Piero Ciampi: inquietudine di un anti-eroe

Il 19 gennaio 2021 ricorrono i cinquantuno anni dalla prematura morte di Piero Ciampi, il chansonnier livornese riconosciuto da molti come “il più grande” tra i cantautori italiani. Su Scenari Federico Murzi ricorda un artista che, soltanto da pochi anni e con estremo ritardo, ha ottenuto l’attenzione che gli è stata negata in vita.

“Io confesso/ Che non ho fatto la guerra/ Ed ho parlato alla gente/ Come se fossi un eroe/ Confesso/ Ho parlato per anni/ Perché qualcuno capisse”.

In questi primi versi di Confesso (tratta dall’LP Piero Litaliano), Piero Ciampi sembra quasi redigere una precisa e spietata lettera di presentazione.
Amante tanto della poesia quanto del bere, livornese, sanguigno, ruvido, e al tempo stesso capace di una malinconica profondità romantica, Piero Ciampi è stata una figura fra le più controverse e sottostimate della canzone italiana a cavallo fra gli anni Sessanta e Settanta. In realtà, per amore di cronaca, va detto che la sua attività comincia già nella prima metà del decennio post-bellico: si cimenta come cantante in un trio con i fratelli Paolo e Roberto.
Successivamente farà il Car a Pesaro, dove conoscerà Gianfranco Reverberi. Fuggirà in Francia nel 1957, per tornare due anni dopo in Italia, nel pieno della cosiddetta canzone d’autore.
Seguiranno le sciagure discografiche come cantautore e come direttore artistico, le stroncature della critica musicale dell’epoca, la collaborazione con Nada, l’amicizia con Gino Paoli, Luigi Tenco e Alberto Moravia, le notti brave con Carmelo Bene. Sono solo alcuni dei molteplici tasselli di un mosaico complesso, di un’esistenza tormentata e segnata dall’inquietudine. Anche se, all’indomani dei suoi primi singoli, in un noto articolo della “Domenica” del “Corriere” si preconizzava per lui un successo paragonabile a quello di Mina, Piero Ciampi cadrà nell’oblio.

Roberto Buttafava sosterrà, nel 1972, che in Francia Piero sarebbe diventato un nuovo Aznavour – mica robetta. Un’affermazione che suona quasi ironica, se si pensa che la Francia aveva accolto nel 1955 un Piero Ciampi spiantato, con in mano solo una chitarra, battezzandolo Piero L’Italianò, facendogli conoscere mostri sacri come Louis-Ferdinand Cèline e George Brassens e portandolo a calcare i palchi dei locali notturni.
Saggezza popolare insegna: nemo profeta in patria. E pensare che probabilmente, senza Piero Ciampi, bistrattato in vita e misconosciuto ai più tutt’ora, buona parte del cantautorato italiano oggi noto alle folle non ci sarebbe stato: pare che Fabrizio De André, non l’ultimo autore di canzoncine, abbia ammesso di essere profondamente debitore nei confronti di Ciampi.


Roberto Vecchioni ha affermato che Ciampi “è stato il primo cantautore della storia italiana […] con un pensiero diverso rispetto alla normalità mediocre della canzonetta italiana […] è arrivato a chi ha attenzione, a chi sta lì e ascolta, alle persone intelligenti”.
Come ebbe similmente a dire un altro cantautore suo amico, Pino Pavone: “forse non tutti possono comprendere la poesia, in riferimento a quando il padre di Piero, Umberto, rifiutò il libro di versi 53 poesie portatogli in regalo dal figlio. Lavoratore di pelle e uomo pragmatico il primo, poeta e cantautore il secondo: due mondi destinati a non incontrarsi”.


Sul piano compositivo, la grandezza di Piero Ciampi non è stata, secondo Vecchioni, la sua abilità di tessere melodie, per le quali si è avvalso della collaborazione di un nome tutelare come quello di Gianni Marchetti.
Per apprezzarlo, bisogna cogliere la sua profondità, la sua pensosità, la sua disperazione della vita, fil rouge che, stando a Vecchioni, lega il cantautore livornese a Luigi Tenco. Un aspetto fondamentale è la profondità dei testi: un collage di toni malinconici e caustici, fra tutti Disse: “Non Dio, decido io”, dal disco Dentro e Fuori, rappresentazione metropolitana di un suicidio: “Da un marciapiede all’altro/decise all’improvviso/di incontrare ad ogni costo e subito/ la sognata pace […] Dio si assicurò che fosse morto/ Lo era ormai per sempre/ lasciando su questa terra un dolore/ in più”.
Senza dubbio, le doti interpretative di Piero Ciampi sono fuori dal comune, coadiuvate da una voce che sembra emanazione diretta delle notti sul porto di Livorno, strascicata, imperfetta, sideralmente distante dal “bel canto all’italiana”, eppure carica di un fascino e di un magnetismo unici. E nella sua produzione musicale, c’è tutta l’agitazione che ha segnato la sua esistenza: dalla brevità incisiva del suo esordio Piero Litaliano (1963, CGD), dove a fare da contraltare ai testi taglienti e scarni ci pensano gli arrangiamenti orchestrali che strizzano l’occhio al pop italiano dell’epoca, alla profusione verbosa ma mai eccessiva della pietra miliare Io e te abbiamo perso la bussola (1973, RCA) all’irrequietezza del già citato Dentro e fuori (1976, RCA), che vede coabitare la bossa di Uffa che noia e la swingata Don Chisciotte con la psicotica Raptus, dove si alternano sapientemente echi jazz e funk.

Ciampi era arrabbiato perché livornese, anarchico e comunista, come ebbe a dire in un’intervista a Lina Agostini per il Radiocorriere.
La sua Livorno era un’isola, lui un Robinson Crusoe, naufrago perennemente povero perché non aveva mai avuto insieme “una frittata di cipolle, un bicchiere di vino, un caffè caldo e un taxi alla porta”.
Tormentati e turbolenti i suoi amori. Due mogli: la prima irlandese, Moira, con cui ebbe un figlio, Stefano; la seconda romana, Gabriella, dalla cui relazione nacque la Mira de Il vino. Come lui stesso scrive sulla copertina del suo primo Lp: “Ho scritto queste dodici canzoni per una donna che ho amato e che ho perduto. Questi dodici ricordi sono la Bastiglia del mio cuore. Per la mia donna ho fatto cose ben più grandi di queste canzoni, ma quelle cose sono ormai perdute. Ora restano soltanto dodici canzoni”.


Il 19 gennaio 1980, un cancro si porterà via il livornese iracondo che aveva “tutte le carte in regola per essere un artista”, che beveva “come un irlandese” e dal “carattere melanconico”.
Nello stesso anno, l’amico fraterno Gino Paoli inciderà un disco per omaggiarne la memoria. Nel 2016 sarà la volta del conterraneo Bobo Rondelli. Nella pensosità sorniona e drammatica di Adius, contenuta nella raccolta postuma L’album di Piero Ciampi (1990, RCA) sembra esservi un compendio della sua esistenza corsara, fra vino, bettole, amori tragici e poesia. Il liberatorio vaffanculo ripetuto ossessivamente nella canzone, culmina nei versi: “Ma sono secoli che ti amo/ Cinquemila anni/ E tu mi dici di no/ Ma vaffanculo/ Sai cosa ti dico/ Vaffanculo/ Te, gli intellettuali e i pirati, vaffanculo”.
Scrutando nello sguardo profondo di Piero Litaliano, nei suoi testi gravi, nella sua voce increspata, mai come in questo caso tale proverbio ci suona familiare.


..Com’è bello il vino
Rosso rosso rosso
Bianco è il mattino
Sono dentro a un fosso
E in mezzo all’acqua sporca
Godo queste stelle
Questa vita è corta
È scritto sulla pelle
..

(da Il Vino, P. Ciampi, RCA, 1971).



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