Il colonialismo degli “italiani brava gente”

Non può che stupire l’evidente sproporzione tra la tenacia con cui l’Italia, a partire dagli anni ’80 del XIX secolo e fino al secondo conflitto mondiale, perseguì una politica imperialistica – fatta di aggressioni e di guerre di conquista in Africa, che non si attenuò neppure a fronte delle numerose battute d’arresto subite e degli oggettivi limiti del paese – e la scarsissima conoscenza che oggi gli italiani hanno di queste vicende storiche. Ed altrettanto può dirsi del divario che separa l’abbondanza e l’accuratezza della ricerca storica sul colonialismo italiano, che negli ultimi decenni è andata crescendo esponenzialmente per quantità e qualità degli studi condotti e per ampiezza dello spettro delle problematiche affrontate, dall’inconsapevolezza di un’opinione pubblica per lo più ignara della reale dimensione coloniale[1] della storia d’Italia e quasi completamente all’oscuro dei crimini di guerra e delle stragi di cui si sono macchiati gli italiani in Eritrea, Somalia, Etiopia, Tripolitania e Cirenaica. Tra i termini di queste contraddizioni, ad impedire che gli estremi si congiungano e che al moltiplicarsi degli studi consegua la crescita di una consapevole e critica memoria storica delle peggiori pagine del nostro passato, si erge un mito collettivo nazionale così radicato da essere pressoché inattaccabile, quello degli “italiani brava gente”[2].
Si tratta di un’autorappresentazione collettiva, falsa ed ideologica, che vuole che l’italiano, per natura, indole e cultura, non sia capace di atti efferati, di crimini crudeli e che pertanto, anche in tempo di guerra, si dimostri mite e bonario, umano e quasi sempre ben disposto anche nei confronti del nemico; è uno stereotipo così profondamente cristallizzato nella coscienza collettiva italiana che, al presentarsi di ogni occasione favorevole, ricompare per manifestarsi in tutte le sue molteplici declinazioni possibili, con l’automatismo infallibile di una sorta di coazione a ripetere. Una rappresentazione di sé, autoassolutoria e rassicurante, che dal dopoguerra – ma per alcuni suoi tratti, proprio quelli coloniali, ancora a conflitto in corso e con l’impero ormai irrimediabilmente perduto – è andata progressivamente consolidandosi, per divenire infine la materia prima di cui si sostanzia l’immagine che il popolo italiano tende a proporre di se stesso, attraverso la complessiva rimozione delle pagine peggiori della propria storia, quelle del colonialismo e delle guerre fasciste.

Tale distorta autocoscienza nazionale vuole che quello italiano sia stato un colonialismo per lo più umanitario, che costruiva strade e scavava pozzi, che esportava forza lavoro e civiltà, proprio come vuole il più duraturo degli stereotipi a supporto dell’ideologia imperialistica, quello della missione civilizzatrice. Sullo sfondo di una visione così riduttiva della presenza italiana in Africa, non c’è posto per crimini, violenze o stragi, che risultano conseguentemente minimizzati, quando non totalmente rimossi. Il paradigma del “buon italiano” ricompare poi in Europa, nei Balcani o sul fronte russo, dove ancora una volta i crimini compiuti vengono dimenticati o dove addirittura le responsabilità e i ruoli vengono capovolti e i soldati italiani da invasori diventano vittime[3]. Censure e travisamenti riduzionistici che sfiorano il negazionismo quando si tocca la delicata questione del razzismo, che non riguarderebbe, se non limitatamente e in forme sempre blande, il popolo italiano, in tal modo legittimato a sentirsi esente da colpe e corresponsabilità nella realizzazione della Shoah, eccezion fatta al massimo per il regime, soprattutto nella fase della Repubblica di Salò[4]. E poco importa che di questa edulcorata lettura del passato non si possano trovare riscontri comprovanti, a fronte, invece, delle leggi razziali ed antisemite del 1938 e dei provvedimenti legislativi segregazionisti e razzisti introdotti in A.O.I nel 1936/’37, che non solo mostrano come l’atteggiamento degli italiani in Etiopia fosse tutt’altro che fraterno e benevolo nei confronti della popolazione africana, ma, sbugiardando le interpretazioni minimaliste del razzismo italiano che lo presentano come imposizione e dettatura diretta di Berlino, provano anche che esso conobbe invece una genesi ed uno sviluppo propri e complessivamente indipendenti dall’antisemitismo tedesco e collocabili, per l’appunto, in terra africana[5]. E così pure il ricorso alla segregazione nei campi di concentramento non rientrerebbe nelle modalità propriamente italiane di combattere i nemici o di stroncare la resistenza, nonostante alla costruzione di campi, terribili per condizioni di internamento, l’Italia ricorresse in Africa già in età liberale per poi continuare durante il fascismo, non solo nelle colonie, ma anche sul territorio nazionale o nelle zone di occupazione militare in Jugoslavia[6]. Il lager e i crimini contro la popolazione civile diventano allora un’esclusiva dei nazisti, che, per compensazione del mito del “buon italiano”, assurgono al ruolo del “tedesco malvagio”[7], per indole o per tratto etnico-nazionale. Un’operazione di deresponsabilizzazione per trasferimento ad altri, o solo ad una parte, di colpe generali e complessive che si ripropose quando, nel secondo dopoguerra, il governo repubblicano, rivendicando un mandato sulle ex-colonie, escluse dalla richiesta l’Etiopia, per limitarsi ai soli domini africani prefascisti, tentando di prendere le distanze dal cattivo colonialismo fascista e di presentare un’immagine positiva del buon colonialismo del periodo liberale, che aveva inviato oltremare non tanto soldati a conquistare, ma piuttosto contadini a lavorare.

Un fotogramma tratto dal film Italiani, brava gente di Giuseppe De Santis (1964)

Ben diversa è la realtà storica, perché per ambizioni e finalità, il colonialismo italiano non ebbe molto da invidiare a quello di altre potenze europee del tempo e il suo carattere tardivo fu motivato dall’altrettanto tarda unificazione nazionale. Prese le mosse negli anni ’80 dell’Ottocento e conobbe un momento apicale con la guerra italo-turca per la Libia del 1911/’12, quindi si sviluppò negli stessi decenni in cui grandi potenze come Francia ed Inghilterra aggiungevano tasselli essenziali e strategici ai rispettivi imperi. Certamente i risultati italiani furono di minore portata, ma questo lo si dovette soprattutto ai rapporti di forza nello scacchiere internazionale ed africano nei quali l’Italia era la parte debole, non certo alle intenzioni dei governi italiani, della classe dirigente liberale e dei settori del mondo economico coinvolti, soprattutto dai tempi di Crispi in poi. Per farsi largo oltremare, l’Italia, prima liberale e poi fascista, intraprese due grandi guerre coloniali, che aggiunsero ulteriori elementi di criticità ai già incrinati e logori rapporti dei rispettivi scenari internazionali, che, pochi anni dopo l’una e l’altra guerra italiana, quella per la Libia e quella d’Etiopia, avrebbero condotto ai due conflitti mondiali. Ma il numero delle guerre raddoppia se si considera che, tra la fine degli anni Venti e l’inizio degli anni Trenta, l’Italia si impegnò nella “riconquista” di Tripolitania e Cirenaica e che quella fascista fu, in realtà, la seconda guerra per l’Abissinia, preceduta da quella crispina, conclusasi con la disfatta di Adua del 1896. La conquista dell’impero etiope, poi, fu realizzata con un dispiegamento di uomini, mezzi, forze mai visto prima in una guerra coloniale in Africa, eccezion fatta per quella anglo-boera e fu condotta a termine con l’impiego massiccio e sistematico di gas e armi chimiche[8], messe al bando da trattati internazionali sottoscritti dall’Italia stessa. Tutto il sessantennio del colonialismo italiano fu costellato di crimini, ideologicamente supportati da un razzismo che andò crescendo nel tempo fino a toccare il culmine negli anni Trenta con l’introduzione del regime di segregazione razziale e con azioni di sterminio contro i civili in A.O.I.

La crescita continua di studi e ricerche e il moltiplicarsi delle pubblicazioni specialistiche non sono riusciti però ad indebolire la forza del falso mito collettivo della “brava gente italiana”, che alla fine della guerra e agli albori della repubblica è stato messo in scena con il contributo di molti attori. Ai reduci del regime, che intendevano a tutti i costi evitare di dover rendere conto dei crimini compiuti, recava vantaggio far passare l’immagine buonista del soldato italiano, che, associata alle censure capillari operate dalla dittatura negli anni precedenti su argomenti quali i gas in Etiopia, di cui ovviamente non c’era traccia nella cospicua memorialistica coloniale, gettava fumo negli occhi e contribuiva ad avvalorare il teorema innocentista ed autoassolutorio. Tutto questo al prezzo di un tanto paradossale quanto totale capovolgimento dell’immagine dell’uomo nuovo fascista che il regime aveva teorizzato, propagandato e costruito per vent’anni. Di quell’idealtipo fascista l’esempio più fulgido era stato proprio Rodolfo Graziani, il “macellaio degli arabi”, secondo la definizione dei libici, coinvolto in tutte le peggiori vicende dell’imperialismo degli anni Trenta e alla cui immagine di italiano conquistatore spietato e dominatore fieramente razzista si cercò, già dal 1941 e dalla ritirata dall’Africa orientale, di sostituire quella del colono contadino, povero e laborioso.

Ma l’immagine del buon italiano interessava anche al maggior partito di governo, la Democrazia cristiana, che perseguiva la riconciliazione popolare e sociale, dopo la guerra e la Resistenza, attraverso un rapporto col recente passato che privilegiasse più la continuità che la rottura, evitando l’epurazione della classe dirigente e militare precedente. A tal fine era quanto mai utile costruire una rappresentazione vittimistica ed assolutoria del popolo italiano interamente e sostanzialmente buono, che aveva subito e non voluto o condiviso il fascismo e i suoi crimini, corpo estraneo o parentesi malata nella storia del paese.
Anche ai partiti della sinistra e in particolare al Partito comunista la favola del buon italiano tornava comoda, per sottolineare ed amplificare i meriti dell’Italia partigiana e di quella forza politica che più delle altre l’aveva guidata. Contrapponendo un popolo buono ad un regime feroce, si poteva impostare l’equazione, politicamente legittimante lo stesso partito, tra Resistenza e popolo italiano, il cui risultato sarebbe stato quello di un Partito comunista parte integrante della nazione e forza politica nazionale, anche a costo di rinunciare all’opportuna epurazione e alla doverosa punizione dei maggiorenti e dei criminali del precedente regime.

Diedero il loro contributo a questa mitopoiesi postbellica anche gli Alleati, che già nel 1943 avevano riconosciuto al Regno del Sud l’inedito status della cobelligeranza e per i quali l’Italia, paese strategico e confinante con la cortina di ferro e da governarsi più in continuità con il passato che attraverso traumatiche rotture, era così importante da meritare un trattamento diverso da quello dei suoi alleati del Patto Tripartito e per questo non vennero mai istruite una “Norimberga italiana” o una “Tokio italiana”. I criminali di guerra richiesti da Jugoslavia, Grecia, Albania o dalle ex colonie africane non furono mai consegnati, le pene inflitte dai tribunali italiani furono poche, lievi ed inadeguate ai crimini compiuti.[9]
Si aggiunga, infine, che sulla base della celebrativa ed omissiva rappresentazione del buon colono italiano, elaborata dal governativo “Comitato per la documentazione dell’opera dell’Italia in Africa” (1952), il governo repubblicano legittimò la propria richiesta di amministrazione fiduciaria delle ex colonie, appropriandosi degli stereotipi dell’intero periodo coloniale e dando un contributo alla distorsione della memoria storica collettiva.

Una memoria miope e confusa che, se ricorda i fatti tragici, tra i tanti accaduti, di Marzabotto o delle Fosse Ardeatine, dove e quando civili italiani furono vittime delle violenze nazifasciste, per lo più ignora i massacri compiuti dagli italiani, come quelli di Addis Abeba e di Debre Libanos, in cui la furia di civili in camicia nera e soldati si scatenò  per punire l’attentato del 19 febbraio 1937 contro il viceré, generale Graziani. Si trattò, rispettivamente, di una rappresaglia sanguinaria, che provocò una carneficina tra gli abitanti della capitale etiope e di una strage pianificata, che intendeva infliggere un colpo mortale alla chiesa copta, individuata come centro della resistenza all’occupazione italiana. Fra le 3000 e le 20000, secondo le più recenti ricostruzioni[10], furono le vittime del massacro di Addis Abeba nei tre giorni successivi all’attentato e almeno 2000 i monaci, i diaconi, i pellegrini del monastero di Debre Libanos, prima catturati, poi internati, in seguito trasferiti con alcuni camion verso località circostanti precedentemente individuate, infine fucilati e gettati in approssimative fosse comuni tra il 20 e il 29 maggio 1937[11].
Il lavoro di ricercatori e di storici accademici continua e di certo condurrà a nuove e sempre più accurate analisi, mentre al momento rimane ancora deficitaria la divulgazione della cospicua mole di studi condotti sulla storia del colonialismo e sui crimini di guerra italiani. Tale attività divulgativa sarebbe da condursi anche attraverso una maggiore attenzione da parte della manualistica scolastica a questi temi spesso affrontati in modo eccessivamente sbrigativo. Solo, infatti, una coscienza collettiva più avvertita e consapevole può colmare l’oblio della memoria e difendersi dai pericoli del revisionismo che si alimenta dell’ignoranza della storia.


[1] A. Del Boca, La guerra d’Abissinia 1935-1941, Feltrinelli, Milano 1965; Id., Gli italiani in Africa orientale (1976-1984), 4 voll., Mondadori, Milano, 2015; G. Rochat, Il colonialismo italiano (1972), Loescher, Torino 1988; Id., Le guerre italiane 1935-1943. Dall’impero d’Etiopia alla disfatta, Einaudi, Torino 2005; N. Labanca, Oltremare. Storia dell’espansione coloniale italiana, il Mulino, Bologna, 2002; Id., La guerra d’Etiopia 1935-1941, Il Mulino, Bologna 2015.

[2] A. Del Boca, Italiani, brava gente?, Neri Pozza Editore, Vicenza 2005; L. Borgomaneri (a cura di), Crimini di guerra, Angelo Guerini e Associati, Milano 2006.

[3] Th. Schlemmer, Invasori, non vittime. La campagna italiana di Russia (2005), tr. it. di I. Fratti e G. Kuck, Laterza, Roma-Bari 2009; G. Oliva, «Si ammazza troppo poco». I crimini di guerra italiani 1940-43, Mondadori, Milano 2006.

[4] S.L Sullam, I carnefici italiani, Feltrinelli, Milano 2015.

[5] E. Collotti, Il fascismo e gli ebrei, Laterza, Roma-Bari, 2003; Centro F. Jesi (a cura di), La menzogna della razza. Documenti e immagini del razzismo e dell’antisemitismo fascista, Grafis, Bologna 1994; A. Del Boca, Le leggi razziali nell’impero di Mussolini, in A. Del Boca, M. Legnani, M.G. Rossi (a cura di), Il regime fascista, Laterza, Roma-Bari 1995.

[6] C.S. Capogreco, I campi del Duce. L’internamento civile nell’Italia fascista (1940-1943), Einaudi, Torino, 2006; www.campifascisti.it.

[7] F. Focardi, Il cattivo tedesco e il bravo italiano. La rimozione delle colpe della seconda guerra mondiale, Laterza, Roma-Bari 2013.

[8] A. Del Boca, I gas di Mussolini (1996), Editori Riuniti, Roma 2007; S. Belladonna, Gas in Etiopia. I crimini rimossi dell’Italia coloniale, Neri Pozza, Vicenza 2015; A. Boaglio, Plotone chimico. Cronache abissine di una generazione scomoda, Mimesis, Milano-Udine 2010.

[9] A. Stramaccioni, Crimini di guerra. Storia e memoria del caso italiano, Laterza, Roma-Bari 2016.

[10] I. Campbell, Il massacro di Addis A. Una vergogna italiana (2017), tr. it. M. Cesa e N. Pomilio, Rizzoli, Milano 2018.

[11] P. Borruso, Debre Libanos 1937. Il più grave crimine di guerra dell’Italia, Laterza, Roma-Bari 2020.



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