Film di demoniaca tristezza: Assandira e alcune tendenze del cinema sardo

Il cinema sardo si è dovuto misurare da sempre con i suoi miti fondanti, Banditi a Orgosolo (1961) e Padre Padrone (1977). Il primo, capolavoro formalista di Vittorio De Seta, prese spunto dall’omonima inchiesta antropologica di Franco Cagnetta per raccontare la storia di un pastore trasformato in bandito dallo stato italiano. Il secondo, che valse ai fratelli Taviani la Palma d’oro a Cannes, racconta la storia di un pastore strappato alla scuola da un padre crudele. Tutti e due sono frutto di sguardi esterni sulla Sardegna e tutti e due si fanno carico di raccontare le miserie di una vita passata in campagna. Sull’immaginario cinematografico creato da queste due opere, si innesta anche l’ultimo film di Salvatore Mereu Assandira, un classico istantaneo per potenza narrativa e una marcata aderenza al reale. Ispirato all’omonimo romanzo dello scrittore Giulio Angioni, Assandira è la storia di un agriturismo che offre agli ospiti una sorta di safari agropastorale che reitera lo stereotipo di un mondo contadino violento e selvaggio, regno di un pastore che è sempre un po’ bandito. Uno stereotipo creato dai piemontesi nell’Ottocento per ovvi scopi coloniali, perpetuato da scrittori come D.H. Lawrence e Balzac, e recentemente da Philippe Daverio che definì i pastori galluresi “la frangia meno evoluta del cristianesimo”. Gente sporca, col fucile sempre carico e dalla carica sessuale animalesca.

In questo contesto un film come Assandira si fa carico di decostruire questa narrativa tossica, dalla quale non fu esente neanche Padre Padrone, incenerendo anche letteralmente quel luogo d’incontro tra la Sardegna rurale e la borghesia europea che è l’agriturismo, e con esso il modo di rappresentare un’identità sarda pre-codificata a uso e consumo degli stranieri. Si potrebbe intendere questo ovile abbandonato trasformato in paradiso per stranieri come il set cinematografico in cui si gira l’ennesimo film che tratta di pastori e banditi, in cui il protagonista di nome Costantino Saru deve recitare la parte di sè stesso. Che questo protagonista lo interpreti Gavino Ledda, glottologo e scrittore di Padre Padrone, assume la valenza simbolica di aggiornamento del mito. È lo stesso personaggio di Costantino a raccontare come siano andate le cose, incalzato dalle argute domande del magistrato che sin dall’inizio del film conduce l’inchiesta. La ricostruzione dei fatti, in flashbacks che ricompongono magistralmente il mosaico narrativo creato da Mereu, vale come testimonianza di un mondo che cambia rapidamente e dimostra la potenza e il desiderio del mezzo cinematografico di ritrarre accuratamente gli impatti di questo cambiamento nel microcosmo sociale della Sardegna rurale di fine anni ‘90.  Assandira è la storia della disperata resistenza di una terra che si oppone a una modernità rapace incarnata nella figura del figlio Mario, emigrato di ritorno, e nella compagna tedesca Grete, che si vuole imporre grazie alla scienza e alla tecnologia.

Ma sarebbe un errore vedere il film come mera scontro di civiltà, tra sardo e continentale, tra società capitalistica e mondo contadino. Assandira è anche la storia di una famiglia che implode, è l’ancestrale conflitto tra padri e figli che non parlano la stessa lingua (interessante e filologico l’uso delle diverse lingue sarde: logudorese per il padre, campidanese per il figlio), fra padroni e servi, tra sessi.

Questa stratificazione di temi, di linguaggi e situazioni riflette la complessità del mondo di cui si parla, un mondo che è già contaminato, e che esula la sardità, tant’è che al volto del sardo Costantino si potrebbe sovrapporre quello di un altro pastore resistente, il galiziano Amador ad esempio, anch’esso destinato alla prigione per incendio doloso nell’ultimo film di Oliver Laxe O que arde. Il fuoco così diventa simbolo di una disperata resistenza al turismo massificato ed elemento purificatore di una supposta tradizione che si libera della sua parte più pagana e orgiastica. Niente più “sesso, alcool e pastorizia” come soli vizi e virtù da ostentare in faccia al mondo, niente pretese da commedia popolare, come l’impacciato L’uomo che comprò la luna (2019) di Paolo Zucca, in cui Jacopo Cullin deve sostenere un esame grottesco per dimostrare di essere un vero sardo, reiterando i soliti stereotipi regional-popolari.

La riscrittura dell’immaginario cinematografico sardo si iscrive in un processo di rinnovamento iniziato a fine anni ‘90 da una generazione di registi che comprende Gianfranco Cabiddu, Giovanni Columbu, Enrico Pau, Piero Sanna e lo stesso Salvatore Mereu la cui rottura coi canoni tradizionali, dopo averne attinto ampiamente per le prime due opere Ballo a tre passi (2003) e l’epico Sonetàula (2008), era già iniziata con Bellas Mariposas (2012), un solare ritratto di un’adolescente cagliaritana tratto da un romanzo di Sergio Atzeni. A questo sforzo di emancipazione si sono aggiunti recentemente altri due registi che vengono dal nord dell’isola e che hanno trovato ispirazione, per temi trattati ed estetica, in un certo cinema del reale di matrice nord-europea. Il primo è Bonifacio Angius, che con già con Perfidia (2014) va alla ricerca del moderno raccontando una storia di alienazione urbana e sfaldamento sociale in una Sassari cupa e assurta a modello di città provinciale. Il secondo è Mario Piredda che col suo primo lungometraggio, l’acerbo L’Agnello (2019), riprende la lezione del realismo sociale dei fratelli Dardenne adattandola a una terra martoriata dai poligoni militari.

Un cinema nuovo che sperimenta coi linguaggi (e con le lingue) ma che non riesce a scacciare l’aura di “demoniaca tristezza”  e di fatalismo atavico cantati da Salvatore Satta nel romanzo Il giorno del giudizio. E che prova a reinventare i ruoli di genere in una società ancora fortemente patriarcale, dalle madri assenti, dallo sguardo paternalistico: sia Bellas Mariposas che L’Agnello sono storie di rapporti fra padre (interpretato da Luciano Curreli in tutt’e due) e figlia adolescente, mentre se in Perfidia di Angius si mette in scena addirittura un parricidio, in Assandira a soccombere è il figlio. Scontri che sono sempre destinati alla tragedia. Immagini e assenze che riflettono le incertezze di una terra che fa fatica a reinventarsi: ancora una volta si conferma l’adagio che per produrre del buon cinema ci vuole una società in crisi. In Sardegna, così come nel resto del mondo, accade tutto e niente.



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