Nel 1977, ricevuto l’incarico di curare un libro di saggi critici sull’opera di Thomas Bernhard per conto dell’editore Suhrkamp, Peter Hamm pensò che non vi fosse modo migliore per accingersi all’opera che realizzare, a mo’ di introduzione, una lunga intervista al controverso scrittore austriaco nella cascina di quest’ultimo, a Ohlsdorf, là dove la sua leggendaria misantropia lo aveva spinto a rintanarsi. Come andò la conversazione? Ce lo racconta su Scenari Mauro Maraschi, co-curatore insieme a Micaela Latini del volume Una conversazione notturna (Portatori d’Acqua Editore).
Thomas Bernhard ha sempre avuto un rapporto ambivalente con le interviste. Da un lato, come osserva Luigi Reitani, è stato “un maestro anche nella difficile arte dell’intervista”, da lui sfruttata per costruire in vita il proprio mito e “ribaltare in suo favore la curiosità e l’attenzione dei media”; dall’altro, la natura stessa della forma intervista, ovvero la presenza di un interlocutore, lo spingeva a mantenere alta la guardia per arginare il travisamento della sua poetica: “Da anni non leggo che chiacchiere nauseabonde e non posso difendermi da queste fandonie vomitevoli”. Nelle interviste Bernhard cerca di mantenere il controllo di toni e informazioni, vuole essere lui il mattatore, perché sa che basta poco a inficiare l’esito della performance: “La mia arma è la parola scritta, non quella parlata”, avrebbe dichiarato in seguito alle polemiche sollevate dalla prima di Piazza degli eroi (4 novembre 1988). La giornalista Krista Fleischmann, che lo seguì fin dai primi anni Settanta, ricorda che all’inizio della loro collaborazione aveva dovuto “lottare accanitamente” per ottenere un’intervista, percorrendo spesso il tragitto da Vienna a Ohlsdorf “senza alcun risultato”; soltanto con il passare degli anni Bernhard “aveva considerato il [suo] lavoro con crescente attenzione”, fino a diventarne un sostenitore. Come rileva Reitani, Fleischmann era riuscita a guadagnarsi la sua fiducia “con straordinaria sensibilità e discrezione”, tanto che quando la televisione austriaca ipotizzò un ritratto firmato da un noto regista, in occasione del suo cinquantesimo compleanno, Bernhard si oppose e comunicò ai responsabili della programmazione: «Lo si deve affidare alla Fleischmann; lei la conosco, se proprio si deve fare, lo faccio solo con lei». Rileggendo le interviste realizzate a Maiorca nel novembre del 1981 si intuisce subito il tipo di simbiosi che si era instaurato tra i due:
FLEISCHMANN: Sono proprio un buon medium per lei, non crede? Mi comporto come se non sapessi nulla né di lei né in generale, e pongo domande apparentemente molto stupide.
BERNHARD: Sì, ma non sono poi così stupide.
FLEISCHMANN: Quando si sono letti i suoi libri, non si ha più bisogno di fare domande.
BERNHARD: Ma continui pure a fare queste domande, non esistono domande stupide, esistono solo risposte stupide.
Questo era ciò che chiedeva Bernhard al suo intervistatore: rispetto, ironia e autoironia, ma soprattutto la capacità di stare al gioco, o meglio, di limitarsi a fare da spalla. Tutto il contrario di ciò che gli fu riservato dal giornalista André Müller, che nel 1971 si insinuò a casa sua grazie alla mediazione di un’amica comune e con la benedizione di Canetti (“Lo saluti da parte mia, questo lo renderà più disponibile”) per poi consegnare allo «Abendzeitung» un’intervista che infastidì Bernhard per via del tono beffardo, delle osservazioni superflue (“il naso poroso”) e dell’enfasi su determinate dichiarazioni (“Bisognerebbe tagliare le orecchie a tutti quelli che fanno dei figli”); in seguito Bernhard ebbe modo di riconsiderare quell’approccio (“Lo scrittore stesso aveva dichiarato di fronte a me […] che nel punto in cui avevo descritto il dondolio del suo piede avevo colto tutta la sua malinconia” ha sostenuto Müller) o non avrebbe incontrato Müller una seconda volta, nel 1979, anche se l’esito fu altrettanto discutibile. Più complesso è il caso dell’intervista realizzata all’inizio del 1977 con il poeta e critico letterario Peter Hamm.
Nel 1977 Hamm ha quarant’anni ed è un estimatore di Bernhard da quando ne aveva venti. Bernhard ne ha quarantacinque, ha già dato alle stampe Perturbamento (1967), La fornace (1970) e Correzione (1975), e la sua fama è in costante ascesa, con tutte le derive peggiori del caso: “ci sono degli studenti universitari che […] girano intorno a casa mia, bussando dappertutto, e se non gli apro mi rompono le finestre”. Hamm e Bernhard si conoscono da vent’anni, da quando Hamm ha recensito entusiasticamente l’esordio poetico di Bernhard e i due si sono incontrati tramite un amico comune. Negli anni successivi si è instaurato un rapporto di stima e fiducia che ha permesso ad Hamm di prendere parte “ad alcune serate tipicamente bernhardiane, all’apparenza divertenti fino alla pagliacciata, ma costantemente interrotte da un profondo scoramento camuffato da humour nero”; un rapporto di stima e di fiducia che si è consolidato nel tempo e che nel 1976, quando Suhrkamp mette in cantiere una raccolta di saggi a lui dedicati, spinge Bernhard a suggerire Hamm come curatore. Hamm propone di realizzare un’intervista a mo’ di introduzione e Bernhard accetta, contro ogni previsione, anche perché è in gioco “un certo sentimentalismo”. Così, in un gelido giorno d’inverno, Hamm si presenta a Ohlsdorf con la compagna, l’attrice Marianne Koch; Bernhard, “guidando a una velocità mai raggiunta da altri letterati”, li porta a cena “in una trattoria poco invitante situata in un angolo sperduto dalle parti del lago Traunsee, un posto che sembra uscito da uno dei suoi primi sinistri racconti”; la cucina si rivela mediocre e i tre ripiegano sul vino, trascorrendo la serata senza accennare all’intervista. È soltanto tornati a Ohlsdorf che, grazie allo sprone di Koch, prende il via la routine del botta e risposta.
Come già detto, Bernhard e Hamm si conoscono da vent’anni, hanno un rapporto di stima e fiducia reciproca e sono anche un po’ alticci, eppure fin dalle prime battute lo scrittore si diverte a mettere in difficoltà l’interlocutore: “Alcuni dei suoi antenati erano contadini” premette Hamm, e Bernhard: “Ho avuto tutti i tipi di antenati finora esistiti, come chiunque. Non ha senso dire che uno ha degli antenati contadini, o di altro tipo, perché in fin dei conti tutti sono imparentati con tutti, o no? A patto che uno abbia compreso la natura, o che voglia comprenderla”. La prima parte dell’intervista è incentrata sul vissuto dell’autore: Bernhard si confessa senza pudore, ma in realtà è una roccaforte di parole, nasconde la sua identità più profonda nelle segrete dell’io, o nel punto più alto di una torre, e risponde alle domande biografiche con distacco, ridendo delle proprie disgrazie e, in generale, dando l’impressione che stia parlando di un personaggio più che di se stesso. In tal senso si può dire che, da un punto di vista letterario, il Bernhard delle interviste e quello dell’Autobiografia non siano più vicini all’uomo Bernhard di quanto lo siano Rudolf, Roithamer e tutti gli altri. Bernhard ha sempre giocato con questa ambiguità, dissociandosi dalle dichiarazioni dei suoi personaggi ma esprimendosi come loro durante le interviste. È quindi comprensibile che gli vengano spesso attribuite sentenze pronunciate dai suoi personaggi (anche se è Murau, in Estinzione, 1986, a dire di aver “sviluppato la [sua] arte dell’esagerazione […] fino a vette incredibili”, ed è Reger, in Antichi Maestri, 1985, a dire che la sua infanzia sia stata “l’inferno”, e così via); ma bisogna rilevare che le logiche interne delle opere di Bernhard sono più affini a quelle del teatro che a quelle di certi romanzi filosofici e che Bernhard non mira a costruire un: sistema di pensiero coeso, come sembra confermare il suo approccio alla filosofia: “Tra i filosofi mi affascinavano soprattutto quelli che non avevano un sistema. Come Pascal e Montaigne… […] Molto presto avvertii questa fascinazione per qualcosa che in fondo non capivo affatto: la mia esperienza con la filosofia è sempre stata puramente istintiva”. Attraverso i romanzi Bernhard non specula sulla realtà, bensì ne mette in scena una.
Il risultato è una letteratura con elementi di autofiction nella quale l’autore desunto fa capolino non in qualità di testimone attendibile, bensì come un alter ego funzionale alla coerenza della voce e dei ragionamenti esposti in forma monologica. Alla trama si sostituiscono l’orchestrazione, la suddivisione in movimenti, i cambi di tempo: “Sì, considero sia i pezzi di prosa che quelli di teatro come delle partiture. Ma i critici vedono soltanto la voce o il pianoforte, e di conseguenza sono sempre fuori strada, perché non vedono l’insieme. […] Secondo me un critico letterario dovrebbe frequentare il conservatorio per almeno tre anni. La letteratura ha moltissimo a che fare con la musica. E chi non ha conoscenze musicali è già inadeguato in partenza. Le opere narrative di Bernhard sono pertanto più simili a pièce teatrali musicate che a romanzi, e se Bernhard vi appare, in qualche misura, lo fa più in qualità di attore, regista o compositore che in quanto essere umano. Bernhard è convinto che non ci sia nulla di interessante nell’identità dell’autore (“Non ho mai avuto il desiderio di incontrare gli scrittori”) e che, di conseguenza, un’intervista non debba essere un approfondimento psicologico bensì un tassello del progetto dell’artista. Un dialogo spontaneo ed efficace è impensabile (“Parlo un linguaggio che io solo capisco, nessun altro, così come ognuno parla soltanto il proprio linguaggio, e quelli che credono di capire sono degli imbecilli oppure dei ciarlatani”, dice il Bernhard personaggio in La cantina, 1976), e se comunicare è impossibile non ci rimane altro che andare in scena.
“E allora perché ha dedicato del tempo a me?” chiede Hamm alla fine dell’intervista del 1977. “Dipende da vari fattori” risponde Bernhard. “In primo luogo, […] è in gioco un certo sentimentalismo, perché si tratta di lei e perché la conosco, direttamente o indirettamente, da quasi vent’anni. E poi perché tutto ciò che le ho detto mi è completamente indifferente. Non ne ho il controllo. Non ha alcun senso. Di più non saprei dire”. Questa chiusa involuta nasconde in sé due cose: la possibilità di un pentimento e un ricatto morale: “Mi rimetto alla sua responsabilità”, (come Bernhard diceva a Fleischmann). In più, nel 1977 Bernhard ha già dato alle stampe i primi due tasselli dell’Autobiografia, sta “costruendo in vita il proprio mito” e sa già che certe informazioni non dovranno essere diffuse “sotto forma di una chiacchierata notturna troppo informale, bensì come testo letterario compiuto”. È anche per questo che, presa visione della sbobinatura, Bernhard si affretta a scrivere al suo interlocutore: “Caro Peter H., […] l’intero testo (orribilmente trascritto) del nostro unico (ultimo?) esperimento risulta del tutto inservibile e non se ne deve assolutamente utilizzare nemmeno una riga. […] Mi congedo dal mio primo critico (1957), che io avevo immaginato vecchio e che era invece così giovane. Suo, Thomas Bernhard”. Non è possibile stabilire in che misura sia stata la qualità della trascrizione a dissuaderlo; più probabilmente Bernhard non era rimasto soddisfatto della performance, inficiata dalla graduale comprensione che, quantomeno in quella modalità, Hamm non rientrava tra i suoi comprimari ideali.
L’intervista del 1977 è rimasta archiviata per trent’anni, finché Hamm non se l’è “casualmente” ritrovata tra le mani, vi ha scorto “sfumature interessanti” e l’ha fatta leggere a Ulla Unseld-Berkéwicz e Raimund Fellinger, che l’hanno considerata imperdibile per i lettori di Bernhard; a quel punto, ottenuta l’autorizzazione del fratello dello scrittore, e pur “con sentimenti contrastanti”, Hamm ha acconsentito alla pubblicazione, avvenuta nel 2011 presso Suhrkamp. Nove anni dopo ho avuto il piacere di partecipare alla sua edizione italiana, voluta dall’editore Portatori d’acqua e tradotta da Elsbeth Gut Bozzetti, nonché l’onore di collaborare con Micaela Latini, tra i massimi esperti italiani di Bernhard, e di contribuire con un tassello importante al mito di uno dei giganti della letteratura del secondo Novecento.