degli storici e degli umanisti del XIV e XV secolo, si appropriano del passato ridistribuendolo nel presente senza lasciargli spazio. Dichiararsi “moderni” all’epoca del Rinascimento, scrive François Hartog, “è soprattutto un modo di sbarazzarsi del Medioevo, di rompere con esso abbandonandolo alle tenebre”[12]. Leonzio, equidistante tanto dalla scienza quanto dalla religione, analizzando la storia della mandragola ci ricorda la centralità delle radici magiche all’interno del sabba, le feste clandestine dove gli esclusi dalla Modernità tentarono “di sconvolgere l’ordine di classe, di inserirsi in un rapporto di forza con il ricco”; feste rispetto alle quali, “le migliaia di streghe bruciate, torturate, costrette all’abiura testimoniano non di una reazione di tutela religiosa ma di una forma degenerata, soffocata di rivolta sociale”[13]. Il riverbero artistico e culturale di questo slancio sovversivo, espressione di “un atteggiamento anti-intellettualistico, anti-moralistico, anti-sintetico e anti-autoritario”, viene ribattezzato, in opposizione alle correnti allora dominanti, il Controrinascimento. Una nuova metafora? Non proprio. L’oscillazione tra festa e rivolta è la vertigine di un conflitto mai domo, ancora inattuale. “Une ardeur de vivre”, queste le parole che hanno accompagnato la rivolta a passi di danza messa in atto nel cuore della Bretagna a capodanno[14].
La coralità della Scommessa psichedelica, di cui, per motivo di gioco e di spazio, si è qui alzato il volume solo ad alcune delle sue frequenze, rappresenta un universo musicale eterogeneo, dove il tentativo di accordanza di alcuni viene puntualmente disturbato dalla dissonanza di altri. Pertanto, tra note stonate e accordi improvvisati, che ognuno temperi il suo strumento affinché tale pluralità non si trasformi, rispolverando una metafora platonica, in un “mantello trapunto d’ogni colore” conteso da tiranni e mercanti ma, al pari di un coro ditirambico, nel “muro contro l’assalto della realtà” di nietzschiana memoria.
[1] Cfr. R. Mellace, Il Racconto della musica europea. Da Bach a Debussy, Carocci 2017, pp. 185-87.
[2] Cfr. F. Di Vita, Breve storia universale della psichedelia, in La scommessa psichedelica, cit., p. 27.
[3] U. Leonzio, Il volo magico. Storia generale delle droghe, Einaudi 1997, pp. 4-14.
[4] S. Dal Dosso, N. Nicolaus, Oltre la Realtà: Internet e memetica tra magia, estasi e distruzione, in La scommessa psichedelica, cit., p. 182.
[5] E. Camurri, Gnosticismo acido, in La Scommessa psichedelica, cit., p. 198.
[6] Cfr. G. Colli, La sapienza greca, vol I, Adelphi 1990, p. 19.
[7] F. Nietzsche, La nascita della tragedia, Adelphi 1977, p. 31.
[8] U. Leonzio, Il volo magico, cit., p. 14.
[9] G. Magini, Pseudoglossario, in La scommessa psichedelica, cit., p. 310.
[10] E. Manera, Furio Jesi. Mito, violenza, memoria, Carocci 2012, p. 94.
[11] C. Mazza Galanti, Fantadroghe e pseudorealtà. Su alcune interpretazioni letterarie della psichedelia, in La scommessa psichedelica, cit., 226.
[12] F. Hartog, Il confronto con gli antichi, in S. Settis (a cura di), Noi e i Greci, Einaudi 1996, p. 11.
[13] U. Leonzio, Il volo magico, cit., p. 163.
[14] Cfr. https://www.liberation.fr/debats/2021/01/05/rave-party-de-lieuron-une-ardeur-commune-de-vivre_1810376.