Alberto Molinari e Gioacchino Toni, autori del volume Storie di sport e politica. Una stagione di conflitti 1968-1978 (Mimesis 2018) si soffermano sulla questione razziale nello sport statunitense tracciando un breve percorso che collega le prese di posizione di Muhammad Ali e i “pugni chiusi” di Tommie Smith e John Carlos alle Olimpiadi di Città del Messico di fine anni Sessanta, con le recenti prese di posizione di atleti afroamericani nell’ambito delle mobilitazioni del movimento Black Lives Matter.
Nel corso degli anni Sessanta gli Stati Uniti sono scossi in profondità dalle proteste contro la guerra nel Vietnam e dal movimento per i diritti civili degli afroamericani. Dopo la grande marcia su Washington del 1963, guidata da Martin Luther King, il Civil Rights Act e il Voting Rights Act sanciscono la fine delle discriminazioni sul terreno dei diritti civili e del voto. Negli anni successivi, in un clima di persistente e violento razzismo, la protesta afroamericana si radicalizza; ne sono prova il lancio dello slogan del Black Power nel 1966 ad opera di Stokely Carmichael e la nascita a Oakland del Black Panther Party.
Nel mondo dello sport, tradizionalmente considerato uno spazio da mantenere rigorosamente al riparo dalla politica, la guerra in Vietnam e la questione razziale si saldano grazie a un gesto clamoroso del pugile afroamericano Cassius Clay che nel 1964, dopo la conquista della corona mondiale nei pesi massimi, decide di aderire ai Black Muslims, mutando il proprio nome in Muhammad Ali e il 28 aprile 1967, rifiutandosi di prestare servizio militare in nome del diritto all’obiezione di coscienza per motivi politici e religiosi, finisce di fatto per rifiutare la guerra in Vietnam. Per le sue scelte il boxeur paga un prezzo durissimo: è condannato a 5 anni di prigione, a 100.000 dollari di multa (ottenendo la libertà con una cauzione di 5.000 dollari) e gli vengono tolti il titolo mondiale e la licenza di pugile fino al 1970.[1]
Il gesto di Clay dà nuova forza al movimento contro la guerra nel Vietnam, unendolo alla battaglia antirazzista, tanto che lo stesso Martin Luther King rilancia la protesta del pugile afroamericano invitando i giovani americani a dichiararsi obiettori di coscienza.[2]
Il 1967 è anche l’anno nel quale esplodono le rivolte degli afroamericani in oltre sessanta città degli Stati Uniti. In questo contesto all’interno della comunità nera matura l’idea di estendere la protesta al mondo dello sport. In una conferenza nazionale organizzata a Newark il Black Panther Party invita gli atleti neri a boicottare i Giochi olimpici del ’68. L’idea viene rilanciata da Harry Edwards, ex atleta e docente di sociologia all’Università di San Josè in California, dove annovera tra i suoi allievi Tommie Smith – vincitore delle Universiadi di Tokyo nei 200 metri – e altri giovani fuoriclasse dell’atletica statunitense come John Carlos e Lee Evans. Per il sociologo afroamericano la battaglia per il boicottaggio è parte integrante di una lotta radicale contro le discriminazioni razziali e il sistema di valori imposto dai bianchi anche nello sport, a partire dai “Dipartimenti sportivi” delle Università.
Mentre altri campioni afroamericani – dal lunghista Bob Beamon al cestista Ferdinand Lewis Alcindor – aderiscono al boicottaggio, per iniziativa di Edwards nasce l’Olympic Committee for Human Rights che promuove un “Progetto olimpico per i diritti umani”. Il Comitato decide di rilanciare la mobilitazione in novembre alla Black Youth Conference di Los Angeles dove la proposta del boicottaggio viene approvata all’unanimità.
La strategia del movimento si precisa in una conferenza organizzata a New York da Harry Edwards alla quale partecipano anche Martin Luther King e Floyd McKissick, leader del Congress of Racial Equality e sostenitore del Black Power. Edwards presenta una piattaforma articolata in sei punti che rappresentano le condizioni poste dal movimento per rinunciare al boicottaggio: la restituzione del titolo di campione mondiale dei massimi a Muhammad Ali; la fine della discriminazione dei neri all’interno e all’esterno dello sport; il rifiuto di partecipare a competizioni sportive con paesi razzisti come il Sudafrica e la Rhodesia; le dimissioni del presidente del Comitato Internazionale Olimpico Avery Brundage, accusato di razzismo e antisemitismo in quanto socio e finanziatore del Montecito Country Club di Santa Barbara in California, un circolo precluso per statuto a cittadini ebrei e di colore.
Il 4 aprile 1968 l’assassinio di Martin Luther King infiamma l’America: per diversi giorni durissime manifestazioni di protesta attraversano il paese con incendi, saccheggi, scontri a fuoco con la polizia, tanto che il governo decide di imporre il coprifuoco e lo stato di emergenza. La morte del pastore pacifista radicalizza ulteriormente la contestazione anche in ambito sportivo rafforzando le posizioni del fronte antiolimpico. Il reverendo Jesse Jackson, presidente della Southern Christian Leadership Conference, dichiara pubblicamente la sua adesione al boicottaggio.
In vista dei Giochi di Città del Messico, i rappresentanti dell’Olympic Committee for Human Rights e altri atleti di colore decidono di procedere al boicottaggio solo se sostenuto da almeno due terzi degli atleti neri. I pareri raccolti mostrarono un ampio accordo sulle proposta complessiva del “Progetto olimpico per i diritti umani”, mentre emergono dubbi sull’efficacia di una protesta come il boicottaggio. Per evitare di rompere l’unità del movimento, l’ipotesi del boicottaggio viene abbandonata e sostituita da altre forme di contestazione. Il Comitato invita gli atleti afroamericani a presentarsi alle Olimpiadi con una fascia nera sul braccio destro e a non partecipare alle cerimonie di premiazione.[3]
Il 12 ottobre 1968, con l’arrivo nello stadio di Città del Messico della fiaccola olimpica, prende il via la XIX edizione dei Giochi olimpici. Il clima è carico di tensione per le proteste degli studenti messicani che hanno accompagnato la preparazione dei Giochi e sono confluite in un più ampio movimento che rivendica democrazia, libertà, fine della corruzione e della repressione di Stato. Alle manifestazioni il governo risponde con la repressione, culminata il 2 ottobre nella strage di Plaza de las Tres Culturas.
Dal punto di vista politico-sportivo l’attenzione si concentra sugli atleti afroamericani che si presentano alle Olimpiadi sfoggiando un distintivo con la scritta Olympic Project for Human Rights.[4]
Il 16 ottobre 1968 si corre la finale dei 200 metri piani. Tommie Smith vince fermando il cronometro sui 19”83, nuovo record mondiale della specialità, terzo è il suo compagno John Carlos.
Al momento della premiazione, i due atleti salgono sul podio scalzi, indossando un guanto nero e assistendo all’inno americano a capo chino alzando il pugno verso l’alto. Smith e Carlos esprimono così il loro rifiuto di essere considerati “cavalli da concorso per bianchi” e danno voce alla rabbia e alla volontà di lotta degli afroamericani contro la discriminazione razziale. Il gesto assume un forte valore politico e simbolico: con la sua forza evocativa, è una potente rappresentazione della protesta contro il razzismo negli Stati Uniti e dell’intreccio tra sport e politica nel Sessantotto.
Il 17 ottobre il Comitato Internazionale Olimpico emana un comunicato in cui, appellandosi alla violazione del principio che vieta attività politiche nei Giochi, invita le autorità sportive americane a prendere provvedimenti nei confronti dei responsabili. Il Comitato olimpico americano decreta l’allontanamento dei due atleti.
Nei giorni successivi diversi atleti afroamericani solidarizzano con i compagni espulsi. Evans, James e Freeman, le tre medaglie dei 400 metri, salgono sul podio con il basco nero, mostrando il pugno chiuso; Boston e Beamon, primo e terzo nel salto in lungo, si presentano scalzi alla premiazione. Altri atleti africani e cubani e alcuni bianchi si uniscono in vario modo alla protesta.
Tornati in patria, Smith e Carlos subiscono ritorsioni e devono abbandonare la loro carriera.[5]
I “pugni chiusi” di Città del Messico, oltre a rappresentare uno dei più potenti simboli del ’68 nello sport e non solo, costituiscono uno spartiacque nella storia del movimento antirazzista in ambito sportivo. Di fronte alle persistenti discriminazioni razziali negli Stati Uniti, gli sportivi afroamericani si sono in seguito più volte mobilitati per affermare i diritti delle persone di colore.
Anche in tempi recenti lo spazio dello sport è stato attraversato da forme di protesta che ne hanno messo in discussione la presunta neutralità e separatezza.
Uno dei gesti più forti è quello compiuto da Colin Kaepernick, quarterback dei San Francisco 49ers. Di madre bianca e padre afroamericano, apprezzato giocatore nel football americano, il 26 agosto 2016 prima di una partita, mentre tutto lo stadio canta The Star Spangled Banner, Kaepernick decide di non alzarsi in piedi per l’esecuzione dell’inno nazionale.
L’atleta motiva il suo gesto spiegando che non si può essere orgogliosi per la bandiera di un paese «che opprime la gente di colore e le minoranze»: «Per me questa presa di posizione è ben più importante del football e sarei un egoista se mi girassi dall’altra parte».[6]
L’asso dei 49ers si riferisce evidentemente agli atti di violenza della polizia contro gli afroamericani, i cui colpevoli rimangono impuniti, ed esprime così il suo sostegno al Black Lives Matter («Le vite dei neri contano»), il movimento per il risveglio dei diritti civili nato tre anni prima all’interno della comunità nera.
Kaepernick modifica poi l’espressione del suo dissenso piegando il ginocchio a terra durante l’inno. Per molti americani è intollerabile questo affronto ad un rituale patriottico che si consuma tradizionalmente nei campi sportivi americani. Kaepernick riceve minacce di morte e sui social circolano immagini della sua maglia bruciata. Secondo un sondaggio commissionato da una rete televisiva, è il giocatore più odiato della Lega. Per il suo gesto ripetuto più volte prima delle partite, viene allontanato dalla National Football League.
Una parte del mondo dello sport segue invece il suo esempio. Squadre e atleti del football americano come del basket si schierano apertamente contro il razzismo: «Chi si inginocchia, di solito, lo fa per deferenza o sottomissione. Improvvisamente, quel gesto comincia a propagarsi sui campi di football americano con il significato opposto: esprime ribellione, dissenso, plateale protesta verso le autorità costituite». Kaepernick rappresenta «quello che una parte dell’America bianca non vuole vedere: una figura di successo, che non rispetta il ruolo che gli viene assegnato». La sua originale forma di protesta «va a colpire due simboli, bandiera e inno, in un contesto patriottico che si configura come omaggio ai veterani e alle vittime della “guerra al terrore”».[7]
Le mobilitazioni del movimento antirazzista continuano l’anno successivo quando il presidente Trump, con un linguaggio offensivo, chiede ai proprietari dei club professionistici di cacciare i giocatori che non rimangono in piedi durante l’inno.
La tensione sale anche perché Trump ritira l’invito alla Casa Bianca al campione di basket Stephen Curry che aveva manifestato la sua intenzione di non partecipare al tradizionale incontro del capo dello Stato con i campioni degli sport di squadra.
LeBron James, stella del basket statunitense, rivolgendosi al presidente dichiara: «Venire alla Casa bianca è sempre stato un onore, almeno fino a quando sei arrivato tu», e Kobe Bryant, un altro grande cestista afroamericano, si unisce ai colleghi giocando con lo slogan elettorale di Trump: «Un presidente il cui nome evoca rabbia e divisione, le cui parole ispirano dissenso e odio, non renderà l’America Great Again».[8]
Lo scontro con Trump si estende al mondo del baseball. In segno di solidarietà con i giocatori di basket, Bruce Maxwell, atleta bianco degli Oakland Athletics, si inginocchia durante l’esecuzione dell’inno nazionale.
Sempre sulla scia del movimento Black Lives Matter, le proteste degli atleti afroamericani non si arrestano.
Il 25 maggio 2020 a Minneapolis George Perry Floyd, un uomo di colore, viene fermato dalla polizia. Immobilizzato a terra dai poliziotti che gli tengono il ginocchio sul collo e esercitano una pressione sul busto per molti minuti, Floyd perde conoscenza e muore. Un video che testimonia l’episodio circola rapidamente e riaccende il movimento antirazzista in tutti gli Stati Uniti.
Per commemorare Floyd, il 27 maggio gli attivisti del Black Lives Matter organizzano una manifestazione a Los Angeles. La protesta si estende, assumendo spesso un carattere violento.
Diversi esponenti dello sport si espongono nuovamente in prima persona, dall’ex pugile Floyd Mayweather jr., che mette a disposizione 90 mila dollari per i funerali di Floyd, alla stella della NBA Carmelo Anthony. Nella condivisione collettiva «del sostegno social a #BlackLivesMatter» arriva «il clic anche dai Washington Redskins, una delle squadre più famose e ricche della lega del football americano».[9]
«Adesso capite perché protestiamo?», è «il primo tweet di LeBron Jones, pochi minuti dopo la notizia dell’uccisione di George Floyd, accompagnato da una foto divisa a metà tra il poliziotto-assassino di Minneapolis e Colin Kaepernick». Jones lancia anche l’organizzazione More That a Vote, appoggiata da altre stelle dello sport e da artisti e figure conosciute nell’opinione pubblica statunitense, con lo scopo di proteggere il diritto di voto degli afroamericani in vista delle elezioni presidenziali di novembre 2020.[10]
Il 23 agosto una nuova violenza della polizia contro un afroamericano provoca lo sdegno dell’America democratica. A Kenosha, nel Wisconsin, Jacob Blake viene colpito e gravemente ferito da un agente di polizia, rimanendo paralizzato. Due manifestanti muoiono nel corso delle proteste.
Il 26 agosto i media annunciano che l’NBA, a partire dai Milwuakee Bucks, una squadra del Wisconsin, intende boicottare il campionato. Altre squadre si rifiutano di giocare.[11]
Questa forma estrema di protesta rientra, ma la contestazione continua investendo tutti gli sport. Anche fuori dagli Stati Uniti una parte del mondo sportivo si mobilita a sostegno delle lotte dei colleghi americani. Squadre e atleti di diversi paesi e campioni di varie discipline manifestano la loro solidarietà contribuendo alla lotta contro il razzismo in America, una questione che, nonostante i progressi e le conquiste, rimane ancora aperta.
Alberto Molinari svolge attività di ricerca nell’ambito della storia contemporanea. È collaboratore dell’Istituto storico di Modena e della rete degli Istituti storici dell’Emilia Romagna. È membro della Società italiana di Storia dello Sport. Gli interessi di ricerca sono rivolti in particolare ai movimenti politici e sociali nell’Italia repubblicana e alla storia dello sport. Tra i volumi più recenti: Storie di sport e politica. Una stagione di conflitti 1968-1978 (con G. Toni, Mimesis 2018); Il Sessantotto lungo la via Emilia (con W. Gambetta e F. Morgagni, Bradypus editore 2018).
Gioacchino Toni è studioso dei fenomeni artistici e audiovisivi contemporanei. I suoi attuali interessi di ricerca sono rivolti in particolare al ruolo delle immagini nella società contemporanea. Ha pubblicato i volumi Gli stili nel tempo (con G. Ruggerini, Clitt 2005), Storie di sport e politica (con A. Molinari, Mimesis 2018), Immaginari alterati (con L. Cangianti, A. Daniele, S. Moiso, F. Pezzini, Mimesis 2018) e, insieme a G. Ruggerini, i due volumi Guida agli stili nell’arte e nel costume dedicati alla modernità (Odoya 2019) e alla contemporaneità (Odoya 2020). Docente di Storia dell’arte, autore di numerosi scritti di carattere artistico e cinematografico, è redattore della rivista «Carmilla – Letteratura, immaginario e cultura d’opposizione» e collaboratore di altre testate.
[1] Cfr. Alberto Molinari, Gioacchino Toni, Storie di sport e politica. Una stagione di conflitti 1968-1978, cit., pp. 25-28. Nella vasta bibliografia su Muhammad Ali, tra le pubblicazioni in lingua italiana si veda Gianni Minà, Il mio Ali, Milano, Rizzoli 2104.
[2] L’appello di Martin Luther King per l’obiezione di coscienza è riportato in Stanley Wheeler, Centomila come Cassius Clay?, in “Vie nuove”, n. 19, 11 maggio 1967.
[3] Per una ricostruzione complessiva della protesta degli atleti afroamericani in vista delle Olimpiadi cfr. Alberto Molinari, Gioacchino Toni, Storie di sport e politica. Una stagione di conflitti 1968-1978, cit., pp. 28-34. Per i riferimenti all’Olympic Project for Human Rights, alle mobilitazioni e al dibattito tra gli atleti afroamericani si veda in particolare Harry Edwards, The Revolt of the Black Athlete, New York, Free Press, 1969, pp. 42-48, 58-70, 98-100.
[4] Sulla comparsa dei distintivi dell’Olympic Project for Human Rights all’inaugurazione dei Giochi messicani: Non abbiamo perdonato e neppure dimenticato, in “l’Unità”, 8 ottobre 1968.
[5] Sui “pugni chiusi” di Città del Messico visti attraverso i commenti della stampa italiana cfr. Alberto Molinari, Gioacchino Toni, Storie di sport e politica. Una stagione di conflitti 1968-1978, cit., pp. 65-72. Sulla vicenda di Smith e Carlos in generale: Lorenzo Iervolino, Trentacinque secondi ancora. Tommie Smith e John Carlos: il sacrificio e la gloria, Roma, 66thand2nd 2017.
[6] Su Kaepernick: Football, stella Nfl resta seduto durante un inno: “Usa opprimono i neri”, in “La Repubblica”, 27 agosto 2016; Massimo Oriani, Football, Nfl: Kaepernick non si alza per l’inno: “Neri e minoranze oppresse”, in “La Gazzetta dello sport”, 28 agosto 2016; Nicola Selliti, La scelta di Colin Kaepernick: “Quell’inno il simbolo di un paese che opprime la gente di colore”, in “Il Manifesto”, 28 agosto 2016.
[7] Rudi Ghedini, Rivincite. Lo sport che scrive la storia, Edizioni Paginauno, Vedano al Lambro (MB) 2018, pp. 430-31.
[8] Massimo Ferraro, Lo sport Usa contro Trump. Curry, LeBron James e Bryant lo criticano. E lui ritira l’invito, in “La Repubblica”, 23 settembre 2107.
[9] Nicola Selliti, Anche i Washington Redskins per Black Lives Matter, in “Il Manifesto”, 6 giugno 2020.
[10] Nicola Selliti, LeBron James, microfono di Black Lives Matter, in “Il Manifesto”, 20 giugno 2020.
[11] Riccardo Pratesi, Clamoroso in Nba, stop ai play off: dai Bucks ai Lakers, salta gara -5 per il caso Blake, in “La Gazzetta dello sport”, 26 agosto 2020.