PENROSE, IL NOBEL E IL SOGNO DI UNA NOTTE DI MEZZA ESTATE
«None of us can know what the World is, in the way that we used to know it. Einstein says that time is not the same for all of us, but different, for each one of us. Its very hard to conceive of such separate views, such relative ways of seeing. Today, is the first day of a new world, that is much harder to live in, less certain, more lonely. But which has at its heart, human endeavour. One man has shown us how, look at one man can do. In this man’s work, in the beautiful complexity of the new Universe he has shown us, I for one, have no doubt: I can hear God, thinking»
Sir Arthur Eddington.
Introitus. Mercurio. Così come, a suo tempo, quello aristotelico-tolemaico, il sistema di Newton – ancor oggi insegnato nei corsi universitari di Fisica e nei Licei – era perfetto. Eccetto che per l’orbita di Mercurio. Ma questo dettaglio, apparentemente del tutto “insignificante”, veniva deliberatamente trascurato dalla comunità scientifica (in vista dei benefici su larga scala apportati da una tale teoria), approssimando il modello universale, esprimente l’idea di un continuum (regola o legge), all’osservazione particolare, inevitabilmente (?) ‘discreta’. Mercurio. Mercurio è stato il contro-fatto[1] che ha permesso di mettere in crisi il modello di Newton. Un uomo, accademicamente insignificante, colse infatti quest’anomalia e, impugnandola, ripercorse in un tratto gli ultimi tre secoli della Fisica del suo tempo. Sulla base delle apparenti ‘asimmetrie’ riscontrabili nei fenomeni dell’elettro-magnetismo (legge dell’induzione di Faraday ed equazioni di Maxwell) in merito alla violazione del postulato dell’invarianza della legge al variare del sistema di riferimento, Einstein ritornò quindi all’origine del problema: la luce. E colse come il modello di Newton (esposto nei Philosophiæ naturalis Principia mathematica del 16871, 17132) si fondava sulla Relatività di Galileo (le cui trasformazioni erano rette sulla base del principio dell’invarianza della legge al variare del sistema di riferimento), la quale, a sua volta, muoveva da un presupposto epistemologico meta-empirico: [I. realtà] la possibilità della simultaneità empirica tra l’evento e l’osservazione (e quindi la possibilità di cogliere empiricamente la simultaneità tra due eventi simultanei), e [II. intuizione] quella della sua determinazione geometrica e matematica tramite la riduzione dell’esperienza empirica al piano della sola dimensione intuitiva. Newton apriva infatti i suoi Principia[2] assumendo come punto di partenza proprio la Relatività di Galileo, la quale si presentava come indispensabile per ricondurre i moti apparenti (relativi) ai moti reali (assoluti), e quindi i moti apparenti degli astri a una descrizione matematicamente coerente, conforme al modello copernicano.
Newton morì nel 1727. In quello stesso anno, Bradley confermava con maggior precisione quanto era già stato scoperto da Rømer e di cui Newton – come attestano i suoi scritti[3] – era certamente al corrente, vale a dire: che la velocità di propagazione della luce è ‘finita’ (all’incirca di 300.000 km/s), e non è possibile in Natura una grandezza a essa maggiore. Ora, tale velocità è ‘costante’ indipendentemente dal sistema di riferimento, vale a dire non varia al variare di quest’ultimo. Vi erano quindi due problemi che insorgevano da tali affermazioni rispetto alla descrizione newtoniana e che mettevano in crisi un tale modello.
I. [violazione del principio di Relatività] Il primo riguardava la ‘velocità massima’ possibile in Natura che si propaga in maniera ‘costante’, vale a dire senza variazioni. Se la velocità della luce è invariabile in rapporto al sistema di riferimento, indipendentemente che questo sia o meno soggetto a un moto e a una traslazione, ciò significava che la Relatività di Galileo non avrebbe potuto essere universalmente applicabile a tutte le possibili variazioni fisiche dell’Universo rispetto a ogni possibile sistema di riferimento, secondo la distinzione relativistica tra moto ‘apparente’ e moto ‘assoluto’ (e quindi spazio e tempo, componenti il concetto di velocità, ‘assoluti’ e ‘relativi’).
II. [simultaneità ‘empirica’ e Gravità] Se la velocità della luce è ‘finita’ – vale a dire non in-finita -, costante, e non può quindi essere superata da un corpo in stato di moto avente una velocità maggiore di quella della luce, allora in Natura la simultaneità ‘empirica’ non può darsi e non può essere colta dai sensi, ovvero non può essere oggetto di un’intuizione empirica. E questo perché, in base al modello epistemologico empirico-osservativo assunto tanto da Galilei quanto da Newton: vi è ‘scienza’ – cioè una conoscenza certa, universale e necessaria – solo di ciò che può essere ‘osservato’, e quindi ricondotto all’intuizione, in tal modo soggetta a una descrizione geometrica e matematica; ma poiché ciò che è osservato giunge a noi attraverso la vista, e quindi attraverso la luce (che percorre così uno spazio); e poiché a sua volta la luce non ha velocità infinita (nel cui caso qualunque distanza potrebbe essere attraversata in un solo istante secondo il rapporto spazio/tempo esprimente la velocità) ma solo finita; e dovendo potersi dare, ipso facto, una distanza spaziale per ogni osservazione tra l’oggetto osservato ed il soggetto spectator (in questa visione, del tutto passivo rispetto alla costituzione dell’esperienza[4]), allora: 1) dal lato soggettivo, qualunque osservazione non avrebbe potuto cogliere ‘empiricamente’ l’evento nel suo stesso darsi simultaneo, mentre, 2) dal lato oggettivo, la gravità non avrebbe potuto agire – a detta di Einstein[5] – ‘istantaneamente’ e allo stesso tempo ‘a distanza’, come invece sostenuto da Newton. Queste due conseguenze (apparentemente) disgregavano dall’interno le fondamenta del modello newtoniano e, allo stesso tempo, la sua formulazione più importante, vale a dire la legge di gravità[6].
La Relatività ristretta cercava quindi, entrando in dialogo con Galileo, di (ri-)fondare anzitutto una nuova teoria dell’invarianza che garantisse il modello epistemologico empirico-osservativo sulla base della finitezza e della costanza della velocità della luce, mentre la Relatività Generale, raccogliendone il guanto di sfida e assumendone le conseguenze assiomatiche, tentava di fondare una nuova dottrina gravitazionale che superasse l’apparente[7] aporia del modello newtoniano relativa all’impossibilità di un’azione ‘immediata’ agente ‘a distanza’, assumendo da un lato l’assoluta relatività del moto e l’insuperabile finitezza della velocità della luce, e cercando di superare, dall’altro, il modello newtoniano in accordo con quanto affermato dalla Relatività ristretta. Ma la Meccanica quantistica ha definitivamente smascherato l’impotenza della dottrina einsteiniana proprio in merito al rapporto dinamico costitutivo tra materia e spazio-tempo, in quanto tale modello si presentava – per usare termini kantiani – come esclusivamente foronomico quanto alla descrizione del moto, vale a dire del tutto incurante della costituzione dinamica dei corpi rispetto allo stato della simultaneità temporale, al punto che la stessa gravitazione, in luogo di essere letta come ‘causa’ (intensiva) del moto gravitazionale dei corpi – e pertanto come conseguenza o risultato delle forze interagenti in Natura e costituenti la materia e lo spazio-tempo –, era invece trasformata in semplice ‘effetto’ (estensivo) della curvatura di uno spazio-tempo opportunamente reificato e curvato, nell’intuizione, dalla pesantezza di corpi concepiti come puramente materiali, soggetti tuttavia ad una gravità agente dall’alto verso il basso.
Entrambi questi modelli, vale a dire sia quello quantistico sia quello relativistico, sono tuttavia – e a ben vedere – puramente foronomici rispetto alla descrizione (estensiva) lineare del moto, e del tutto atomistici[8] (vedi Epicuro, Democrito, Leucippo e Lucrezio) quanto alla considerazione ‘statica’ dei corpi e dei corpi ‘in movimento’ (rispetto cioè alla dimensione intensiva della realtà), essendo entrambi modelli privi di una teoria dinamica intensiva dei corpi (con forze agenti in instanti) che sia in grado di spiegare (kantianamente: ‘dedurre’, cioè rispondere non alla domanda relativa al quid facti?, ma quella relativa al quid juris?) e di rendere ragione, sulla base del concetto di ‘forza’ e di ‘azione’ metafisica, tanto della costituzione dinamica intensiva della materia e dello spazio-tempo a partire dal concetto di “energia”, quanto della generazione del nesso di continuità (rispetto alla successione temporale estensiva generata dalla successione dinamica intensiva, intesa come immediata successio) tra i concetti dinamici di materia, forza ed energia, da un lato, e quelli foronomici risultanti di velocità, spazio e tempo, dall’altro. Come dimostrato giustamente e inconfutabilmente da Kant nei Principi metafisici della Scienza della Natura del 1786 (scritti non a caso in occasione del primo centenario dei Philosophæ Naturalis Principia mathematica di Newton e il cui titolo rivela già chiasmaticamente la natura fortemente polemica di tale scritto, in cui ai principi ‘matematici’ della ‘Filosofia’ naturale vengono contrapposti dei principi ‘metafisici’ della ‘Scienza’ della Natura, quali fondamento della descrizione matematica della Fisica dei corpi[9]), la Fisica, ed in particolare la Meccanica, risulta dalla composizione (organica ed ‘ortogonale’):
– di una descrizione foronomica intuitiva, relativa cioè alla dimensione ‘estensiva’ dell’intuizione come simultaneità di un successivo permanente (quale determinazione dell’atto di produzione o di generazione della successione stessa) e fondata negli Assiomi dell’intuizione (a loro volta fondati nelle categorie della quantità) esposti nella Critica della ragione pura;
– e di una descrizione dinamica ‘intensiva’, relativa invece alla dimensione della simultaneità dinamica agente rispetto all’istante temporale, determinante la percezione rispetto al suo grado di realtà, ma sottratta all’intuizione, e fondata, sempre nella prima Critica, nelle Anticipazioni della percezione (fondate invece nelle categorie della qualità).
Dalla composizione ‘ortogonale’ di queste due dimensioni, intuitiva ‘estensiva’ e percettiva ‘intensiva’, è tratta in Kant la Meccanica come scienza, vale a dire una descrizione meccanica delle variazioni fisiche dell’Universo rispetto ai corpi in stato di moto e di quiete apparente, che, condotta su base dinamica, era fondata a sua volta, sempre nella Critica della ragione pura, nelle Analogie dell’esperienza (dedotte sulla base delle categorie della relazione).
Per la Filosofia sembrerebbe quindi giunto di nuovo il tempo di raccogliere il guanto lanciato dal mondo scientifico quanto alla determinazione di un modello adeguatamento fondato, e di ritrovare in Kant i presupposti per un superamento tanto di quelle “asimmetrie” affermate oggi da entrambi i modelli, quanto del relativo dualismo epistemologico oggi sussistente tra Relatività einsteiniana e Meccanica quantistica. Vuoto quantistico, energia e materia oscure, onde gravitazionali (che presuppongono l’idea di un continuum, ma nel vuoto e sulla base di una descrizione “discreta” della materia?), invarianza, modello ‘classico’ nel continuo e deduzione. Questi sono concetti meta-empirici e meta-fisici – senza il cui chiarimento la Fisica non può affatto dirsi scienza – i quali richiedono a loro volta un’unificazione teorica coerente ed opportunamente fondata, che non può essere tratta dall’esperienza. Mercurio si è trasformato. Ed è diventato una sorta di buco nero, che sembra aver inghiottito le fondamenta del pensiero. Forse è venuto il tempo di riabilitare la potenza della Filosofia di Kant e della sua «Metafisica della Natura» annunciata nella Critica della ragione pura (AK, IV, p. 13), la sola che sembra oggi capace di superare questa fase di stallo paradigmatico della Fisica contemporanea, che perdura oramai da oltre un secolo.
«Aristotele dice in qualche luogo: “Vegliando, noi abbiamo un mondo comune; ma sognando ciascuno ha il suo mondo”. A me sembra che si possa invertire l’ultima proposizione, e dire: quando di diversi uomini ciascuno ha il suo proprio mondo, è da presumere che essi sognino»[10].
[1] Cfr.: S.T. Kuhn, The Structure of Scientific Revolutions, Chicago, University of Chicago Press, 1962.
[2] Cfr.: I. Newton, Philosophiæ naturalis Principia mathematica, Londini, ed. 16871, Definitiones, Scholium, pp. 5-11.
[3] Ivi, p. 231; Opticks, ed. 1704, II Book, Part III, Prop. XI, p. 77; ed. 1706 lat., pp. 236-237; ed. 1719 lat., pp. 275-276.
[4] In questo senso e secondo questa chiave di lettura è importante accostarsi al Saggio sull’intelletto umano (dato alle stampe nel 1689 e pubblicato nel 1690) di Locke (e, più ingenerale, all’Empirismo inglese) e alla relativa critica leibniziana contenuta nei Nuovi saggi sull’intelletto umano (redatti nel 1704 ma pubblicati solo nel 1765).
[5] L’affermazione einsteiniana riposava sull’illegittima identificazione del concetto estensivo di ‘velocità’ con quello intensivo di ‘azione’.
[6] La gravità avrebbe costituito, insieme alla rifondazione del modello di Newton, il centro della riflessione scientifica kantiana. Cfr., ad esempio: I. Kant, KrV, AK, III, pp. 437-439; tr. it., pp. 672-674.
[7] ‘apparente’ perché, come giustamente ricordato da Kant già nel suo primo scritto (Cfr.: I. Kant, Gedanken von der wahren Schätzung der lebendigen Kräfte, AK, I, pp. 1-181; ed. it., Id., Pensieri sulla vera valutazione delle forze vive, a cura di Stefano Veneroni, Milano-Udine, Mimesis, 2019, 4 voll.), poiché l’azione di gravità agisce istantaneamente all’interno dei corpi in modo intensivo, sebbene i suoi effetti estensivi si diano nello stato della successione temporale, essa non è quindi in alcun modo riducibile, in quanto ‘azione’ meta-fisica e meta-empirica di natura intensiva, al concetto estensivo di ‘movimento’ e a quello da esso derivato di ‘velocità’.
[8] A tale proposito, si ricordino ad esempio le parole di Martin Gardner: «L’Universo è composto [solo, ndr.] di materia, ovviamente. E la materia è composta di particelle: elettroni, neutroni e protoni. Dunque l’intero Universo è composto di particelle. Ora, di che sono fatte le particelle? Di nulla. L’unica cosa che si può dire sulla realtà di un elettrone è citarne le sue proprietà matematiche. Quindi in un certo senso la materia si dissolve completamente, e rimane semplicemente una struttura matematica» (da Gardner on Gardner, in Focus – The MAA Newsletter, v. 14, n. 6, dicembre 1994).
[9] Contrariamente a quanto comunemente ritenuto, non solo Kant ritiene che la Metafisica, come filosofia prima (la via aperta dalla Critica della ragione pura), possa essere ‘scienza’ (posto che la ragione non segua un uso dogmatico), ma essa si delinea, nella filosofia kantiana, come vero, unico ed imprescindibile fondamento di ogni conoscenza matematica o empirica che voglia dirsi Scienza. Da un lato, infatti, la Matematica, essendo solo in grado di applicare i propri concetti alle intuizioni, non può rappresentare un Canone per la Scienza della Natura; dall’altro, la Fisica non può cogliere il fondamento delle proprie leggi (o anche solo dell’osservazione) a posteriori, vale a dire empiricamente. È infatti del tutto innegabile che i primi fondamenti (Anfangsgründe) di ogni conoscenza che pretenda di essere scienza, per essere validi e costituire così un sistema organicamente strutturato secondo l’idea del tutto, devono essere dati a priori, e non possono essere colti dalla sensibilità come prodotto dell’osservazione empirica.
[10] I. Kant, Träume eines Geistersehers, erläutert durch Träume der Metaphysik, AK, II, p. 342; tr. it., Id., Sogni di un visionario chiariti come sogni della Metafisica, in Id., Scritti precritici, Roma-Bari, Laterza, 20003 (19821), p. 373.