Il 26 settembre 1986 usciva in edicola “L’alba dei morti viventi”, il primo fumetto della serie di Dylan Dog. Il creatore, Tiziano Sclavi, scelse questo titolo in omaggio all’omonimo cult di George A. Romero (1978). In occasione del trentaquattresimo anniversario Scenari propone un estratto del libro “Dylan Dog. Esistenza, orrore, filosofia” di Roberto Manzocco (Mimesis Edizioni, 2011).
Il nostro orrore quotidiano
Le bollette da pagare, il bilancio domestico da far quadrare, la dichiarazione dei redditi, l’auto da portare dal meccanico, i vicini di casa che protestano per i rumori molesti, il telefono da riparare, il frigo perennemente vuoto: oltre che combattere zombie, spettri e altre creature soprannaturali, Dylan Dog è costretto a misurarsi di continuo con un gran numero di faccende e fastidi quotidiani, come capita a tutti i normali esseri umani e come invece non succede praticamente mai agli altri eroi dei fumetti. Ce lo vedete Batman a perdere tempo con l’idraulico perché il rubinetto del bagno sgocciola, o Capitan America alla ricerca affannosa di un distributore di benzina aperto? Ecco, tutto questo a Dylan Dog succede invece di continuo; almeno in un’occasione l’Indagatore dell’Incubo si è trovato persino a dover soddisfare le proprie necessità fisiologiche.[1] Questo per dire che l’umanità del personaggio, e la sua vicinanza ai lettori, è resa possibile anche da questi elementi di vita quotidiana – anzi, in certi casi gli incubi dylandoghiani hanno inizio proprio a partire dal quotidiano.
Le incombenze domestiche non sono però l’unico, né il principale aspetto del rapporto di Dylan Dog con la quotidianità, anzi: su quest’ultima la serie a fumetti assume una posizione marcata, e – con un atteggiamento molto filosofico – elabora un’analisi profonda e impietosa di tutte quelle situazioni che l’uomo della strada dà per scontate. D’altronde è un luogo comune della filosofia, che le sue meditazioni debbano staccarsi dalla banale realtà di ogni giorno, per poi riappropriarsene in maniera più autentica, guardandola sotto un’ottica inedita e, a volte, estraniante. A questo proposito il pensiero filosofico e le scienze umane hanno elaborato alcuni modelli piuttosto raffinati per pensare l’umana quotidianità, cornici teoriche che a volte attaccano il problema in modo diretto – come nel caso delle riflessioni di Martin Heidegger –, o che, in altri casi, si basano su metafore accattivanti, come quella della rappresentazione teatrale o quella del labirinto. E, a ben vedere, è anche quello che molto spesso fa l’Indagatore dell’Incubo; il quale dal canto suo, considera la routine e i capisaldi della quotidianità una forma d’orrore peggiore degli incubi sui quali indaga. Proprio da ciò deriva l’idea tipicamente dylandoghiana che i veri mostri si nascondano proprio sotto l’apparenza della banalità, dell’ovvio, dell’abituale; una concezione che ritroviamo fin dal primissimo episodio, nel discorso con cui Xabaras giustifica le proprie ricerche per ridare la vita ai morti, sostenendo appunto che non è di certo sua intenzione creare mostri:
“Basta aggirarsi in una città a un’ora di punta per vederne a volontà, di mostri, tutti chiusi nelle loro automobili, pronti a scannarti se non parti appena scatta il verde…. Chiunque conquisti un po’ di potere diventa un mostro: l’impiegato che ti tratta male solo perché è dietro a uno sportello, il dittatore che uccide migliaia di persone negli stadi… No, di mostri ce ne sono in abbondanza, non servo io per crearne di nuovi”.[2]
Anche Satana sembra pensarla allo stesso modo, perlomeno nella versione resa in Patto con il Diavolo[3] – episodio incluso nel secondo Special –, in cui il Principe delle Tenebre fa vedere a Dylan Dog alcune scene di vita quotidiana:
“Eccolo, l’orrore, Dylan, ecco l’incubo… ecco il mondo! Vedete quell’uomo? È amministratore delegato di una grande industria. Oggi stesso licenzierà il suo autista, quello che gli apre la portiera. L’autista, malato di nervi e alcolizzato, si ucciderà stanotte. […]. E quelli? Stasera violenteranno una ragazza, che sarà incriminata come prostituta per adescamento. […]. E l’amore? Ah, l’amore… guardate quei due: lei lascerà lui o viceversa. Conoscete qualcosa di più orrendo dell’amore, in cui chi abbandona e crea dolore vince sempre? E il miracolo della vita? Quel piccolo mostro crescerà, diventando un mostro adulto: sarà nominato primo ministro nel 2048. A proposito di ministri, quello lì prende tangenti anche sulle mance ai gabinetti. Quell’altro invece è integerrimo: infila solo gli stuzzicadenti sotto le unghie a baby-prostitute di dieci anni… e potrei continuare, c’è solo l’imbarazzo della scelta. A volte, confesso, mi sento un po’ inutile. Che bisogno c’è del Diavolo? L’umanità ha fatto da sé […] a Dio ha dato tanto di quel mal di fegato da guadagnarsi il Paradiso!”[4]
E qui c’è l’analisi della propria vita che Nessuno fa in punto di morte:
“Andrò a scuola, prenderò la laurea, mi sposerò, mio padre morirà, troverò un posto sicuro, impiegato statale, mia moglie mi tradirà e io non dirò niente, per non far crollare il mondo… E poi? Sono andato a scuola, ho preso la laurea, mi sono sposato, mio padre è morto, ho trovato un posto sicuro, impiegato statale, mia moglie mi ha tradito e io non ho detto niente, per non far crollare il mondo… E poi? E poi basta… Dio mio, che orrore. Eppure vorrei che continuasse, questo orrore”.[5]
Il pensiero filosofico e quello dylaniato ci chiedono insomma di riappropriarci della nostra quotidianità in modo più autentico, una scelta che, se portata fino in fondo, ci consentirà di vedere la nostra vita di ogni giorno sotto una luce nuova e, almeno in parte, più sinistra. Ecco che allora il nostro itinerario nella quotidianità ci porterà ad affrontare i concetti e le metafore che la filosofia e Dylan Dog usano per pensare la vita di ogni giorno; assieme all’Indagatore dell’Incubo daremo poi un’occhiata anche a tutti gli aspetti quotidiani della condizione umana da cui il senso comune ci chiede invece di distogliere lo sguardo. Infine affronteremo un tema centrale sia per Dylan Dog sia per la condizione umana, cioè il riso e più in generale l’umorismo, un fenomeno che, pur essendo parte della vita di tutti, non è ovvio né scontato.
Lo zombie che è in ciascuno di noi
Esaurito – ma solo per il momento – il discorso sul nostro “lato oscuro”, passiamo a un altro aspetto che, secondo Dylan Dog, albergherebbe in ciascuno di noi: il desiderio inconscio di mangiare il prossimo. In una parola, il cannibalismo. La serie non analizza a fondo questo tema, ma si limita a lasciarlo sullo sfondo, attribuendogli un ruolo centrale soprattutto nelle storie che hanno a che vedere con i morti viventi. In particolare questa idea emerge nel primissimo episodio di Dylan Dog, in cui Xabaras, parlando delle proprie creature, dice che «i morti viventi sono privi di capacità intellettive, tesi unicamente a uccidere gli esseri umani vivi per cibarsene; forse si tratta della liberazione di un tabù innato, della soddisfazione di un desiderio che in vita era inconscio e represso, il cannibalismo».[6] Dal canto suo, ne Il picco della strega, Chiaverotti fa dire a uno dei personaggi, Sarah: «In fondo, amarsi è un po’ divorarsi a vicenda»[7]
Ma è vero, tutto questo? Stando ad alcuni studiosi, sì. Ad esempio, per la psicologa Chiara Camerani – che fa riferimento alla psicoanalisi freudiana –, tale desiderio sarebbe presente nella mente di tutte le persone sane, e trasparirebbe addirittura nel nostro linguaggio quotidiano; esso rappresenterebbe il desiderio di incorporare l’altro in noi stessi. Si pensi ad esempio a modi di dire come “è una persona squisita”, “una passione divorante”, “mangiare qualcuno di baci”, “sei buono come il pane”, “dolcezza”, o il semplice “ti mangerei”; si tratta – si noti bene – di espressioni che alle volte vengono usate con una connotazione sessuale. Esisterebbe in pratica un qualche rapporto tra questa forma simbolica di cannibalismo e il sesso. La quotidianità, così come le tradizioni più disparate, mostrerebbero chiare tracce di questi istinti:
“Il cannibalismo, oltre a essere presente nel folklore e nel mito, troneggia nelle favole con la figura dell’orco o della strega cattiva. Sembra che la favola di Hansel e Gretel, scritta dai fratelli Grimm, sia ispirata a un episodio realmente avvenuto in Germania nel 1400. Anche nella mitologia ricorrono frequenti casi di cannibalismo. Saturno divora i suoi figli, lo stesso accade a Crono. I Ciclopi mangiano i marinai di Odisseo, dai quali Ulisse scampa grazie alla sua astuzia. Tra le donne del mito, Medea, tradita dal marito Giasone, si vendica uccidendo e dandogli da mangiare i due figlioletti. In Italia Dante nella Divina Commedia narra la triste storia del conte Ugolino, che rinchiuso in una torre, mangia i propri figli accecato dalla fame. Orchi e cannibali appaiono in ogni mito e folklore. Sono molte le favole che narrano di orchi mangia-bambini (è nota la strega di Hansel e Gretel). […] L’idea di nutrirsi della carne dei propri simili pervade molti aspetti della nostra storia e della realtà di ogni giorno. Molte religioni mostrano chiari riferimenti al cannibalismo e al vampirismo, anche se in modo simbolico. La stessa religione cristiana, nel rito dell’eucarestia, invita i fedeli a ingerire la carne e il sangue di Cristo, rappresentati simbolicamente dall’ostia e dal vino, per far parte di lui”.[8]
Del nostro cannibale o zombie interiore non si deve dare però per forza un’interpretazione cruenta:
“L’espressione e la fantasia del “ti mangerei” ha una valenza di possesso e richiama ricordi precoci e piacevoli legati all’allattamento, considerato un momento di fusione e unità con la madre. Possiamo affermare che l’atto cannibalico è una delle prime esperienze della nostra vita, legata a una sensazione di profondo piacere unito alla possibilità di sperimentare e conoscere il mondo. […] Il neonato non è in grado di percepire emozioni distinte, ma sperimenta un tutt’uno di emozione e fisicità, e i suoi piaceri o dolori sono funzione dei bisogni fondamentali di nutrimento e accadimento (calore, pulizia, ecc.). L’atto del nutrirsi è un piacere pervasivo che assorbe l’intero individuo e comprende calore, piacere, soddisfazione di un bisogno primario, salvezza dalla paura di morire“.[9]
Tutto ruoterebbe dunque attorno al desiderio freudiano di incorporare un oggetto d’amore, il quale, con il passare degli anni, si realizza tramite un’incorporazione o identificazione di tipo simbolico, anche se, tra le popolazioni primitive che praticano o hanno praticato il cannibalismo, così come tra gli occidentali affetti da disturbi psichici che occasionalmente si nutrono dei propri simili, tale istinto viene interpretato in modo letterale, facendo riferimento al pensiero magico.
Ma ora prepariamoci a perdere l’appetito, perché la Camerani associa la pulsione cannibalistica anche ad alcune forme di sesso estremo:
“Il compimento dell’atto cannibalico richiede una preparazione ad esso. Preliminare all’atto nel nutrirsi della propria vittima, infatti, è il depezzamento del suo corpo e, in alcuni casi, l’evisceramento. Molti resoconti di necrofili e cannibali analizzati evidenziano l’importanza per l’assassino di entrare letteralmente nell’altro manipolandone le viscere (Jeffrey Dahmer), o aprendone il corpo (Andrei Chikatilo, Bertrand). In forme non criminali, troviamo un’eco di questo comportamento nello scenario alternativo del sesso estremo attraverso la pratica del fist-fucking. Quest’attività consiste nell’inserire il pugno nell’ano o nella vagina per giungere più vicino possibile alle viscere. Coloro che praticano il fist-fucking sostengono che sia l’unica via non criminale per penetrare nell’interno di un altro essere umano“.[10]
Il cannibalismo si presenta inoltre sotto forme molto diverse: abbiamo infatti il cannibalismo energetico, cioè quello realizzato a scopo rituale e magico, per acquisire capacità e qualità altrui; quello di sopravvivenza, che si verifica in casi estremi; quello sessuale, che mira a fondersi in modo completo con la propria vittima; quello “per il potere”, ossia per sancire il controllo sull’altro e sfogare su di lui la propria aggressività; e infine quello epicureo-nutrizionale, cioè per assaporare il piacere della carne umana.
C’è chi va oltre l’approccio della Camerani, e propone un’interpretazione organica del cannibalismo più ampia – sulla cui validità non ci pronunciamo. In particolare uno psichiatra italiano, Volfango Lusetti, sostiene che l’antropofagia sarebbe addirittura alla base della nascita della coscienza umana:
“Queste ipotesi […] partono comunque dall’idea che la base, o meglio il “motore”, la spinta propulsiva dell’evoluzione umana, sia nei suoi aspetti più nobili, spirituali e positivi che in quelli strutturalmente più “critici” (a cominciare dalla psicopatologia che affligge la nostra specie, per finire alla sua distruttività ed attitudine bellica), sia stato il cannibalismo. Il cannibalismo, secondo noi, pur essendo nato in maniera abbastanza casuale (probabilmente una forma di sciacallaggio, o ancor più, di predazione sui piccoli, nata per motivi di “vantaggio genetico” dell’adulto predatore sui rivali), si è improvvisamente implementato sotto la pressione di circostanze ambientali avverse (penuria di cibo dovuta a un’improvvisa catastrofe?); esso, comunque, una volta strutturatosi, ha rappresentato una forma di predazione permanente che scaturiva dall’interno stesso della nostra specie; in virtù di ciò, […] il cannibalismo ha potuto esercitare una pressione formidabile e anche di lunga durata, che ha prodotto risultati spettacolari in termini evolutivi; tutto ciò ha fatto sì che, alla fine, esso si sia tradotto in strutture biologiche a carattere permanente, che da allora “abitano” la natura umana, facendone parte integrante e imprescindibile. Inoltre, queste strutture di reazione al cannibalismo (principalmente, oltre la sessualità perenne, l’istinto sociale ed i suoi due principali derivati di ordine mentale, ossia il linguaggio simbolico e la coscienza) hanno avuto il compito di arginare la predazione cannibalica, di trasformarla in qualcosa di profondamente diverso, ed infine di padroneggiarla; però, nello svolgere tali compiti, queste strutture hanno dovuto, in modi diversi, assorbire e incorporare tale predazione, finendo per veicolarla a loro volta (sia pure in forma molto attenuata, resa più metaforica e meno cruenta), ovunque si trovassero ad agire; e ciò è proprio quello che, in mille forme, esse fanno ancora oggi“.[11]
[1] In C. Chiaverotti, Scritto con il sangue, Dylan Dog n. 47, p. 18. A quanto ci risulta, c’è solo un altro eroe dei fumetti a cui è capitato di andare al bagno per soddisfare «l’impronunciabile bisogno», il detective hard-boiled Alack Sinner, creato negli anni Settanta dagli argentini José Munoz e Carlos Sampayo.
[2] T. Sclavi, L’alba dei morti viventi, Dylan Dog n. 1, p. 59.
[3] In questo episodio la natura di Satana è presentata in modo diverso che nel resto della serie: qui il Diavolo è più simile alla tradizione biblica, con la differenza che il Re dell’Inferno è di origine umana, nel senso che chiunque, se abbastanza motivato e astuto, potrebbe in teoria assumere tale ruolo, sottraendolo così al precedente detentore.
[4] Id., Gli orrori di Altroquando, Dylan Dog Special n. 2, pp. 93-95.
[5] Id., Storia di Nessuno, Dylan Dog n. 43, p. 49.
[6] T. Sclavi, L’alba dei morti viventi, Dylan Dog n. 1, p. 60.
[7] C. Chiaverotti, Il picco della strega, Dylan Dog n. 124, p. 47.
[8] C. Camerani, Cannibali. Le pratiche proibite dell’antropofagia, Castelvecchi, Roma 2010, pp. 39-40.
[9] Ivi, pp. 45-46.
[10] Ivi, pp. 64-65.
[11] V. Lusetti, Il cannibalismo e la nascita della coscienza, Armando Editore, Roma 2008, pp. 20-21.
Questo brano è tratto da Roberto Manzocco, Dylan Dog. Esistenza, orrore, filosofia (Mimesis Edizioni, Milano 2011, pag. 294, 24€).