Cinquant’anni senza Hendrix, eppure nessuno è ancora riuscito a dimenticare una delle personalità più geniali della musica, né, tantomeno, a eguagliarla. In occasione dell’anniversario Alberto Rezzi ci propone l’estratto del suo libro La filosofia di Jimi Hendrix. Viaggio al termine del mondo (Mimesis Edizioni, 2020).
“Forse è vano sperare che l’arte possa sconfiggere l’iconografia consolidata del pop e il gusto per lo scandalo, ma sarebbe un doveroso tributo alla memoria di Jimi se la sua “sostanza” potesse infine prevalere sulla sua immagine, se le rivendicazioni sulla sua eredità terminassero una buona volta e se, soprattutto, una più attenta valutazione della sua opera gli permettesse di venire finalmente riconosciuto come uno dei geni della musica del Ventesimo secolo”.[1]
Con questo auspicio si chiudeva una delle più minuziose biografie di Jimi Hendrix, curata da Harry Shapiro e Caesar Glebbeek e uscita in prima edizione nel 1990. Oggi, a ormai mezzo secolo dalla sua morte, è innegabile che la figura del chitarrista mancino di Seattle sia entrata di diritto nel novero delle personalità più geniali della musica del Novecento. Spesso, però, l’etichetta e l’annessa retorica romantica del “genio” rischiano di frapporre una distanza, di far apparire lontano e irraggiungibile l’essere umano a cui viene cucita addosso. È per tale ragione che in queste pagine ho scelto di esplorare l’universo immaginifico di Hendrix a partire da una prospettiva diversa, interpretando la sua arte soprattutto come una straordinaria e attualissima costruzione di mondi. È questa chiave, infatti, che mi ha permesso di cogliere una sorprendente unitarietà nel corpus della sua produzione, limitata nel tempo (quattro soli anni, dal 1966 al 1970) ma così capace di superare limiti, regole e canoni di qualsiasi linguaggio musicale precedente.
Come vedremo, costruire mondi significa anzitutto saper utilizzare linguaggi precisi, e Jimi ne ha saputi usare molteplici, dal simbolico al corporeo, dal poetico al musicale, dal fantascientifico al sonoro, per costruire, canzone dopo canzone e performance dopo performance, nuove esperienze del mondo e al contempo rappresentazioni di mondidiversi. È in questa sua inesausta ricerca che si può trovare la combinazione nascosta per accedere alla sua “filosofia”, solo apparentemente ingenua se estrapolata a freddo da interviste e ricostruzioni, ma in grado, in virtù della potenza prorompente della sua musica, di entrare in dialogo con intuizioni e riflessioni di altri pensatori e artisti.
Nei capitoli che seguono tale confronto si svolgerà in riferimento alle teorie cosmologiche di Empedocle e di Giordano Bruno, alla teoria del colore di Goethe e Kandinskij, ma anche alle eversive tesi costruttiviste di Nelson Goodman e ad alcune opere di Pablo Picasso e di Jackson Pollock. Attraverso questo dialogo emerge come il concetto e l’idea stessa di “mondo” sia al centro di tutta la riflessione, in virtù di una precisa chiave filosofico-interpretativa: la ricerca di una via d’uscita dal “mondo reale” come rampa di lancio per la costruzione di altri mondi. Una ricerca che affonda le sue radici nell’infanzia e nell’adolescenza di Jimi, ossia nelle esperienze maturate prima di diventare una star mondiale e, soprattutto, prima di potersi esprimere come chitarrista, compositore, autore, performer…
Tra le metafore a cui Hendrix era solito ricorrere per cercare di spiegare cosa avesse in mente, una delle più intriganti è senz’altro quella – cara allo stesso Empedocle – della mescolanza, del mescolamento. Questo ci mette in guardia, sin dal principio, sulla scarsa utilità di rintracciare nel suo percorso umano e artistico una sola linea di pensiero, un’unica direttrice fondamentale. La mente stessa di Jimi era abituata a sondare contemporaneamente più direzioni e dimensioni, anche nelle più comuni conversazioni quotidiane. Ma è proprio questo il punto: quanto più il suo universo si presenta a-sistematico, tanto più emerge nitida la sua straordinaria abilità nell’immaginare e nel creare, con e attraverso la musica, molti mondi. Universi tanto esperienziali quanto immaginifici, frutto di una costante opera di mescolamento di cose diverse: la sperimentazione musicale e sonora, la poeticità dei testi, il ricorso a temi e linguaggi propri della fantascienza e della cosmologia, il rapporto con il femminile nelle sue più diverse forme, l’intimo rapporto tra note, emozioni e colori… Quella che traspare è una vera e propria cosmologia personale hendrixiana, intrisa di irrealismo e pluralismo e ancora oggi carica di un fascino fuori dal tempo.
Per avvicinarmi quanto più possibile all’autenticità del soggetto ho scelto di non prendere in considerazione la vastissima e controversa discografia “postuma”[2] di Hendrix, concentrandomi pressoché unicamente sui suoi tre album di studio ufficiali: Are You Experienced, Axis: Bold as Love ed Electric Ladyland, quest’ultimo considerato da molti il punto apicale del suo progetto artistico. Ci sarà tuttavia anche spazio per alcune considerazioni su grandi appuntamenti live come i Festival di Monterey e Woodstock e i concerti al Fillmore East con la Band of Gypsys.
Il tempo trascorso ci offre indubbiamente un vantaggio: gran parte del lavoro di “demitizzazione” del fenomeno Hendrix è già stato fatto e questo ci permette di provare ad avvicinarci di più alla sua “sostanza”, alla straordinaria qualità umana e artistica della sua opera, al di là della mitologia che da sempre lo circonda. Cercare di capire come e con che cosa Jimiabbia costruito mondi è dunque l’oggetto delle pagine che seguono, che si metteranno da subito sulle tracce dell’Hendrix “pensatore” capace di esprimere un pensiero originalissimo e inaudito sul mondo e sulla condizione umana. Ne emerge una dimensione spirituale unica e una visione filosofica prolifica che, in ultima analisi, si traduce nella sua inesauribile sete di libertà espressiva, destinata a interrogare l’arte e la musica del futuro.
Electric Ladyland: un nuovo mondo
“Non c’è nulla di pianificato nella nostra musica.
Ogni volta dev’essere una sorpresa
tanto per noi quanto per il pubblico”.
J. Hendrix[3]
Dopo la lavorazione di Axis, registrato in soli sedici giorni, per il successivo lavoro in studio Hendrix aveva maturato il desiderio di prendere attivamente parte a tutte le fasi del processo di creazione del suo mondo artistico: composizione, esecuzione, registrazione, incisione, mixaggio, produzione… Era un’ambizione non comune all’epoca per un musicista e sappiamo quanto apprezzasse il lavoro di George Martin con i Beatles. Per il nuovo album voleva dunque che diverse cose cambiassero rispetto al passato: disporre di più leve di controllo e decisione in studio di registrazione; avere più tempo, anche se questo inevitabilmente avrebbe comportato costi di produzione più alti; estendere l’organico dei musicisti con cui collaborare ampliando il formato del trio dell’Experience. In sostanza, voleva gestire in prima persona tutte le operazioni artistiche e sperimentare l’uso dello studio come un’estensione del suo strumento, o meglio, usarlo proprio come se fosse un ulteriore strumento musicale a sua disposizione, per cercare di tradurre in realtà i suoni che aveva in mente da tempo ma non i mezzi tecnici per farlo: quello sarebbe diventato il nuovo centro di comando del suo universo creativo.
In questo senso, il progetto che intendeva realizzare dopo Are You Experienced e Axis si annunciava come il più ambizioso e l’anno 1968 come un altro cruciale passaggio evolutivo della sua carriera. Trasferitosi quasi stabilmente a New York, per alcuni mesi Jimi monopolizzò i sofisticati Record Plant Studios dove iniziò a comporre, registrare nuovo materiale e affinare sempre più i nuovi brani. La sua proverbiale ricerca di perfezione prese presto il sopravvento, portandolo a rifare centinaia di volte lo stesso pezzo e registrare più volte la stessa canzone, per rifinirla e levigarne il suono secondo le sue più intime aspirazioni: “Per la prima volta i mezzi finanziari gli permettevano di usare uno studio non solo per registrare, ma anche per sperimentare nuovi effetti chitarristici e nuovi suoni, perfezionare gli assoli, ritirarsi a comporre, arrangiare, scrivere, condurre esperimenti elettronici”[4].
Rispetto ai primi due dischi prodotti da Chas Chandler, adesso Hendrix aspirava a una libertà artistica totale. Questo nuovo approccio, però, non restò senza conseguenze: la lavorazione del nuovo disco procedette piuttosto a rilento, il che fece aumentare, e di molto, tensioni e pressioni fuori e dentro l’Experience. Jimi, inoltre, aveva preso a invitare in studio musicisti, amici e semplici visitatori, trasformando di fatto le sessioni in jam aperte e prolungate con non poche divagazioni e ampio spazio lasciato all’improvvisazione. Era un atteggiamento che rispondeva alle sue nuove esigenze, ma che deteriorò il rapporto con il suo scopritore e mentore: contrariato, frustrato e impossibilitato a convogliare in una direzione precisa la lavorazione, nella primavera del 1968 Chandler lasciò la produzione del disco, che da quel momento passò interamente nelle mani di Hendrix. Il suo intento era comunque chiarissimo:
“Voglio inventare sonorità nuove e trasmettere al pubblico i miei sogni, o almeno provarci. La musica deve espandersi, spingersi ancora più lontano. I ragazzi ascoltano con la mente aperta, e io non voglio propinargli sempre le stesse cose. […] Voglio continuare a produrre cose innovative, canzoni diverse, cose diverse a livello visivo. Mi piacerebbe sperimentare con la strumentazione. […] L’arrangiamento di ogni pezzo dovrebbe essere originale, insolito, e altrettanto la messa in scena”.[5]
Si trattava di uno sforzo creativo gigantesco, alimentato dalla sua incessante evoluzione e dal costante desiderio di uscire radicalmente da qualsiasi schema predefinito. In particolare Jimi era alla ricerca di un suono ancora più moderno, originale e “tridimensionale”, come lui stesso lo definiva, utilizzando ogni potenziale dello studio e ricorrendo all’ausilio di importanti ingegneri del suono come il fidato Eddie Kramer.
Da molti considerato il suo lavoro più maturo, l’album doppio che ne scaturì, Electric Ladyland, è l’incarnazione di una formidabile serie di elementi e del ribollio di idee innovative, un cambio di paradigma in cui sembrano venire a fioritura diversi semi già coltivati e sparsi nei due lavori precedenti, ma in grado qui di raggiungere un’espressività ancora superiore.
[1] H. Shapiro, C. Glebbeek, Jimi Hendrix. Una foschia rosso porpora, Arcana, Roma 2012, pp. 429-430 (d’ora in poi indicato Una foschia rosso porpora).
[2] Cfr. P. Doggett, Jimi Hendrix. La musica e il fuoco. Guida illustrata alla discografia completa, Arcana, Roma 2013. In ogni caso, molti dei temi e degli archetipi trattati in queste pagine si ritrovano anche nelle canzoni uscite post-mortem.
[3] Zero, cit., p. 79.
[4] Una foschia rosso porpora, cit., p. 242.
[5] Zero, cit., p. 127.
Questo brano è tratto da Alberto Rezzi, La filosofia di Jimi Hendrix. Viaggio al termine del mondo (Mimesis Edizioni, Milano 2020, pag. 150, 10€)