Karl-Siegbert Rehberg è un sociologo tedesco di fama internazionale. Allievo diretto di Arnold Gehlen, del quale cura l’opera omnia (Gesamtausgabe) pubblicata dall’editore Klostermann, Rehberg è professore ordinario presso la Technische Universität di Dresda. Autore di numerosi saggi sulla storia del pensiero sociologico, nel corso della sua lunga e prolifica carriera Rehberg ha concentrato la propria attenzione anche su tematiche antropologico-culturali ed estetiche. Pur essendo stato chiaramente influenzato dalla concezione del suo maestro Gehlen, Rehberg ha sempre manifestato un grande interesse anche per prospettive diverse, come ad esempio quella della teoria critica della società della Scuola di Francoforte, uno dei cui esponenti principali, com’è noto, è stato Theodor W. Adorno. Non tutti sanno che, durante gli anni Sessanta, a dispetto delle loro notevoli divergenze intellettuali e soprattutto politiche, Adorno e Gehlen intrattennero una corrispondenza in cui, accanto alle ovvie diversità fra loro, emerse anche l’esistenza di alcune significative convergenze, soprattutto sul piano dell’interpretazione filosofica delle opere d’arte, con un’esplicita manifestazione di stima da parte di Adorno per il libro Zeit-Bilder di Gehlen. Abbiamo approfittato della grande gentilezza del Prof. Rehberg per porgli alcune domande proprio sul rapporto fra questi due grandi protagonisti della filosofia e della sociologia del Novecento: Adorno e Gehlen.
Ginestra Bacchio. Gentile Prof. Rehberg, grazie per la sua disponibilità a rispondere ad alcune domande sul rapporto fra Adorno e Gehlen per i lettori di “Scenari”. Vorrei cominciare da una domanda un po’ generale: cosa spinse un filosofo come Gehlen a scrivere un volume come Zeit-Bilder? Cosa cercava Gehlen nell’arte figurativa?
Karl-Siegbert Rehberg. I mondi d’immagine artistici hanno accompagnato Gehlen per tutta la vita. A partire dal semestre estivo del 1923, all’Università di Lipsia, Gehlen studiò filosofia, all’interno del cui programma frequentò anche le lezioni di zoologia tenute dal biologo e filosofo di fama internazionale Hans Driesch (e, a tal proposito, potrebbe risultare interessante per i lettori italiani sapere che Driesch aveva compiuto a Napoli, presso il reparto zoologico dell’allora Kaiser-Wilhelm-Gesellschaft – successivamente Max-Planck-Gesellschaft –, la scoperta sperimentale più importante ai fini della fondazione del suo ‘vitalismo’, cioè la scoperta delle formazioni strutturali autopoietiche negli organismi animali). Come materie secondarie, inoltre, Gehlen studiò storia dell’arte e lingua e letteratura tedesca, ottenendo il dottorato in queste tre materie il 22 luglio 1927. Nei suoi scritti Gehlen ha fatto riferimento quasi ininterrottamente all’arte. Già a 21 anni l’ex studente della Thomasschule di Lipsia parlò del programma estetico di Hugo von Hofmannsthal in una conferenza in occasione del 25° anniversario del Literarischer Thomanerbund e già allora egli mostrò di non considerare il proprio interesse per l’arte come “qualcosa di meramente individuale”, bensì come una possibilità umana di “reazione al mondo”. Allo stesso modo, nella sua tesi di abilitazione esistenzialistica Wirklicher und unwirklicher Geist del 1931 fu proprio la forza d’innovazione delle opere d’arte a offrire a Gehlen la prova di una presa attiva sul mondo che andasse oltre la mera intuizione: “Ciò che è liberatorio nell’impressione estetica risiede nella suggestione della possibilità di poter ricominciare daccapo la vita in qualsiasi momento; il darsi senza sforzo di un mondo completamente originario e nuovo viene vissuto in maniera profonda nell’opera d’arte”. Nel 1934 Gehlen scorse l’intento più elevato dell’estetica nel tragico, concordando più tardi con George Steiner sul fatto che “le moderne società democratiche, in definitiva, disdegnino il tema della catastrofe tragica priva di compromessi e insolubile”. Le basi antropologiche e le funzioni delle arti svolgono un ruolo anche nel capolavoro antropologico di Gehlen, Der Mensch. Seine Natur und seine Stellung in der Welt (pubblicato per la prima volta nel 1940), così come nel suo libro sulle istituzioni del 1956 Urmensch und Spätkultur (trad. it., rispettivamente: L’uomo. La sua natura e il suo posto nel mondo, Mimesis 2010; L’uomo delle origini e la tarda cultura, Mimesis 2016). Molte delle tesi che Gehlen avrebbe poi sviluppato in modo più preciso nella sua sociologia dell’arte si trovano già enucleate nel suo saggio del 1943 Formen und Schicksale der Ratio, nel quale egli cercò di sviluppare una classificazione delle forme di razionalità legate all’azione secondo il modello di Vilfredo Pareto. In questo saggio, inoltre, Gehlen sostiene per la prima volta la tesi secondo cui la società, a partire dalla fine del Settecento, non abbia più avanzato “esigenze contenutistiche univoche nei confronti della pittura”, come egli avrebbe poi riaffermato con forza anche nel 1960 in Zeit-Bilder (trad. it. Quadri d’epoca. Sociologia e estetica della pittura moderna, Guida 1989) e dieci anni dopo in una discussione pubblica con Joseph Beuys e altri partecipanti. In Urmensch e Spätkultur ne va soprattutto delle forme d’espressione rituali-mimetiche e formatrici di istituzioni nelle prime società dell’uomo, inteso come un “essere che raffigura”. Tuttavia, in quella sede Gehlen affronta anche lo sviluppo dell’arte riflessiva moderna nell’età della scientificizzazione, così come la produttività artistica in relazione ai contenuti emotivi tanto degli artisti quanto del loro pubblico. Nel bestseller gehleniano del 1957 Die Seele im technischen Zeitalter (L’uomo nell’era della tecnica, Armando 2003) e in molti altri saggi gravitanti attorno a quest’opera le tendenze artistiche si rivelano essere cifre dell’epoca presente, percepita da Gehlen con acuto scetticismo e, progressivamente, con profondo pessimismo. L’intellettualizzazione della cultura, che porterebbe anche alla penetrazione dello spirito sperimentale nelle più diverse sfere culturali, e la psichizzazione degli uomini nella moderna cultura industriale, si riflettono secondo Gehlen nelle arti visive così come nei romanzi. Ciò varrebbe, in generale, per una crescente soggettivizzazione implicante al contempo una perdita di esperienza immediata, a cui corrisponderebbe un ridotto senso della realtà. Ciononostante, il nervosismo e la sovrastimolazione poterono anche trasformarsi assolutamente in una fonte di ispirazione per i pittori contemporanei. Il ruolo delle avanguardie all’inizio del Novecento, la cui straordinaria intelligenza artistica viene addirittura celebrata in Zeit-Bilder, in queste caratterizzazioni rimane ancora legato piuttosto alla dissoluzione del pathos delle concettualità artistiche tradizionali.
G. B. Le filosofie di Adorno e Gehlen si incontrano, per alcuni aspetti, nel modo di intendere e descrivere la relazione dell’uomo tanto a se stesso, quanto alla realtà esterna in quella che Gehlen chiama “società industriale”. Ciò che sembra marcare la distanza fra i loro approcci è però l’accettazione (in Gehlen) o viceversa il rifiuto (in Adorno) di queste modalità di relazione, da loro descritte come appartenenti alla natura, e quindi al destino, dell’essere umano. Lei crede che questo aspetto un po’ disincantato e cinico del pensiero di Gehlen, che lo porta all’accettazione della realtà esistente anziché al suo rifiuto (come in Adorno o ancora di più in Herbert Marcuse), sia motivato solo da motivi interni e conseguenti al suo percorso intellettuale o anche da motivi personali?
K.-S. R. Cominciamo dall’accertamento dei relativi rapporti. Gehlen si considerò sempre un sostenitore di una forma di conservatorismo in linea di principio non avversa al progresso. Tuttavia, le antitesi astratte alla realtà non gli apparivano convincenti e ogni progresso, a suo giudizio, presentava sempre un prezzo da pagare, anche in termini di perdite. Perciò, il progresso esigerebbe una giustificazione, la tradizione invece no. Da un punto di vista antropologico ciò si collega al fatto che, per Gehlen, l’uomo vada descritto come “un essere plasmabile, danneggiabile, dotato di un’enorme plasticità”, che è assolutamente “capace di degenerazione” e che bisognerebbe dunque proteggere da se stesso. Nel caos delle guerre civili di religione del Seicento, questa posizione era stata sostenuta anche da Thomas Hobbes. Le ‘visioni ideali’, secondo Gehlen, non potrebbero essere in alcun modo un tema adatto a una scienza sperimentale. Trovo che l’antropologia di Gehlen, che non è in alcun modo ‘biologistica’, sia riuscita a cogliere magnificamente la variabilità dell’agire umano e delle posizioni dei sensi a esso connesse, un po’ come la sua rappresentazione dell’uomo come “essere dotato di fantasia”. Lo stesso vale anche per il suo studio, sorretto da un’ampia letteratura etnologica, sull’origine delle istituzioni nelle società arcaiche. Tuttavia, a questo punto bisogna anche sottolineare come in Gehlen sia sorta una grande paura di fronte all’incalcolabile creatività umana, che egli stesso aveva descritto con tanta immedesimazione, e come egli si sia posto quindi alla ricerca di sostegni capaci di offrire un ordine a questo “essere carente”. Sotto questo punto di vista, ogni utopia gli risultava sospetta. D’altra parte, neanche per Max Horkheimer e Theodor W. Adorno (a differenza di Herbert Marcuse o, in maniera persino maggiore, Ernst Bloch) le utopie concrete costituivano in alcun modo lo scopo del pensiero. Piuttosto, per loro si trattava di chiarire e rendere visibili le lacune della società di volta in volta esistente, soprattutto l’insufficiente mantenimento delle promesse della società borghese che, nella sua fase rivoluzionaria, aveva scritto sulle proprie bandiere “libertà, uguaglianza, fraternità” e che – come afferma Adorno in modo un po’ indefinito – aveva poi revocato tutto ciò nel “principio di scambio” o, al massimo, aveva offerto agli uomini sfruttati delle compensazioni tramite l’industria culturale. Sicuramente per Gehlen tutto questo era troppo astratto e troppo poco saturo d’esperienza. Lo scambio civile e curato fra questi due analisti analogamente pessimisti, che faceva emergere solo in modo molto cortese il peso dei due avversari (sebbene Adorno, per esempio, nel 1969 si fosse difeso dall’accusa di essere caduto nella ‘rassegnazione’), non poteva coprire le differenze vigenti fra loro nell’attribuzione causale dei motivi alla base della decadenza della società nell’epoca dell’industrialismo e del consumo di massa a esso connesso. Per Gehlen non solo la rivolta studentesca, ma anche la promessa fatta nell’ottobre 1969 dal Cancelliere Federale socialdemocratico Willy Brandt di “osare più democrazia”, costituiva una conferma delle sue peggiori aspettative. E, a questo proposito, egli attribuiva ai membri della ‘Scuola di Francoforte’ un ruolo influente in una siffatta disgregazione degli ordini istituzionali. A dispetto di tutte le concordanze con Adorno nel campo della critica della cultura – come, ad esempio, riguardo a un viepiù crescente “mondo amministrato” e ad un’ormai irreversibile cattura degli uomini attraverso il sistema ‘industriale’ o, come Adorno amava sottolineare, ‘capitalista’ –, Gehlen sospettava (un po’ superficialmente) che il ‘francofortese’ fosse però il rappresentante di un “semi-marxismo liberale” – sebbene in un’intervista televisiva egli abbia anche ammesso che i testi marxisti non rientravano nel campo delle sue conoscenze. Una volta mi disse: “Adorno dopotutto è un comunista che non ha il coraggio di ammetterlo!”. Si trattava di un giudizio errato, ma non mi fu possibile chiarire il fraintendimento. E poi, riguardo a Jürgen Habermas – col quale Gehlen se l’era presa davvero seriamente per via della stroncatura della sua ultima monografia Moral und Hypermoral (trad. it. Morale e ipermorale. Un’etica pluralistica, Ombre Corte 2001) –, una volta mi domandò: “Lei lo capisce Habermas?” Io ritenevo proprio di sì e provai ad avviare un tentativo di spiegazione del programma di ricerca habermasiano, ma Gehlen mi interruppe subito: “Non si capisce proprio un bel niente”. Tutto questo, però, tradiva una conoscenza molto limitata degli scritti dei principali esponenti della teoria critica. Anche Adorno, del resto, pur continuando a invitare sempre Gehlen a organizzare nuovi dibattiti pubblici fra loro, non aveva letto quasi nulla di Gehlen in maniera seria e approfondita. Un’eccezione, in tal senso, era rappresentata da Zeit-Bilder, il capolavoro gehleniano di sociologia dell’arte, il quale aveva suscitato in Adorno una “impressione straordinaria”. A colpirlo, in particolare, era stato “il fatto che Lei si identifichi con la questione dell’arte nuova senza cadere nell’apologetica e senza negare il momento di negatività che appartiene necessariamente alla cosa stessa” (come Adorno si premurò di spiegare a Gehlen in una lettera del 2 dicembre 1960). Le concordanze fra i due autori, che erano assolutamente diversi fra loro non solo dal punto di vista politico ma anche da quello metodologico, risiedevano nel fatto che Gehlen, ‘uomo visivo (Augenmensch)’, e Adorno, ‘uomo uditivo (Ohrenmensch)’, avessero una cosa in comune: cioè, essi (sebbene nel caso di Gehlen non esplicitamente) prendevano le mosse da quella che Hegel, con un termine calzante che Adorno amava citare, aveva chiamato ‘mediazione’, vale a dire dal fatto che il rapporto delle opere d’arte alla società vada ricercato nelle opere stesse e non solo nelle posizioni biografiche o politiche degli artisti/delle artiste e del loro pubblico. E, pur senza aver fondato tutto ciò su un piano metodologico, le analisi di Gehlen si rivelavano essere esattamente in questo senso dei tentativi di decifrazione delle opere d’arte e dei tratti caratteristici dell’epoca oggettivati in esse (con uno specifico ‘spirito del tempo’). Gehlen, al pari di Adorno, prendeva le mosse da catastrofi vissute. Gehlen, il quale avvertì una crisi della borghesia già al volgere del secolo, sopportò con immutabilità il fatto che neanche per una volta l’impero tedesco fosse riuscito a esistere per più di mezzo secolo. Egli richiamò anche l’attenzione ripetutamente su quanto fosse doloroso dover fare l’esperienza del succedersi uno dopo l’altro di quattro sistemi politici massimamente diversi fra loro. La biografia di Adorno, invece, fu profondamente segnata dal fatto di esser stato costretto all’esilio a causa dell’avvento del regime nazista. La sensazione della vita ‘danneggiata’ o ‘offesa’ – secondo la formulazione fornita nel sottotitolo del suo libro del 1951 Minima Moralia (trad. it. Einaudi 1974) – divenne il fondamento del suo pensiero. Proprio gli aforismi contenuti in quest’ultimo libro tematizzano il disfacimento della cultura borghese in molteplici modi. Anche l’atteggiamento dei due pensatori era del tutto diverso: Gehlen attribuiva a una concatenazione di disastri politici la colpa per la perdita dell’ordine da lui osservata, mentre Adorno coglieva la fatalità nell’esser-catturati dalla società attraverso i principi della “reificazione” sotto il “principio di scambio”. Certamente non si trattò di ‘amicizia’, come per Helmut Schelsky nel suo necrologio di Gehlen o per Clemens Albrecht nel suo lavoro sul ruolo della Scuola di Francoforte per la fondazione intellettuale della Repubblica Federale. Dal mio punto di vista, le discussioni fra Adorno e Gehlen – i quali spesso si attestavano a vicenda le concordanze fra i propri pensieri – erano ‘un richiamarsi dalla cima degli alberi per sfuggire ai lupi’. Nel 1969 Adorno invitò ancora una volta la propria stimata controparte (che però, alle spalle, veniva anche giudicata sprezzantemente) a un’ennesima discussione pubblica. Nel far ciò, egli si servì di una bella immagine di Walter Benjamin (seppure intendendola in modo diverso da quest’ultimo), allorché scrisse che lui e Gehlen avrebbero dovuto “ritrovarsi nuovamente a un bivio per strappare alle persone le loro convinzioni”. Tuttavia, Gehlen era già talmente indignato per la rivolta studentesca, che attribuiva essenzialmente all’influenza della Scuola di Francoforte (se solo però egli si fosse accorto, ad esempio, del duro conflitto che sorse allorché Adorno chiamò la polizia dopo l’occupazione dell’Istituto per la Ricerca Sociale da parte degli studenti), e per siffatte ‘attività sovversive’, che gettò la lettera di Adorno sulla mia scrivania presso l’Istituto di Sociologia di Aachen dicendo: “Il Suo Adorno. Non gli risponderò più”. Ho citato queste storie, che fanno luce sul contesto sottostante, solo per far capire come entrambi i rappresentanti di una diversa visione della società e della ‘natura dell’uomo’ si apprezzassero a vicenda soprattutto perché i loro dibattiti gli consentivano di ritagliarsi uno spazio particolare all’interno del discorso pubblico. Tra l’altro, trovo che tutti questi dialoghi fra loro, indubbiamente istruttivi, spesso si collochino però al di sotto del livello raggiunto dai due pensatori come autori di lavori scientifici. Ad ogni modo, tali dialoghi sono comunque decisamente significativi per capire lo sviluppo storico-spirituale della Repubblica Federale.
G. B. Sia Adorno che Gehlen si propongono di esaminare l’arte astratta, o arte moderna, da una prospettiva non riconducibile né alle correnti formaliste né a quelle storiciste che imperversavano in quegli anni nel dibattito estetico. Gehlen definisce la sua come una prospettiva sociologica e anche Adorno sviluppa una sociologia della musica: cosa intendevano esattamente i due autori con ciò?
K.-S. R. I lavori sociologici di Adorno si inscrivevano sempre nel progetto (in definitiva incompiuto) di una teoria critica della società, all’interno del quale la ricerca sociologica aveva il compito di stabilire un accesso empirico alla realtà. Un tale interesse – in ogni caso profondamente influente per la giovane sociologia post-bellica in Germania – per un’osservazione sociologica attuale della società, dopo il crollo dell’annunciato ‘impero millenario’, era condiviso da molti esponenti di questa materia. Ciò valeva anche per Gehlen, il quale per questo motivo si era spostato dalla filosofia alla sociologia dopo essere stato titolare di cattedre di filosofia a Lipsia, Königsberg e Vienna. La sociologia offriva la promessa di scatenare la curiosità di Gehlen per le trasformazioni sociali – in ciò, invero, in modo non dissimile da Adorno – come vademecum contro la disperazione! Tuttavia, proprio per le sue analisi delle arti moderne all’inizio del Novecento, intese come la più grande rivoluzione artistica dai tempi del Rinascimento, Gehlen optò, in consapevole revoca all’approccio della storia dell’arte, per un metodo sociologico del tutto diverso di avvicinamento a questi fenomeni che, al principio, erano spesso apparsi incomprensibili anche a lui.
G. B. Tanto in alcuni scritti di Adorno quanto in alcuni scritti di Gehlen troviamo un uso mirato e significativo del concetto di ‘cristallizzazione’. Potrebbe fornirci una definizione di tale concetto e aiutarci a capire le affinità e le divergenze nell’uso del concetto di ‘cristallizzazione’ da parte dei due filosofi?
K.-S. R. In Minima Moralia Adorno intende con ‘cristallizzazione’ una costrizione sociale all’adattamento degli individui attraverso l’economia politica. Anche in Gehlen si tratta di una caratteristica strutturale e anch’egli parla di “cristallizzazione economica” e “politica”, stimolato in ciò da Pareto. Tuttavia, questo termine diventa poi in Gehlen un concetto-chiave per la sua tesi della “fine della storia” (o posthistoire). Anche in questo caso ne va di una limitazione strutturale dell’umanità, così come in ciò che Friedrich Nietzsche aveva annunciato con pathos negativo per gli “ultimi uomini” (destinati a vivere eternamente, ma ormai incapaci di grandi idee o azioni) nel quinto paragrafo del Prologo a Così parlò Zarathustra. Si può anche scorgere una vicinanza fra Adorno e Gehlen per quel che riguarda il lamento sulla restrizione sociale dell’individualità, sebbene le cause di questo processo vengano viste in modo completamente diverso. La posthistoire viene definita da Gehlen con l’espressione “cristallizzazione culturale”, la quale può ricordare Stendhal (il quale intendeva con ciò l’opposto della paralisi e, semmai, le bizzarre trasfigurazioni che subisce un uomo ardente di desiderio nella fase dell’innamoramento) e Vilfredo Pareto, e per la quale egli fu probabilmente stimolato da Roderick Seidenberg. Tale espressione, in Gehlen, sta a indicare la condizione che subentra quando “in un determinato ambito culturale […] le possibilità ivi previste sono state sviluppate per intero quanto alle loro risorse fondamentali”. A quel punto, non sono più possibili nuovi progetti relativi al mondo. Per Gehlen si trattava della fine dei “grandi atteggiamenti-chiave” che, invero, continuano a vivere in molti uomini ma solo come “una sorta di modello vuoto” che “non si lascia più riempire con un contenuto mondano o, sul piano etico, con istruzioni chiare”. Ciò, per Gehlen, valeva anche per la modernità artistica, la cui intelligente genialità, quindi, era ormai passibile soltanto di imitazione nelle arti contemporanee. Come esempi di “istituzioni cristallizzate” Gehlen indicava la “definitività stabilizzata” delle religioni, dei sistemi politici o delle arti, mentre solo le scienze naturali e la tecnica sarebbero ormai “ambiti influenti di un progresso non revocabile in dubbio e misurabile”. Inoltre, a suo giudizio, ormai non si potrebbe più esistere al di fuori dei contesti tecnici: “in un futuro non troppo lontano non si potrà più cambiare affatto il milieu, il mondo apparirà ovunque più o meno uguale e il guscio vitale dell’umanità, nelle sue strutture fondamentali, sarà immodificabile e sempre più rigido”. Difficilmente Adorno avrebbe potuto esprimersi in modo diverso al riguardo.
G. B. Anche in Gehlen, come in Adorno, l’attenzione per l’aspetto formale dell’opera d’arte non è mai fine a se stesso, ma al contrario è proprio nella forma che viene ravvisata la traccia che la storia imprime nell’arte. Rispetto ad Adorno, però, in Gehlen è riscontrabile anche un interesse per il contenuto delle varie opere prese in esame. Secondo lei, è possibile che questa differenza sia dovuta alla peculiarità dell’arte figurativa, oggetto principale dell’indagine di Gehlen, rispetto alla musica, al centro degli interessi di Adorno?
K.-S. R. È evidente come i diversi generi artistici chiariscano le differenze sussistenti fra i due avversari. Basti pensare all’orrore di Adorno per qualsiasi ‘musica a programma’, con la cosiddetta messa in musica di porzioni della realtà (non avendo avuto figli, gli venne risparmiato per esempio Pierino e il lupo di Prokofiev). Inoltre, ciò può anche essere dimostrato attraverso la definizione plessneriana della musica come perfezionamento astratto delle modalità espressive puramente musicali. Gehlen, per contro, aveva sempre sottolineato ad Adorno di non capire nulla di musica. Tuttavia, penso che Gehlen, proprio sulla base di un principio simile, concordasse con Adorno sulla presenza nell’opera d’arte di tracce oggettivate delle evoluzioni sociali, nonostante egli – in quanto giovane uomo, elogiato da molti come hegeliano di particolare acume – non abbia ricavato il proprio principio analitico da questa filosofia. Quanto a ciò, entrambi i filosofi – i quali, in definitiva, operavano davvero come sociologi – si trovavano più vicini fra loro di quanto non lo fossero i loro rispettivi orientamenti metodologici e politici. Vale la pena di osservare i due avversari a partire da una tale mescolanza di somiglianza e incompatibilità.
(traduzione dal tedesco e cura di Stefano Marino)