Che cos’è il digitale? È paradossale non si sappia ancora rispondere in modo immediato, chiaro e convincente a una domanda tanto banale quanto urgente. Viviamo immersi nel digitale; l’intelligenza artificiale innerva tutto e quasi tutto permette, ci rivela che tutto è connesso e tutto interagisce. I chip nei nostri Iphone raccolgono e trattengono le nostre storie/vite, ci raccontano al mondo e diventano il mondo grazie a Internet. Esistono, al mondo, più sim che utenti; in altre parole, più avatar che umani. Possono raccontare molto di cosa facciamo, pensiamo, consumiamo e desideriamo, aprendoci e concedendoci al possibile, in tutti i settori che riguardano la vita e oltre; intendendosi per oltre la produzione di mondi altri che insistiamo a chiamare, un po’ scioccamente, virtuali, anche se il digitale sa renderli più reali del reale.
E il digitale non solo ci circonda, ma va rendendo il futuro sempre più presente, un eterno presente. Ai più evocherà uno semplice stadio dell’evoluzione tecnologia, dunque per forza una buona cosa: l’evoluzione allude sempre a un mondo migliore, rinviando la catastrofe a qualcosa che sta solo alla fine di tutto. Altri – umano troppo umano – lo usano per lamentarne i pericoli, i grandi fratelli sempre dietro l’angolo, la tecnica che anziché soccorrerci docilmente ci domina, fino ai complottismi più torrenziali ed esilaranti.
È doveroso tentare un’immersione nella palude alla ricerca di una risposta, senza illuderci – o illudere il lettore – che si tratti un’operazione semplice o prodiga di ricompense. Sarà una ricognizione, tra l’impacciato e il presuntuoso; un tentativo cui farà da contraltare quello del lettore, cui saremo talvolta costretti a chiedere di riflettere in modo del tutto controintuitivo.
Un primo, cauto abbozzo: il digitale è l’interazione fenomenica tra eventi (ciò che può accadere, ma anche ciò che può non accadere), pensiero (il modo in cui l’interazione viene codificata e rielaborata, non necessariamente dal nostro cervello o corpo), azioni potenziali (la reattività dei processi con le relative dinamiche di feedback) e infiniti stati possibili di relazione. Un assunto piuttosto criptico che potremmo riformulare così: il digitale è la possibilità di far interagire pensiero e azione nella produzione di mondi, tesa altresì a ridurre la distanza tra teoria e prassi, ad attuarsi in modalità autopoietiche e a non dipendere strettamente da prefigurazioni mimetiche: può copiare dalla natura come no. Il digitale pensa il pensare, impara l’imparare, percepisce il percepire. La sua logica è un realismo immanente, e per questo sempre in differenza.
Per il digitale, il tutto e i singoli enti – materiali e immateriali – sono stati di relazione; gli stati di relazione attivano costantemente processi; e i processi non si risolvono obbligatoriamente in una predeterminata direzione. Il digitale opera nei, per e con i suddetti stati di relazione e tale relazione, in quanto interazione, rende il possibile e accoglie l’impossibile: quel che permane è l’aperta condizione di possibilità. Ciò che l’ente è, semplicemente quanto problematicamente, consiste nel possibile qui e ora, contraddittorio perché occupa la temporalità nella sua immediatezza ma si configura parallelamente nel senza tempo, singolare e universale a un tempo: lo stesso tipo di contemporaneità, per intenderci, che Hegel riconosceva (soltanto) all’opera d’arte.
Quella di un rapporto tra digitale e arte, benché di genere e non di sostanza, è però una digressione che complicherebbe anzitempo il discorso (e tuttavia per nulla peregrina: il digitale, dopotutto, libera creatività). Conviene lasciare che questo gioco si sedimenti e approfittarne, nel mentre, per aggredire un luogo comune particolarmente pervicace: che il digitale sia in sé una questione tecnologica, o meglio l’esito di una evoluzione della tecnica.
La narrazione tipica conta quattro rivoluzioni industriali: la prima a partire dal 1760, con l’introduzione della spoletta volante per la tessitura e con la comparsa delle prime macchine a vapore; la seconda dal 1870, con l’introduzione dell’elettricità, dei prodotti chimici e del petrolio; quindi la terza, compresa tra gli anni ‘50 e ‘70 del Novecento, con il passaggio dalla tecnologia elettronica meccanica all’elettronico digitale, e con la successiva diffusione dei computer; e infine l’attuale rivoluzione 4.0, segnata da un Internet of Things (IoT) collegato in modo diffusivo alle tecniche di produzione, per consentire ai sistemi di raccogliere e condividere informazioni, nonché di analizzarle e utilizzarle per guidare azioni intelligenti, incorporando tecnologie come la produzione additiva, la robotica, l’intelligenza artificiale, la realtà aumentata e le varie tecnologie cognitive.
Narrazione ovviamente più che plausibile, sostanzialmente incontestabile, se accettiamo un’idea di storia come alternanza di rivoluzioni e intervalli. Essa non dà però effettivamente conto di cosa sia il digitale, né tanto meno di cosa sia la rivoluzione a esso connessa (o la rivoluzione tout court); a meno che “il passaggio storicamente determinato dal primato della meccanica a quello dell’informatica” non soddisfi il nostro bisogno di definizioni. “Storicamente determinato”, tuttavia, significa semplicemente che qualcosa è stato condotto d’imperio verso una fine predeterminata (non per forza catastrofica, al contrario): restano insoluti il perché e il come, in favore di un’accettazione supina del fenomeno come passo evolutivo necessario nella trama della Storia.
Heidegger ci ha fatto presente che la tecnica non è questione tecnica: occorre forse provare a ricavarne che anche il digitale non è, in sé, solo una questione tecnica ma una modalità (per citando nuovamente Heidegger, che stravolse il lessico stesso della filosofia senza negarne gli assunti; il genere di “aggressione” in profondità che dovremmo far nostra nel corso di questa indagine) dell’essente, ovvero ciò che si contrappone al nulla.
Dovremo allora dotarci di strumenti di comprensione che appartengano più alla filosofia che alla tecnologia o alla sociologia, sapendo che cionondimeno ci troveremo in un territorio che la stessa filosofia ha fatto – e fa tutt’oggi – fatica a mappare. Potremmo persino arrivare a postulare un conflitto radicale tra filosofia e digitale in quanto modalità di rapportare il fare e il pensare al mondo: se così fosse non c’è filosofia, in quanto filosofia, che possa comprendere il digitale e, di converso, non può esserci argomentazione digitale filosoficamente legittimabile.
Procediamo comunque, partendo stavolta da una definizione provvisoria di digitalizzazione: il processo, ovverosia, con cui si trasforma una grandezza “continua” in una “discreta”, laddove quest’ultima appare caratterizzata da valori che procedono a salti; procedere dal discreto rimanipolando il continuo significa, sostanzialmente, relativizzare la presunzione di assoluto implicita nel continuo. Potremmo dedurne che per la digitalizzazione la natura procede per salti, e non è dunque vero che tutto, in essa, avviene secondo leggi fisse e per gradi, come ritenuto in forma assiomatica dalla scienza così come, in fondo, dal pensiero filosofico; in particolare dalla filosofia “scolastica”, e in seguito da quel Leibniz che può essere verosimilmente considerato il padre del digitale, precursore qual è dell’informatica e del calcolo automatico. Contraddizione tra le tante che inevitabilmente faranno capolino qua e là nel discorso, non ultima quella tra filosofia, arte, scienza e tecnica non digitale: sono la stessa cosa oppure c’è una filosofia digitale, un’arte digitale, una scienza digitale e così di seguito?
Sarà opportuno, se non altro, cercare di chiarire la differenza tra una visione che considera l’insieme dei fenomeni a partire dal continuo e una che prende invece le mosse dal discreto, visto è proprio al discreto che il digitale tende a ricondurre tutto; senza, come vedremo, contraddire la possibilità stessa del continuo.
In matematica, fisica e filosofia i termini discreto e continuo assumono significati diversi a seconda del periodo storico e del contesto. Una definizione intuitiva, per quanto informale e imprecisa, può essere la seguente: un oggetto è considerato discreto se è costituito da elementi isolati, cioè non contigui tra loro, mentre è considerato continuo se contiene infiniti elementi e se tra questi elementi non vi sono spazi vuoti, o se gli spazi vuoti sono riempiti anche all’infinito da elementi omogenei; tra il punto X con 1 e il punto X con 2 possono esserci infiniti X punti ma non infiniti elementi non puntuali, o ne conseguirà che quella, semplicemente, non è più una retta.
Consideriamo un numero X di punti disseminati in uno spazio aperto, meglio se libero: ogni punto può avere o non avere relazioni con tutti gli altri punti. Ogni relazione è determinata e può cambiare se nel frattempo operano altre relazioni, o se cambiano aleatoriamente le posizioni. Qualsiasi nuovo punto venga introdotto cambierà il contesto possibile e le relazioni, e ogni punto cambierà di stato a seconda di quali relazioni si attiveranno. Ogni punto sarà contemporaneamente ciò che è e ciò che potrebbe essere, singolare e plurale, equivalente e non equivalente, una monade e molteplici possibilità.
Battezziamo ora i punti enti. Gli enti, materiali – animali, vegetali, minerali – e immateriali – linguistici, concettuali, logici e illogici, razionali e irrazionali – saranno allora sostanzialmente stati di relazione tra elementi nel contempo analoghi, cioè simili, e in costante condizione di variabilità a seconda delle relazione di volta in volta attivate. L’infinito sarà una delle possibilità del finito. Ebbene, questo è l’esistente per il discreto e questo è ciò in cui – e per cui – opera il digitale, la sua stessa potenza.
Consideriamo ora una retta, ogni punto della quale sia definito solo dal punto che lo precede o che lo segue, cosicché nella successione di punti, da una parte come dall’altra, ci sarà sempre un altro punto e così all’infinito. Certo, possono esistere, in un altrove, infiniti punti rispetto alla retta, con caratteristiche proprie e, se vogliamo, disposti a entrare in relazione di sistema con il proprio – o anche con un improprio – altrove; ma sarà la retta, con il suo ordine, a determinare una qualche gerarchia e le logiche di una successiva configurazione. La forma sarà l’esito di una imposizione preventiva (qualcuno potrebbe scrivere: di una volontà formale presupposta) ma non dei processi messi in atto dalla libertà delle relazioni potenziali.
Ebbene, questa è invece una condizione specifica del continuo discreto; ciò in cui – e per cui – opera l’analogico.
Nel primo caso, gli enti sono stati di relazione e quindi condizioni di possibilità; nel secondo sono definiti dall’identico e quindi condizioni di necessità. Il digitale può accettare – e manipolare – il continuo come uno degli stati di relazione possibile; il continuo tenderà a considerare il discreto come irrazionale a fronte della propria presunta razionalità/universalità. Nel primo caso, l’inizio e la fine sono eventi nelle infinite variazioni del possibile; nel secondo, l’inizio come la fine appaiono iperdeterminati da un presupposto di natura inevitabilmente sovrasensibile (separando così esperienza sensibile e valenza concettuale). Nel primo caso, i concetti sono fatti e dati; nel secondo sono astrazioni e deduzioni dei fatti e dei dati.
E di nuovo: nel primo, il mondo è qui e ora l’insieme degli stati di relazione possibili (compresi quelli del continuo, cioè storicamente determinati) e non si dà differenza tra materiale e immateriale, o tra razionale e irrazionale, o financo tra vero e falso, se non caso per caso; nel secondo, il mondo è l’inizio e la fine di tutto ciò che si dà come evidente: inizio e fine determinano il valore dell’evento/ente e l’insieme apparirà allo stesso tempo relativo e assoluto: materiale e immateriale si imporranno così come conflittuali (per intenderci è la dialettica nelle sue articolazioni varie da Hegel in poi, sino alle pratiche della decostruzione filosofica dell’ultima parte del secolo scorso).
Infine: nel primo, il mondo è linguaggio come informazione; nel secondo, su ciò di cui non si può parlare si deve tacere: esiste cioè un luogo mistico nel quale il linguaggio può essere sospeso.
Continuo e discreto sono due modi diversi non solo di pensare il mondo, ma anche di analizzarlo, modificarlo, produrlo: il continuo parte dal presupposto che ciò che percepiamo sia così perché c’è un ordine che governa l’infinita varietà del mondo, e accetta la differenza e il cambiamento supponendo che comunque un ordine esista, con un principio e una fine.
Quest’ordine, come la legge che determina il variare del tempo, non è visibile. L’apparenza non è la sostanza; questa è in qualche modo per propria natura nascosta. È l’invisibile che governa e dà senso al visibile: l’uomo deve, con il proprio pensiero e con fatica, penetrare – interrogare – l’infinita differenza dei fenomeni per trovare le ragioni – o la ragione – di quest’ordine presunto e le leggi che lo rendono tale. Per cogliere quest’ordine si procede per successive astrazioni, o concettualizzazioni che dir si voglia, riducendo l’apparenza degli enti sino al punto di garantire la separazione tra apparenza e sostanza; o meglio, sino al punto di condurre l’ente verso il concetto e verso l’astrazione radicale che è il numero.
È questo procedimento che permette di “calcolare” quell’ordine necessario: in questo modo si trascende assieme l’apparenza e la stessa esistenza, riducendo la complessità/varietà alla numerosità. Laddove il numero non è certamente la cosa che eventualmente designa – o comunque, prevalentemente, indica – una quantità. L’insieme dei numeri, la loro potenzialità operazionale, le loro relazioni ordinate e prevedibili esprimono – anzi, sono – l’ordine stesso del mondo. Si apre così lo spazio logico del trascendentale.
Tutto questo è stato, ed è ancora, straordinariamente efficace. Se il mondo viene interpretato a partire dal continuo, non solo ci saranno un inizio e una fine inevitabilmente determinati, ma la sua stessa consistenza logica sarà caratterizzata da questa dimensione teleonomica, che sarà a sua volta teologica (qualcuno direbbe ontoteologica). Da questo punto di vista, il mondo o è prevedibile o è un intralcio.
In sostanza, il continuo trascende il dato matematizzando il reale, riducendolo a mera quantità; e così facendo prevede e produce il mondo rendendolo materialmente “fattuale”, “a disposizione”. Il discreto, di contro, ipostatizza l’ente come singolarità e, a un tempo, individua nelle relazioni potenziali la qualità stessa. Schematizzando, il continuo calcola, il discreto argomenta e nella sua argomentazione include anche la possibilità del calcolo; nel continuo, la tecnica è dedicata e finalizzata, inevitabilmente meccanica, mentre nel discreto la tecnica è linguaggio-informazione, relazione, intelligenza artificiale, argomentazione; nel continuo, nel migliore dei casi, il mondo è una macchina, nel discreto ogni tecnologia è biologia e ogni biologia è tecnologia.
In termini concreti: se una macchina analogica calcola, un computer, oltre a calcolare, argomenta. Nella prima la verità è predeterminata dalla – e per la – relazione matematica, nella seconda la verità è posizionale e procede caso per caso. Se nella prima è fondamentale la distinzione vero/falso, come quella razionale/irrazionale, nella seconda le distinzioni – i dualismi, le differenze – possono essere riconfigurate a seconda delle relazioni in atto. Mentre la prima calcola, il secondo pensa (anche quando calcola).
Il continuo si supporta con il principio di identità, che non a caso è alla base di ogni metafisica possibile, ipostatizzando una relazione sostanziale tra essere e tempo (rielaborata in età contemporanea soprattutto da Hegel, come coincidenza tra essere e storia; il tutto fondato antropologicamente, nell’uomo e per l’uomo). Il principio di identità sta a fondamento della logica (come dell’etica) che si costituisce con la filosofia e con la metafisica occidentale. La sua argomentazione – e legittimità – si fonda sull’assunto per cui una cosa non può essere nello stesso tempo A e non A; dal che ogni cosa, per essere ciò che è, non può che essere uguale a se stessa: A = A.
Questo modo di pensare e produrre si fonda sul primato della mimesi, ove la tecnica è copia (nei modi delle logiche o procedure quanto delle forme) e deve quindi fare il possibile per assomigliare al proprio modello. Quando si raggiunge l’identico, si raggiunge la perfezione; e a darne conto è la matematica, scienza delle scienze, la cui radice sanscrita Ma– concediamoci una digressione – non è un caso rinvii sia al misurare che al costruire, al dare forma con la ma-no ed è forse vicina anche al latino ma-ter, come a dire alla sostanza prima; senza tralasciare la trama etimologica, parallela o rizomatica, della parola metis, centrale nel pensiero platonico per indicare la giusta misura e lo stare nel giusto mezzo, che a sua volta è possibile riferire a metior – misurare, ma anche percorrere – così come a men (mese), mene (luna) e a quel manus (mano) che Semeraro riconduce all’accadico manu (contare), che torna in voci greche con il senso di “ricordare”, “aver senso”. Si ricordi, in ultima analisi, il greco menos (spirito, mente), e ovviamente il latino mens(mente); e ci si potrebbe anche spingere a supporre un legame con l’inglese man e il tedesco mann (uomo).
C’è molto di ancestrale sul quale riflettere. Nelle parole si nascondono abissi primordiali e tutte le civiltà ritrovano in questi abissi le proprie forme, ragioni, potenze o debolezze. Ma negli abissi tutto sempre si rimuove, tra identità e differenza, e allora il sotterraneo emerge o riemerge. E l’identità presunta si disperde, scoprendo che il suo orgoglio è una palude. È capitato anche all’orgoglioso Occidente, grazie a ciò che chiamiamo il digitale.
Il perché risulta chiaro: nel digitale, A non è per forza uguale ad A. Oltre le reciprocità formali, c’è infatti una differenza di posizione: il primo A è in posizione diversa dal secondo A. La stessa matematica si riscopre quindi efficiente ma non più trascendente, cioè assoluta (Gödel). La logica della macchina universale di Turing non è forse una logica posizionale? E non è questa che fa sì che anche le macchine possano di fatto pensare, ovvero essere in relazione? Il digitale è un fantastico e potentissimo virus che viene dagli abissi e, contrariamente a quanto prescritto dai miti antichi, va combattuto e infine dominato guardandolo negli occhi.
Nel digitale, la relazione A = A non va considerata come un principio: non si dà quindi il principio di identità poiché, al contrario, si dà costantemente una diversità di posizione. Da ciò deriva quantomeno il sospetto che il digitale, per giustificarsi, non abbia bisogno di una qualche metafisica, cioè di un “principio” che possa spiegare o includere il tutto, a meno che il tutto non sia la diversità stessa. Ogni argomentazione sarà così autoreferenzialmente vera senza dover necessariamente essere fondata da un logos sottostante. La figura del digitale – la sua cosmogonia – è l’eterno ritorno del sempre diverso.
Se decidiamo che questo è plausibile, va ripensata l’idea stessa di soggetto, cioè del modo in cui l’identico viene elaborato in un orizzonte antropico, e in modalità spazio temporali, in ciò che chiamiamo Storia. In un contesto metafisico dove A = A, il soggetto è inevitabilmente orgoglioso della propria singolarità in una totalità predefinita, nel contesto di una appartenenza per l’appunto identitaria (gruppo, tribù, stato, nazione, sangue e terra; gli antichi greci sostenevano che sei quel che sei, cioè umano, perché appartieni al nomos, alla legge della città). In questo caso, l’autoriflessione connota il soggetto come quell’ente che elabora il proprio destino in un determinato insieme di senso e di appartenenza. Un soggetto inevitabilmente portatore di conflitti, di polemos: il suo essere sarà nel contempo un imporsi e un appartenere.
Se invece A è sempre e inevitabilmente diverso da A, allora non si dà totalità ma costante differenza e il soggetto potrà configurarsi come portatore della differenza stessa, o di uguaglianza tra diversi. Questo non annulla il conflitto, ma lo sottopone al principio di responsabilità, che è tutto meno che metafisico; nel primo caso avremmo un’etica dell’identità e dell’imposizione, nel secondo della differenza e della responsabilità. Il soggetto allora apparirà diverso a se stesso, a sua volta avatar.
Il digitale opera sul dato portato dallo stato di relazione, e tutti gli enti materiali e immateriali – compreso il soggetto – sono stati di relazione. Da questo punto di vista, tutto nel digitale è sociale – compreso il soggetto. Tempo fa, negli anni in cui il digitale diventava tecnologia diffusiva, si sarebbe detto “il privato è pubblico”. Non c’è principio o fine; non ci sono imposizioni possibili, ma posizioni caso per caso e, soprattutto, l’uomo non è fatto a immagine e somiglianza di alcunché.
In gioco c’è anche la dialettica tra temporalità e storicità. Proprio in quanto lineare o finalizzato per propria condizione fenomenica, il continuo è supportato da un legame profondo con la temporalità verso la storicità, anche perché sta nel nostro stesso orizzonte ontico, nella nostra finitudine, nell’inevitabilità della percezione della fine di quel singolo ente che chiama se stesso uomo (quella che Heidegger, e con lui tutto l’esistenzialismo, fa emergere come angoscia). Questa percezione, che ci sostanzia e qualifica, ci porta altresì a ritenere che il continuo sia l’essenza dell’esistente stesso e, in qualche modo, anche di ciò che trascende la nostra singolarità e che definiamo con la parola Essere. Ma la nostra percezione, la nostra intelligenza delle cose e del mondo, il nostro stesso linguaggio non si risolvono – compiono – in noi, bensì partecipano delle condizioni generali dell’essente stesso.
In altri termini, l’intelligenza (non solo la nostra), come flusso degli stati di relazione esistenti e potenziali, trascende ogni singolarità; può elaborare una totalità con le singole identità, grumi, rizomi. Conseguentemente, può pensare (ciò che viene avvertito come) l’impossibile: qui è il grumo che coinvolge ciò che chiamiamo creazione. Si può persino pensare che possa esistere un mondo anche senza trascendentali, senza spazio e senza tempo.
Questa potenzialità – o questo scarto – in tutti i sistemi di produzione di senso è sempre attivo anche nella stessa relazione tra linguaggio e mondo; e non è affatto, come viene spontaneo pensare, esito emergente o caratteristico di ciò che chiamiamo logica o scienza, anche se oggi è proprio la scienza, in particolare la fisica quantistica, che ci mette di fronte a mondi dove lo spazio e il tempo non esistono e dove l’entanglement, ovvero l’azione spettrale a distanza, dimostra che le proprietà di ogni particella influiscono o dipendono (stato di relazione?) dalle proprietà di altre particelle, benché le interazioni avvengano a grandi, grandissime, immani, distanze o su diversi piani temporali.
È peraltro curioso il fatto che, non riuscendo a risolvere la non corrispondenza delle leggi individuate sul mondo macro (cioè sulla fisica classica) rispetto a quelle del mondo micro (cioè della quantistica), si trovi conforto nell’idea che, prima o dopo, troveremo una legge unica; e che comunque i due mondi sono radicalmente diversi, anche se poi dovremmo pur spiegare come già oggi possiamo utilizzare sistemi di calcolo basati sostanzialmente su dinamiche della quantistica. La quantistica, volenti o nolenti, è anche di questo nostro mondo: dovremmo forse umilmente riconoscere che il nostro mondo, quello che pensa se stesso nel lineare, è solo uno dei possibili casi di quel mondo che chiamiamo quantico e che opera nel – e per il – discreto. Che il discreto contenga il continuo non impedisce a quest’ultimo di tentare continuamente – e freudianamente? – di rimuoverlo, anche oggi che il discreto sta pienamente emergendo come potenza.
Detto questo, se ogni tecnologia è biologia e viceversa, ciò vale in qualsiasi tempo e spazio; o meglio, al di là del tempo e dello spazio. In altre parole, se il digitale emerge nel nostro tempo, questo non significa non fosse presente, nei modi dell’intelligenza, già in tempi di orizzonte dominante di continuo, di un pensare e di un fare lineari e storicamente determinati. Il cervello, d’altra parte, elabora a sua volta modalità algoritmiche (quelli che chiamiamo “pensieri”, ma anche le decisioni relative ai movimenti del corpo), in switch con procedure analoghe alla macchina di Turing e in un contesto gödeliano. E questo non riguarda solo il comportamento specifico di un particolare insieme sistemico – l’“animale uomo” – in un determinato momento storico: accade continuamente nella nostra stessa vita, e accade, accadde e accadrà analogamente in quella dei nostri simili, nonché degli enti compresi in quelli che chiamiamo regno vegetale e – financo – regno minerale. Esistono varie modalità del pensare; se il nostro scopo è tentare di comprenderle, la parola fondamentale è bios. Tra l’emergere della genomica e della quantistica c’è, infatti, una relazione epistemica.
Ogni ente è, produce e si relaziona in quanto informazione: la sua unità – che non dovremo intendere come “misura” – è il bit. Il bit come quantità di informazione viene introdotto da Claude Shannon, che nel 1948 elabora la teoria dell’informazione; verrà usato nel campo della compressione dati e delle trasmissioni numeriche. Intuitivamente, equivale alla scelta tra due valori – sì/no, vero/falso, acceso/spento – quando questi hanno la stessa probabilità di essere scelti. In generale, per eventi non necessariamente equiprobabili, la quantità d’informazione di un evento rappresenta la “sorpresa” nel constatare il verificarsi di tale evento: se un evento è certo, il suo verificarsi non sorprende nessuno, quindi il suo contenuto informativo è nullo; se invece un evento è raro, il suo verificarsi è sorprendente, quindi il suo contenuto informativo è alto.
La “riduzione bitica” opera nel campo della logica, non necessariamente in quello della matematica o della riduzione degli enti alla loro numerabilità. Da questo punto di vista, mentre la riduzione matematica si impone in forma assiomatica, essa può essere riconfigurata là dove si riespande, può articolare sistemi argomentativi, diventare o ridiventare linguaggio. Tende ad avere un rapporto simbiotico con i dati e con lo stesso linguaggio che li argomenta proprio utilizzando il processo riduttivo dei nuclei atomici – i bit – rappresentati dalla possibilità/decisione 1/0, si/no, vero/falso, acceso/spento; una simbiotica con quel linguaggio relazionato non deterministicamente alla logica, che indica e può descrivere enti e processi, mentre quello matematico è costretto a separare la rappresentazione della cosa – la sua numerabilità – dalle caratteristiche della stessa (ciò che gli antichi chiamavano “la sostanza”). L’atomismo logico che emerge nella logica bitica può nel contempo ridurre il complesso al semplice, ma può anche parallelamente espandere il semplice al complesso (e senza alcun sradicamento ontologico, contrariamente a quel che avviene nella matematizzazione del mondo: il numero non sa dirci quasi nulla della cosa numerata).
La distinzione 0/1 è solo apparentemente dualistica, poiché lo zero non ha alcun valore in sé e così l’1: sono posizionali, nella sostanza intercambiabili. Ogni ente è “bitico” e, in quanto bitico, stato di relazione potenziale, singolare e universale; produttore, nell’essere in relazione, sia di singolarità e universalità, in maniera del tutto simile all’opera d’arte in Hegel. Ogni ente è bit – informazione –, analogo a tutti gli altri bit, materiali o immateriali che siano, di qualsiasi genere, specie, forma, razionali o irrazionali che possano apparirci. Controintuitivo, certo. Ma solo forzando la nostra capacità intuitiva, la necessaria appartenenza al nostro mondo, possiamo governare, come stiamo imparando pericolosamente a fare, l’immane potenza del discreto.
Il discreto è dunque sempre stato presente, nei modi del pensare e del parlare in tutte le sue modalità linguistiche, in tutte le forme “storicamente determinate” e quindi nella stessa formazione e sviluppo della cultura occidentale, in tellurico conflitto (più frequente di quanto si pensi) con quel continuo che l’Occidente andava imponendo alla totalità. Segnaliamo due momenti significativi di emersione della conflittualità, ma anche di possibilità di capovolgere i “valori” in gioco: il paradosso di Zenone, messo in gioco nella fase formativa del logos greco che usiamo definire “tempo dei presocratici”; e la nascita della geometria non euclidea nella prima metà dell’Ottocento.
L’antico paradosso si chiede chi può vincere una gara di velocità il “piè veloce” Achille e la lentissima tartaruga. Viene spontaneo scommettere sul primo; ma secondo Aristotele, seguendo la logica, Achille non raggiungerà mai la tartaruga, dato che un mobile più lento non può essere raggiunto da uno più rapido; perché colui che insegue deve arrivare al punto che occupato dall’inseguito e dove questo, quando il primo arriva, non è più. E così, la tartaruga conserverà sempre un vantaggio sul piè veloce.
Qual è la soluzione al paradosso? Tempo e spazio, in potenza, sarebbero divisibili all’infinito, ma non sono divisibili all’infinito in atto: una distanza finita, che secondo Zenone non sarebbe percorribile perché divisibile in frazioni infinite, è infinita nella considerazione mentale, ma in concreto si compone di parti finite e può essere percorsa. Un tentativo di mediazione? Di certo una concessione a un ordine metafisico che emerge dalla separazione tra potenza – ciò che è possibile – e in atto – ciò che accade – e tra astratto e concreto (se proprio vogliamo, tra razionale e irrazionale). Il continuo (di cui Aristotele, da questo punto di vista, è sacerdote assoluto) promuove la dualità e così facendo ci consegna alla metafisica: la realtà è l’analogo concettuale, l’astratto che governa passato, presente e futuro. Il kairetico, che ha radici persino anteriori ai presocratici, non è apertura al possibile ma determinazione dello stesso. Vincerà il continuo, come sappiamo, e con esso l’imposizione della filosofia e della metafisica.
L’emergere della geometria non euclidea ci permette invece di penetrare il gioco sottile del discreto, in quanto emersione del discreto stesso. Più che flusso sotterraneo, si è trattato di un rizoma, stupefacente non tanto dal punto di vista logico quanto epistemico: il pensiero dimostra di poter pensare qualcosa che non può e non potrà mai essere esperito; si libera dalla gabbia di quella forma di pensiero che si era data il nome di scienza, operando pienamente nel controintuitivo. È la scienza stessa che supera ciò che l’ha fondata nella modernità: il legame stretto, strettissimo, con l’empiria; il pensiero che prova a riconoscersi in sé come fattuale.
Qualche altra faglia tellurica. Siamo nella fine degli anni quaranta: negli Usa, Claude Shannon lavora alla teoria dell’informazione e ai suoi studi matematici sulla genetica, approdando poi a una fondamentale teoria del campionamento che studia la rappresentazione di un segnale continuo – analogico – mediante un insieme discreto di campioni e intervalli regolari (digitalizzazione). Si può ora, di fatto, passare dal continuo al discreto, un passaggio fondamentale per il digitale diffuso.
Sin dal 1938, Shannon aveva intuito che i circuiti elettrici sono in grado di svolgere operazioni preposizionali elementari, dato che in un filo elettrico passa o non passa la corrente. L’1 e lo 0 della logica di Boole si fanno quindi filo elettrico: come Boole aveva tradotto, poco meno di un secolo prima, la logica proposizionale in linguaggio algebrico con l’algebra booleana, così Shannon traduce il linguaggio algebrico in quello dei circuiti elettrici. È quanto costituisce l’ossatura di una macchina di Turing universale: un circuito elettrico con porte e interruttori; ed è anche, di fatto, la base della computazione digitale (algoritmica).
Nel corso dei suoi incontri con Norbert Wiener, per lo più al Mit di Boston, Shannon rileva in aggiunta come, di fatto, il comportamento dei circuiti elettrici che sta studiando non sia dissimile a quello che avviene nel nostro cervello: una trasmissione di segnali intercettata da porte on/off. È allora che diventa possibile ipotizzare, in linea teorica, che una macchina di computazione booleana possa essere capace di pensare; anche se ancora lo si ritiene improbabile, data la notevole quantità di interazioni prodotte da un cervello umano rispetto a quelle che è a quel punto immaginabile elaborare sia meccanicamente che elettronicamente. Oggi sappiamo che con l’evoluzione verso il computer quantico è più che possibile.
Anche Norbert Wiener, nel frattempo, sta lavorando alla teoria dell’informazione verso la cibernetica, intesa come scienza di orientamento interdisciplinare che si occupa non solo del controllo automatico dei macchinari mediante il computer e altri strumenti elettronici, ma anche dello studio del cervello umano, del sistema nervoso e del rapporto di comunicazione e di controllo tra i due sistemi, artificiale e biologico (in particolare analizzando i procedimenti di feedback, cioè di retroazione).
La cibernetica supera la distinzione essenziale tra meccanismo e organismo, tra macchina, uomo e animale; considera non essenziale la distinzione tra i regni, dato che ciò che le preme non è il cos’è, ma il come funziona. Non si tratta quindi di una scienza intenzionale rivolta all’oggetto, ma di una metascienza con finalizzazione tecnica: è come se Wiener affermasse che non ha più senso chiedersi che cosa è una cosa. Questa perdita di senso mette in discussione l’intero impianto della filosofia occidentale, a partire dalla domanda sull’Essere: è chiaro che se gli enti sono il modo in cui funzionano, questi saranno solo stati di relazione continuamente modificabili e conformabili, all’interno di reazioni che interagiscono in ogni direzione su processi di feedback o autocontrollo; e che la loro stessa consistenza/esistenza dipenderà appunto da tali relazioni. Da questo punto di vista, la cibernetica è una delle modalità del digitale.
Negli stessi anni, William Grey Walter, neurofisiologo e pioniere dell’applicazione dell’elettroencefalogramma alla clinica neurologica e psichiatrica, tra i primi studiosi di cibernetica, realizza alcune macchine autonome semoventi per illustrare le modalità di funzionamento di alcuni meccanismi cerebrali. Sviluppando idee nate dai primi contatti con lo psicologo scozzese Kenneth Craik, costruisce i primi esempi di robot semoventi in grado di simulare un comportamento orientato al raggiungimento di uno scopo: si tratta di semplici macchine a tre ruote, due motori e alcuni semplici circuiti elettronici. Le chiama “tartarughe”, per la forma e la lentezza dei movimenti; sono attratte, grazie ai propri sensori, da una luce non troppo forte, e respinte di contro da una luce di intensità superiore a un certo livello, nonché dall’incontro con ostacoli. Semplici regole che producono comportamenti imprevedibili e apparentemente complessi, che potrebbero dare l’impressione di una attività libera ed autonoma, e che Walter ritiene sarebbero stati accettati come segno di un certo grado di consapevolezza se osservati in un animale.
Realizzandone una seconda serie – la Machina docilis – Walter aggiunge due circuiti che permettono alla macchina di apprendere dei comportamenti, simulando il riflesso condizionato introdotto in psicologia da Pavlov.
Shannon, Wiener, Walter e molti altri: tutti elaborano e praticano filosofia, logica, matematica, teoria dell’informazione, neurofisiologia; incrociano saperi per cogliere le potenzialità del rapporto tra vita e pensiero, senza illudersi che il pensiero abiti o sia patrimonio solo di quell’animale che chiama se stesso uomo.
E ritorniamo così alla domanda iniziale, cui siamo ora in grado di offrire una risposta perlomeno parziale: Che cos’è il digitale?
Non è certamente mera parte dell’evoluzione tecnologica e soprattutto non è questione tecnologica: è un modo d’essere – non dell’Essere – quindi un modo di pensare, fare, vivere; si potrebbe dire del comprendere, di legare, pensare, fare e di nuovo rispondere e agire. Ciò che la cibernetica e il digitale (che sono la stessa cosa e al contempo non lo sono) hanno messo in evidenza è che tutto è stato di relazione, tutto opera in feedback e ogni ritorno determina un nuovo stato di relazione, che può continuare o meno nel tempo o agire o meno nello spazio, in modalità determinata o indeterminata.
Il digitale sta nell’eterno ritorno della differenza, e opera nella relazione stretta tra tecnologie e biologia. Gli enti stessi, materiali e/o immateriali, sono stati di relazione e in quanto tali, contemporaneamente, identici e diversi. Il digitale è senza dover presupporre la necessità di trascendentali. Nel digitale ritorna il Kairos, cioè la possibilità di interagire fattualmente con ciò che è opportuno; e ritorna l’Aion, nel quale (stando a Omero) l’essere non nasce né perisce ma è il bios di Dio; è l’eterno presente, vita e mondo, totalità. Il digitale opera nell’Aion con il Kairos, cioè nelle condizioni dell’aperto e del possibile, dell’opportuno anziché del determinato o del necessario. E la sua verità è posizionale: rizoma per rizoma, grumo per grumo.
Questo brano è tratto da Luca Taddio, Gabriele Giacomini, Filosofia del digitale (Mimesis Edizioni, Milano 2020, pag. 346, 24€)