SCAMBI DI GENERE IN FILOSOFIA

Spesso mi capita di leggere o ascoltare dichiarazioni di donne importanti e affermate in cui si premette, al racconto del loro successo personale nel lavoro e nella vita, una precisazione del tipo “Non sono femminista”. Come se il femminismo fosse non solo un retaggio del passato, superato dal processo di avvenuta emancipazione, ma soprattutto una posizione settaria e quindi parziale, priva di universalità, forse necessaria in una determinata fase storica, ma oggi incompatibile con l’immagine di un’individualità evoluta, mobile e aperta al cambiamento, priva di risentimento perché, appunto, “realizzata”.

Vorrei partire da questa negazione per entrare, in modo un po’ laterale e poco filosofico, in dialogo con l’ultimo libro di Eleonora de Conciliis, Nostra Signora Filosofia. Sul divenire donna del pensiero[1]. Fin dalle pagine dell’introduzione si annuncia una proposta teorica che prende sul serio il femminile, o meglio, come vedremo, il “divenire femminile”, senza però identificarsi con il femminismo, in nessuna delle sue versioni storiche. Ci troviamo di fronte a una presa di distanza il cui senso è però del tutto diverso da quello sotteso alla precisazione “Non sono femminista”.  Non si tratta di liquidare il femminismo a partire da un suo presunto superamento; semmai di riconoscerne il limite, consistente nel fatto di essere stato, salvo rare eccezioni, una battaglia per il potere. Un movimento inficiato, quasi infestato, da quello che Jacques Lacan ha definito il “discorso del Padrone”[2]. Lacan è convocato direttamente nel libro, insieme a diversi nomi della filosofia contemporanea, tra cui spiccano quelli di Derrida e di Deleuze, sullo sfondo di un riferimento continuo a Nietzsche. Il giudizio critico sul femminismo non è dunque l’intento principale dell’analisi, anzi può apparire marginale rispetto a un obiettivo non solo differente, ma in un certo senso ben più ambizioso, che è quello di far emergere una posizione femminile della filosofia, e di scommettere sulla sua capacità di disegnare, per essa, un possibile futuro. Perché sottolinearlo allora, perché non lasciarlo ai margini dell’analisi, perché non trattarlo come una semplice avvertenza di metodo, volta a delimitare un campo separandolo da interferenze sociologiche e a definirne l’oggetto strettamente filosofico?

La mia ipotesi è che il corto circuito tra filosofia e ancoraggio concreto, personale e storico, dell’esperienza, sia essenziale in questo libro. Non è indifferente, osserva infatti de Conciliis, che il testo sia stato scritto da una donna[3]. La differenza sessuale, in altre parole, è tanto la condizione originaria, contingente e opaca, che precede la riflessione e la condiziona, quanto il nome di un possibile rapporto alla verità accessibile anche ai soggetti di sesso maschile. Ora, è difficile non confrontarsi con l’avventura molteplice del femminismo, o sarebbe meglio dire dei femminismi, per capire cosa possa significare “essere una donna”, nel senso anche molto semplice e immediato, di trovarsi a esserlo senza averlo deciso. È vero che “donne non si nasce, ma si diventa”, come ha scritto Simone de Beauvoir, ma il punto di partenza del processo in cui lo si diventa non è indifferente.

A complicare le cose c’è anche il fatto che il tema non è tanto – o forse non solo – quello del divenire-donna di un soggetto umano, sia esso maschio o femmina, quanto quello di un processo che riguarderebbe la filosofia. L’espressione è mutuata dalle teorizzazioni di Deleuze e Guattari[4], e indica, come il “divenire-animale”, una metamorfosi discorsiva e creativa in cui il genere, il sesso, l’umano stesso, sconfinano in vario modo nell’alterità, sottraendosi ironicamente, teatralmente, alle identità fissate da una lunga tradizione secondo dispositivi binari orientati da una logica disgiuntiva. Il soggetto della trasformazione è però anche la donna, e potrebbe esserlo l’uomo stesso. Cosa succederebbe dunque alla filosofia in un tale processo di “femminilizzazione”?

Eleonora de Conciliis, Nostra Signora Filosofia. Sul divenire donna del pensiero (Orthotes Editrice, Salerno 2019, pag. 98, 13€).

In un certo senso, bisogna riconoscere che la filosofia si femminilizza molto presto e persino con troppa facilità. “Nostra Signora Filosofia” è infatti un titolo in cui risuona, certo ironicamente, l’appellativo cristiano della madre di dio, quindi la stretta parentela con il potere supremo, con il Figlio-Padre. L’autrice sa di muoversi su un terreno scivoloso. La filosofia infatti ha spesso assunto sembianze femminili, materne, salvifiche: così essa può presentarsi quale figura consolatrice nei confronti del filosofo[5], il quale, per converso, è sempre stato un personaggio maschile. La filosofia appare in questo caso simile a un discorso già fissato nelle sue movenze, nei suoi temi tipici, nei suoi percorsi codificati come rituali: nel “discorso dell’università”, per dirlo ancora con i concetti lacaniani, sostanzialmente passivo e subalterno, senza più rapporto con la ricerca, con la “caccia” della verità, ma non per questo meno complice del potere.

È Nietzsche a disegnare con tratti fulminei, in una sequenza famosissima, il passaggio che conduce dalla posizione maschile, platonica, della filosofia in rapporto alla verità, a quella femminile riconoscibile nel cristianesimo: la verità diventa donna, si fa cioè sottile, sfuggente, inafferrabile e irraggiungibile[6]. Notiamo di passaggio che Nietzsche pone qui l’accento su una metamorfosi della verità più che della filosofia, ma forse lo slittamento si spiega con la dissociazione della verità, che in Platone parla per bocca dello stesso filosofo – “Io, Platone, sono la verità” – dalla parola filosofica.

In termini psicoanalitici, la separazione malinconica della filosofia dalla verità equivale all’accettazione della castrazione. La verità opera come il Fallo, ovvero come il significante della pienezza vitale e dell’unità coincidente con sé stessa, che non è dato a nessun essere umano, né maschio né femmina, di poter incarnare, ma che ne stabilisce i ruoli, entrambi contrassegnati da una modalità della mancanza. Un contagio del femminile è dunque già all’opera nella vicenda storica della filosofia. Perché dunque non basta lasciargli compiere la sua opera?

Se però andiamo più fondo, se leggiamo a contropelo i testi di Nietzsche, possiamo cogliervi tracce di un “divenire femminile” di segno opposto. Sulla scorta di Jacques Derrida, Eleonora de Conciliis riporta in primo piano le sfaccettature e le ambivalenze della scrittura nietzscheana in rapporto alla donna. Rileggiamo il densissimo passaggio di Sproni. Gli stili di Nietzsche, dove Derrida intreccia le questioni della verità e della donna, mettendo in risalto il groviglio forse impossibile da sciogliere in cui Nietzsche si trova impigliato:

Non si dà verità della donna, ma, in quanto questo scarto abissale della verità, questa non-verità, è la «verità». Donna è un nome di questa non-verità della verità. […] Da un lato Nietzsche rielabora […] questa figura vagamente allegorica: la verità come donna o come movimento dei veli del pudore femminile. […] D’altro canto, però, il filosofo che crede, credulone e dogmatico, alla verità così come crede alla donna, non ha capito nulla di questa verità che è donna. […] Giacché se la donna è verità, essa sa che la verità non c’è, che la verità non ha luogo e che non si possiede. Ed essa è donna in quanto, per quel che la concerne, non crede alla verità, non crede, cioè, a quello che essa è e a quello che si crede che sia: e cioè che non è[7].

Insomma, nonostante le numerose attestazioni di una innegabile misoginia, non si può escludere che, nelle pieghe dell’opera di Nietzsche, si insinui una vena “femminista”[8]. Non si tratterà beninteso di un femminismo in senso classico, che sarebbe solo la cattiva imitazione di una posizione maschile. Osservo qui di passaggio come ci si imbatta, anche in Derrida, in una strategia di distanziamento dal femminismo storico che forse si dovrebbe analizzare più pazientemente. Neanche lui comunque si sofferma a interrogarsi sul suo significato. A Derrida il divenire donna interessa in quanto implica un diverso rapporto con la castrazione. Sta qui quel punto di contatto tra Derrida e Lacan, nient’affatto scontato né privo di difficoltà, sul quale de Conciliis scommette nel suo saggio. Ma cosa viene pensato dai due autori nella parola “castrazione”? Possiamo davvero continuare a utilizzarla fuori dal contesto psicoanalitico senza farle subire una torsione notevole? In Nietzsche, ricorda Derrida, un effetto di castrazione – evocato con il termine Kastratismus – è associato al cristianesimo, nella misura in cui quest’ultimo impone di “uccidere le passioni”[9]. Ma la nozione di castrazione ha in Freud, e ancor più in Lacan, un diverso impiego. Per Freud, com’è noto, la castrazione è la minaccia che il bambino immagina provenga dal padre a causa del suo desiderio di unirsi alla madre. Accettare di rinunciare all’oggetto primo del desiderio significherà per il bambino obbedire alla legge paterna e accedere, attraverso l’identificazione con il padre, a una posizione simile alla sua, ovvero agli oggetti di desiderio legittimi. È ben nota l’impasse in cui Freud viene a trovarsi quando si trova a definire la situazione della bambina: poiché lei non ha il pene, la minaccia non può avere la stessa forza, perciò l’interdizione non sarà mai per lei così netta. Lacan riformula completamente tutta la teoria della castrazione, sostituendo al pene il fallo, cioè spostando sul piano simbolico relazioni che in Freud continuano a rinviare, almeno in parte, all’anatomia. Il Fallo è il significante della potenza vitale sempre in atto, il nome di quell’oggetto del desiderio materno che ogni bambino, maschio o femmina, ha fantasticato di essere e che ha dovuto rinunciare a essere. La castrazione sarebbe, semplificando un po’ brutalmente, la legge che stabilisce per entrambi i sessi la rinuncia a essere il Fallo. Tantomeno si potrebbe possederlo. Ma i due sessi si definiranno diversamente rispetto a questa mancanza: i maschi si collocheranno nel registro dell’avere, esibendo la loro potenza nella “parata”, le femmine in quello dell’essere, mascherando con trucchi e veli il loro non avere il fallo, e seducendo, proprio in virtù di questa mancanza, come se fossero esse stesse il fallo[10].

Tuttavia, esiste forse un’altra via di fuga. In alcuni scritti lacaniani si fa strada una diversa possibilità, un’alternativa femminile che aprirebbe, anche per il soggetto maschile, la via di un’elusione della castrazione. È la via del godimento mistico, supplementare e non complementare[11]– l’altra soddisfazione, “la soddisfazione della parola”[12] – di cui va sottolineato il carattere “non isterico”. L’isterica infatti “crede” alla castrazione, come crede nel discorso del padrone, al punto che vuole un padrone, seppure per “regnare” su di lui[13]. Diversamente dalla posizione isterica, l’esperienza mistica mostrerebbe come si possa aggirare l’assoggettamento all’universale fallico, alla legge della castrazione, rimanendo sospese/i nel non-tutto, nel non-tutti, di una quasi indicibile eccezione. A un tale godimento irriducibile al piacere, Lacan associa proprio il pensiero[14]. Ma più che alla posizione mistica Eleonora de Conciliis è interessata a una certa coloritura ludica e ironica del femminile e, di conseguenza, della filosofia, che assume una nuova forma nel “divenire donna”. Mentre l’isterica, come si diceva, prende sul serio la castrazione, ovvero quell’ordine fallico a cui apparentemente si ribella con tutta sé stessa, il soggetto del divenire-donna “gioca” con la castrazione, fingendo soltanto di crederci[15]. In modo analogo la donna, e insieme a lei il pensiero capace di esporsi al divenire-donna, giocano con la morte – il reale che si nasconde dietro l’immagine della castrazione – inducendo uno stato di “morte apparente”[16] da cui deriva un indubbio godimento.

    L’evocazione di Sloterdijk potrebbe conferire a tutta l’argomentazione un’altra piega, spostando il fuoco dal lessico psicoanalitico della castrazione, che comanda un desiderio di natura erotica, a quello filosofico-timotico della trasformazione di sé stessi, compito indicato dall’imperativo “Devi cambiare la tua vita”[17]. In effetti, se posso avanzare una piccola riserva critica a un lavoro penetrante quale quello intrapreso dall’autrice, essa riguarda precisamente il rilievo cruciale attribuito alla castrazione. Mi chiedo cioè per quale motivo, pur non credendoci, si dovrebbe “fingere” di crederci. Immagino che l’impiego della nozione, al di là della fedeltà o meno a Lacan, si possa motivare così: se la castrazione è un altro nome della finitezza, della vulnerabilità, dell’esposizione alla morte, “fingere” di crederci, giocare con essa, è l’unico modo per metterci in rapporto con questa verità esistenziale pur continuando a vivere, evitando cioè gli estremi della negazione vitalistica e del lutto anticipato. Insomma, giocare con la morte vorrebbe dire cercare di raggiungere e mantenere una condizione di consapevolezza non melanconica. Tuttavia, parlare di castrazione anziché di morte, finitezza ecc., non è forse indifferente rispetto ai risultati: perché in tal modo la questione sessuale rischia di sovrapporsi a quella esistenziale in un certo senso neutralizzandola, o almeno sdrammatizzandola notevolmente. In altre parole, è come se, in Lacan, il divenire donna promettesse di aprirci la via a un’esperienza meno tragica del reale. Un’ipotesi non del tutto distante, in fondo, dall’idea che circola a volte nel discorso femminista, e persino in quella sorta di “saggezza antica” spesso attribuita alle donne come tali, per cui esse, più vicine degli uomini alle radici della vita e della morte, sarebbero perciò capaci di accettarle più serenamente.

A dire il vero, si può dubitarne. Perciò è forse inevitabile lasciar cadere la castrazione, il che esige una presa di distanza netta da Lacan, dalla psicoanalisi, e da quanto vi si trova, o si rischia di trovarvisi, di paradossalmente consolatorio. È vero, d’altronde, che de Conciliis cerca proprio di evitare questo esito. L’autrice ha piuttosto in mente un’esperienza che sia ironica e insieme tragica, capace di sopportare il reale, per esempio, dell’invecchiamento, come è molto chiaro nel capitolo “La ragazza cadavere”, che cita in apertura la figura della “Jeune-Fille”[18].

C’è infatti una nozione psicoanalitica più promettente della castrazione, che la stessa de Conciliis mette in campo in un altro saggio recente, dove è possibile trovare indicazioni in grado di illuminare il senso complessivo della sua proposta filosofica. Si tratta della sublimazione[19]. Un concetto a sua volta “pesante”, carico di ipoteche, e anche piuttosto nebuloso e ambiguo nello stesso testo freudiano dove compare la prima volta. Un concetto che, tuttavia, potrebbe consentire proprio l’aggancio dalla dimensione erotica a quella timotica, senza bisogno di contrapporle. Nella sua analisi, de Conciliis si accinge a elaborare “una concezione non reattivo-difensiva della sublimazione”[20], più prossima al significato chimico di trasformazione che a quello psicoanalitico classico di inibizione[21], cercando di evitare nel contempo di accentuare troppo il significato di un movimento verso l’alto che il termine evoca nel suo uso comune, e non solo. La tensione all’innalzamento può essere identificata infatti, anche dalla filosofia, come il carattere più proprio degli esercizi umani di trasformazione di sé stessi.

Torna qui ad affacciarsi il nome di Sloterdijk, e non poteva che essere così. La filosofia si avvicina a un’ascetica. In che misura allora la sublimazione e il divenire donna possono essere viste come due vie parallele per la filosofia? O forse possono incontrarsi in qualche punto, per poi tornare a divergere?

Esiste in effetti tra esse un lungo tratto comune, corrispondente alle esperienze di un’ascetica non acrobatica. Se le forme dell’esercizio a cui Sloterdijk presta attenzione sono sempre volte verso un’elevazione di sé stessi, e quindi inevitabilmente connesse con l’esigenza di staccarsi dall’umanità rimasta più in basso, se cioè sono tutte “fallicamente” orientate alla verticalità[22], esistono d’altra parte tipi di esercizi altrettanto seri e forse per l’umanità altrettanto fecondi, dove la verticalità, lo svettare sopra gli altri, non è più così essenziale. Una metamorfosi dal basso, espressamente accostata dall’autrice alla “condizione di un’ironica inferiorità simile a quella della donna”[23]. Un’ascetica non acrobatica: ecco a cosa fa pensare la sublimazione. La pratica in cui meglio essa prende corpo è la scrittura. Derrida rientra in scena, forse persino Nietzsche, se è vero che il loro stile non è che una pratica di scrittura.


[1] E. de Conciliis, Nostra Signora Filosofia. Sul divenire donna del pensiero, Orthotes, Napoli-Salerno 2019.
[2] Cfr. J. Lacan, Il seminario. Libro XVII. Il rovescio della psicoanalisi. 1969-1970 (1991), a cura di A. Di Ciaccia, Einaudi, Torino 2001.
[3] Ivi, p. 15.
[4] Cfr. G. Deleuze, F. Guattari, Mille piani. Capitalismo e schizofrenia, a cura di P. Vignola, Orthotes, Salerno 2017.
[5] È l’immagine femminile consolatoria di una matrona “perbene” sotto le cui spoglie la filosofia appare a Boezio. Cfr. E. de Conciliis, Nostra Signora Filosofia, cit., p. 20.
[6] F. Nietzsche, «Come il “mondo vero” finì per diventare favola», Crepuscolo degli idoli. Ovvero come si filosofa con il martello (1888), tr. it. di F. Masini, Adelphi, Milano 1983.
[7] J. Derrida, Sproni. Gli stili di Nietzsche (1978), ed. it. a cura di S. Agosti, Adelphi, Milano 1991, pp. 51-52.
[8] Ivi, p. 57.
[9] Ivi, p. 83.
[10] Cfr., per la parata maschile, J. Lacan, Il seminario. Libro XVIII. Di un discorso che non sarebbe del sembiante. 1971 (2007), tr. it. di A. Di Ciaccia e M. Daubresse, Einaudi, Torino 2010, p. 26; per la mascherata femminile, cfr. J. Lacan, Omaggio a Marguerite Duras, tr. it. in La psicoanalisi, 8, Astrolabio, Roma 1990, pp. 10-16.
[11] Cfr. J. Lacan, Il seminario, Libro XX. Ancora. 1972-1973 (1975), ed. it. a cura di G. Contri, Einaudi, Torino 1983, p. 73.
[12] Ivi, p. 64.
[13] Cfr. J. Lacan, Il seminario. Libro XVII, cit. p. 160.
[14] J. Lacan, Ancora, cit., p. 70.
[15] E. de Conciliis, Nostra Signora Filosofia, cit., p. 60.
[16] C’è qui una ripresa delle riflessioni sviluppate da Peter Sloterdijk in Stato di morte apparente. Filosofia e scienza come esercizio (2010), tr. it. di S. Franchini, Cortina, Milano 2011.
[17] Cfr. P. Sloterdijk, Devi cambiare la tua vita. Sull’antropotecnica (2009), tr. it. di S. Franchini, Cortina Milano 2010.
[18] Cfr. E. de Conciliis, Nostra Signora Filosofia, cit., pp. 67 sgg.
[19] Alla sublimazione è dedicato l’Annuario di Kaiak n. 4, Sublimazione, a cura di V. Cuomo ed E. de Conciliis, Mimesis 2019.
[20] E. de Conciliis, “Il custode delle metamorfosi. Per una critica scritturale della sublimazione”, in Sublimazione, cit., p. 126.
[21] Ibidem.
[22] Ivi, p. 128.
[23] Ibidem. L’autrice cita i Diari di Kafka dove la letteratura incarna un tale “assalto dal basso” al limite terreno. Va detto che il nome di Kafka è un riferimento centrale anche nel testo di Sloterdiijk sull’antropotecnica. Vi si commenta, con toni non così distanti, un frammento in cui riecheggia l’episodio del funambolo dello Zarathustra nietzscheano: «La vera via procede su di una fune, che non è tesa in alto, ma rasoterra. Sembra destinata più a far inciampare, che a essere percorsa» (P. Sloterdijk, Devi cambiare la tua vita, cit., p. 77).



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