Nessuno si salva da solo

Quando, oltre vent’anni fa, Ulrick Beck parlava della “società globale del rischio” non poteva immaginare i drammatici effetti che la pandemia di Covid-19 sta provocando sull’intero modo di vivere mondiale. Già allora, tuttavia, Beck sottolineava quanto fosse urgente il bisogno di nuovi quadri di riferimento sia sul piano sociologico sia su quello politico, in modo da affrontare la sfida imposta dai processi di globalizzazione. E invece, si è assistito al ritorno sulla scena proprio delle realtà che Beck riteneva ormai superate: la nazione, come forma di appartenenza collettiva; lo Stato, quale protagonista decisivo delle politiche economiche e sociali; i confini, quali dispositivi di controllo della mobilità umana indesiderata e strumento di protezione dello spazio in cui si vive. La pandemia di Covid-19 ha perciò contribuito ad acuire le distanze tra due diversi modi  di vedere il mondo. Si tratta delle prospettive che, non certo senza una buona dose di semplificazione, si potrebbero classificare con le etichette di “globalisti” o “cosmopoliti”, da un lato, e “statalisti”, “nazionalisti” o “sovranisti”, dall’altro. I primi propongono la visione di un mondo più aperto ai movimenti e ai flussi delle persone e aspirano a una struttura di governance cosmopolitica o almeno transnazionale. I secondi pensano invece che la comunità nazionale possa essere mantenuta sicura solo grazie al rafforzamento degli apparati istituzionali e simbolici dello Stato, ritenuti come i soli capaci di difendere un bene supremo come la vita umana.

In che modo la pandemia di Covid-19 potrebbe aiutare a capire quale sia la prospettiva più corretta?
Alcuni, come si è visto, ritengono che la sovranità sia l’unica risposta. Se lo spazio in cui si muove il virus è la continuità di uno spazio globale privo di limiti o di ostacoli, la soluzione non può che consistere in una interpretazione confinaria della sovranità. In fondo, imporre confini e confinamenti è, da sempre, tra le prerogative esclusive dello Stato-nazione. Prerogative fra le quali rientra anche il diritto di fare la guerra, al virus in questo caso. E infatti in questi mesi le metafore belliche si sono sprecate. La pandemia sarebbe però una ulteriore dimostrazione della necessità di difendere i confini dall’incertezza e dal disordine che dominano all’esterno dello spazio nazionale. La situazione in cui tutti ci troviamo sarebbe anzi, al limite, la prova che, in circostanze eccezionali, siamo tutti nazionalisti nell’animo, impegnati a difendere la nostra tribù, costi quel che costi, e che il nazionalismo sia la sola risposta quando a essere in pericolo è la nostra stessa sopravvivenza.

Altri potrebbero suggerire che la pandemia porta a conclusioni opposte, poiché dimostra l’interdipendenza della famiglia umana di fronte alla propria comune vulnerabilità. Proprio le misure di confinamento, da quello domestico a quello nazionale, hanno fatto capire quanto siano estese e ramificate le reti delle interconnessioni transnazionali e come qualunque ipotesi di gestione autoregolativa dei processi di globalizzazione risulti ormai inadatta rispetto al compito di affrontare i problemi posti dalla pandemia. La crisi sanitaria e il devastante impatto socio-economico della pandemia hanno perciò rilanciato la necessità di un profondo rinnovamento della governance globale.
Apparentemente, sia gli uni che gli altri hanno buoni argomenti dalla loro parte. Gli “statalisti” potrebbero addurre a loro sostegno il fatto che, almeno finora, le sole misure rivelatesi (almeno relativamente) efficaci sono quelle che appartengono allo strumentario classico della sovranità: inclusioni ed esclusioni, blocchi e confinamenti, segregazioni e de-segregazioni. La logica politica sovrana si è imposta talvolta in modo autoritario e indifferente ai diritti dei cittadini, come in Cina, mentre invece, in Paesi come il nostro, restando negli argini dell’ordinamento costituzionale liberaldemocratico. Ma il fine è sempre lo stesso: la salus populi quale ultima fonte della legittimità.
Ciò nonostante, la minaccia transnazionale delle pandemie come il Covid-19 sembra rendere controproducente lo svuotamento della dimensione multilaterale, poiché se l’esito della vulnerabilità che stiamo tuttora sperimentando finisse per indurre gli Stati a ridurre la dipendenza dall’estero e ad innalzare le barriere che li dividono dal mondo esterno, il risultato sarebbe catastrofico. La destrutturazione dei sistema internazionale finirebbe infatti per incoraggiare le tentazioni isolazionistiche e per favorire involuzioni autoritarie.

Per avere successo nella lotta contro il Covid-19 è invece necessario riconoscere i rapporti di mutua interdipendenza tra tutti i Paesi e rafforzare, non indebolire, la cooperazione globale e i canali istituzionali che la rendono possibile. Per fare alcuni semplici esempi, occorre prendere atto che nessuno deve vedersi preclusa un’assistenza sanitaria adeguata se si vuole che la salute pubblica possa essere tutelata senza distruggere la privacy e la libertà dei cittadini. Occorre garantire che le risorse e le cure necessarie vengano assicurate senza aggravare le diseguaglianze di opportunità già presenti da ben prima della crisi. Scienziati e ricercatori dovrebbero condividere le conoscenze e coordinare i loro sforzi per determinare quali trattamenti producono risultati desiderabili e per sviluppare vaccini sicuri ed efficaci. E ciò attraverso una governance internazionale capace di coordinare le migliori risorse per la ricerca biomedica e di agevolare una comunità scientifica di ricerca composta da centinaia di migliaia di persone, capace di fare massa critica e di intervenire direttamente su tutto il ciclo del farmaco – in questo caso del vaccino.

Perché i sovranisti dovrebbero preoccuparsi del benessere di chi vive e soffre al di là dei confini nazionali? Perché, banalmente, il Covid-19 non conosce confini politici né amministrativi e anzi circola liberamente ovunque sia trasportato dall’animale o dall’uomo che lo ospita. Come è stato giustamente osservato, viaggerebbe anche su altri pianeti se contagiasse un astronauta. E ciò significa che arroccarsi dietro la linea Maginot delle frontiere nazionali serve a poco. Servirebbe piuttosto, per combattere il nemico invisibile che minaccia la salute o la vita di tutti gli esseri umani che vivono su questo pianeta, prendere atto della interdipendenza vulnerabile, di uomini e popoli  e dotarsi delle strutture di governance pertinenti. Per esempio, nello specifico, infrastrutture pubbliche sovranazionali di ricerca (sull’esempio del Cern, dell’Agenzia spaziale europea e di altri organismi), capaci di integrare le fasi di sviluppo, produzione, distribuzione di farmaci e vaccini e alle quali demandare anche compiti di monitoraggio e di gestione sanitaria delle emergenze. Come dire, nessuno si salva da solo.



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