Quanto accaduto negli ultimi mesi per effetto della pandemia ha riportato di attualità una locuzione politico-giuridica molto dibattuta nel campo della filosofia politica, ma non altrettanto presente, sinora, nella discussione pubblica: lo stato di eccezione. Con questo sintagma si intende abitualmente definire il regime giuridico straordinario al quale i cittadini sono temporaneamente sottoposti per fronteggiare una situazione improvvisa e imprevedibile. Le circostanze che giustificano la concentrazione dei poteri nelle mani dell’esecutivo, cui si accompagnano significative restrizioni alla libertà dei cittadini, sono generalmente di ordine politico, ma possono essere imposte anche da eventi “naturali” – come, appunto, la pandemia da coronavirus. Non sono pochi i paesi in cui i governi hanno adottato provvedimenti ispirati a un uso emergenziale del potere. In Italia il Presidente del consiglio ha emesso i provvedimento noti come i DPCM – Decreti del Presidente del Consiglio dei Ministri. In Inghilterra, Johnson, dopo un primo sconsiderato richiamo a una improbabile immunità di gregge ha emanato il Coronavirus Act 2020. Trump, infine, ha ripreso alcune linee del National Defence Act del 1950 e tutti gli Stati federali hanno, per la prima volta nella storia del paese, proclamato lo stato di emergenza.
Si è trattato di un anomalo esercizio del potere, assunto in considerazione di uno stato di pericolo per la salute pubblica e quindi giustificato dalla gravità del momento, ma che presenta risvolti potenzialmente pericolosi. È infatti evidente che se l’eccezione fosse priva di regole non saremmo più di fronte all’adozione di misure limitate nel tempo e che rientrano in una sorta di management dell’emergenza allestito nel perimetro delle regole fissate dalla Costituzione. Ci troveremmo piuttosto all’interno del quadro dipinto a fosche tinte da Agamben, per il quale lo stato di eccezione determina uno stato di indeterminazione giuridica in grado di alterare l’equilibrio e le istituzioni dello Stato democratico di diritto e di diventare il paradigma di governo dominante nella politica contemporanea. È perciò più che mai necessario distinguere.
Da un punto di vista giuridico, l’espressione “stato di eccezione” si riferisce a una gamma piuttosto estesa di possibili risposte alle circostanze che ne determinano l’applicazione, e che possono andare da blande misure di polizia, come il divieto di assembramenti oppure la chiusura di una ben definita tipologia di locali o di spazi pubblici, sino alla completa sospensione delle garanzie costituzionali. Altrettanto diversificati possono essere gli obiettivi, che possono prevedere tanto il rientro più rapido possibile alla situazione di normalità pre-crisi quanto la volontà di violare le regole ordinarie per imporre un nuovo ordine. A caratterizzare lo stato di eccezione è dunque la sua ambivalenza. Tuttavia, per quanto estesa possa essere la loro gamma, queste misure hanno qualcosa in comune: il rafforzamento dei poteri decisionali dell’esecutivo.
Per questo è necessario valutare le misure messe in campo dagli esecutivi in modo analitico e sistematico: se, infatti, le situazioni di emergenza sono imprevedibili per definizione, non possono essere specificate preventivamente neppure le misure necessarie “alla ripresa delle normali condizioni di vita”, come recita la legge. Inoltre, come si è visto nel caso specifico dell’emergenza sanitaria tuttora in corso, molto dipende dalle valutazioni della comunità scientifica: se queste sono concordanti, la discrezionalità dei governi è limitata e l’eccezione si presenta come una “normale” emergenza, da affrontare con misure gestionali e amministrative. Se, invece, le opinioni degli esperti sono in contrasto le une con le altre, il carico di responsabilità si sposta tutto sulle spalle degli esecutivi e acquista una valenza più accentuatamente politica. Queste circostanze suggeriscono alcune domande: in che modo distinguere analiticamente le diverse situazioni? Oppure: quali sono gli sviluppi e gli esiti che andrebbero presi in considerazione e alla luce di quali principi? A tale proposito, è possibile avanzare alcune ipotesi, naturalmente in via del tutto provvisoria e condizionale.
Va ricordato anzitutto che lo stato di eccezione non è una misura circoscritta ai poteri dello Stato moderno. Sappiamo da Livio e Cicerone che il dittatore era una figura caratteristica dell’assetto della costituzione della Repubblica romana, anche se i pieni poteri a sua disposizione rimanevano limitati alla durata semestrale del suo incarico. Trasferita all’età moderna da Machiavelli, l’idea di sospendere un determinato quadro costituzionale per incrementare le sue capacità di intervento in circostanze di crisi possono essere ricondotte all’idea stessa dello Stato moderno. Lo stato di eccezione, inoltre, non deve essere ricondotto a una questione esclusivamente giuridica. Com’è ovvio, le norme che lo regolano sono incorporate nell’ordinamento giuridico o costituzionale dello Stato. Pertanto, considerare il modo in cui acquisisce veste e configurazione giuridica è indispensabile ogni qualvolta risulti necessario valutare la forma specifica che assumono le procedure di applicazione in circostanze che possono essere mutevoli e imprevedibili. Ma l’analisi dovrebbe procedere oltre, poiché la dimensione giuridica dello stato di eccezione spesso si limita a indicare le forme e le procedure burocratico-amministrative destinate a favorire il rientro nella normalità. La legislazione si colloca per sua natura in una dimensione di generalità che non sempre intercetta o può prevedere la dimensione performativa della decisione politica – ovvero l’uso specifico delle misure specifiche adottate da uno specifico governo.
Anche per questo l’analisi dei modelli linguistici e comunicativi è fondamentale. Quando si tratta di valutare la dimensione performativa dello stato di eccezione, il modo in cui gli esecutivi si impegnano nel tentativo di convincere l’opinione pubblica – prima, durante e dopo l’emergenza – che le misure adottate sono necessarie e inevitabili è della massima importanza. Altrettanto importante è però la qualità dell’argomentazione di tutte le parti coinvolte, anche di quelle avverse. L’onere delle aspettative normative si colloca certo sul piano delle concrete qualità, competenze e margini d’azione degli attori, ma anche sul piano delle forme di comunicazione attraverso cui interagiscono tra loro le dimensioni “informali” e quelle “istituzionalizzate” della formazione dell’opinione e della volontà. L’analisi di queste forme dovrebbe valutare il grado di validità oppure di inconsistenza delle opinioni, sia di quelle favorevoli sia di quelle contrarie, relative alle misure emergenziali, così come la coerenza dimostrata nel corso del tempo da chi le ha sostenute.
Tuttavia, per valutare lo stato di eccezione non è sufficiente considerare il solo arco temporale in cui rimane in vigore. La sua applicazione è suscettibile di un bilancio storico, politico, ambientale o sociale retrospettivo. È pertanto essenziale considerare quelle che si potrebbero definire come le condizioni preesistenti. Ciò aiuterebbe a comprendere quali siano le circostanze che ne suggeriscono, oppure ne precludono, l’applicazione. Come si è visto in questi mesi, vi sono stati paesi che di fronte alla pandemia hanno scelto la via del lockdown e della limitazione di alcuni diritti fondamentali, come la libertà di circolazione e di riunione, e altri che se ne sono astenuti. Si tratta di una prospettiva che acuisce la nostra sensibilità nei confronti di tutti i passaggi che possono gradualmente preludere a una trasformazione in senso autoritario della democrazia.
I confronti e le comparazioni sono perciò importanti. Occorre chiedersi perché alcuni sistemi politici affrontano una situazione di crisi proclamando lo stato di eccezione e poi, a crisi rientrata, facciano ritorno alla normalità mentre altri se ne servano per dare vita a un regime che prevede la concentrazione autoritaria del potere e la soppressione dei poteri di controllo. Gli studi esistenti molto spesso si limitano a un singolo caso invece di porre a confronto i molti modi diversi con cui vengono attuate le procedure che ne regolano la proclamazione ed esecuzione. Gli studi di tipo comparativo possono contribuire a identificare le specifiche costellazioni di rischio e gli specifici modelli politici e istituzionali che si prestano, più di altri, a creare situazioni democraticamente ambigue che, sommandosi le une alle altre, minacciano di consolidarsi in un diverso e meno democratico regime politico. Per questo la prospettiva della normalizzazione è fondamentale. I casi attuali di applicazione dello stato di eccezione dimostrano che la dimensione temporale tende a diventare sempre più flessibile e sempre meno predeterminata. E, inoltre, che essa procede di pari passo con l’incorporazione di importanti disposizioni emergenziali nella struttura normativa ordinaria. Porsi questi interrogativi non significa affrontare questioni attuali o remote. Non solo perché del confinamento tutti hanno un ricordo ben vivo, ma anche perché, se è vero che, come diceva Ulrich Beck, viviamo nella “società del rischio”, non è affatto improbabile che quanto accaduto sia, per così dire, un’eccezione destinata a ripresentarsi. E se l’eccezione è destinata a diventare la regola è essenziale che, almeno sino a quando siamo in democrazia, sia anch’essa sottoposta a regole.