I narcisi descritti da Consoli hanno anche una marcata ed efficace propensione artistica: “Le tue favole spaventano / ed ora ho bisogno di avere paura” (Fidarmi delle tue carezze); “Raccontami le storie che ami inventare / Spaventami” (Parole di burro).
E anche questo non è certo casuale: il narcisismo, come la melanconia che per certi aspetti gli è affine, ha bisogno di trasformare tutto ciò che è vivo in cosa manipolabile per poterlo controllare e dominare, per non esserne sopraffatto; e questa cosalizzazione della vita è intimamente legata al processo stesso della creazione estetica (in ciò sta il midollo etico del rifiuto platonistico dell’arte: la duplicazione e deformazione artistica della vita è per molti versi una difesa dalla vita stessa, un allontanamento protettivo dal bene-verità).
Le generalizzazioni servono a poco perché ogni persona, ogni coppia e ogni situazione è unica; ma è anche vero che siamo tutti e tutte immersi in una temperie culturale e che la musica pop-rock, come il cinema o altre forme artistiche, è in grado di coglierne aspetti significativi contribuendo a sua volta a elaborarli. I brani citati nella prima parte dell’articolo, nei quali decine di migliaia di ragazze sembrano riconoscersi, contribuiscono a confermare che, nell’epoca dell’ostentazione formale dell’uguaglianza di genere, molte donne – al netto delle tendenze masochistiche vere e proprie, che è bene conoscere se ci sono, ma dalle quali è bene guardarsi – ci stanno dicendo che continuano a desiderare di essere non solo rispettate, ma anche conquistate, protette e, nel gioco sessuale, possedute.
Senza nulla togliere al valore e all’importanza delle denunce degli abusi di potere maschili portate avanti da movimenti come MeToo, credo che questo punto di vista andrebbe tenuto in considerazione quando affrontiamo la questione degli approcci sessuali più o meno legittimi. Altrimenti rischiamo di cadere in un perbenismo paralizzante e fuorviante, in un maccartismo erotico che non fa bene a nessuno.
D’altra parte, molti uomini dovranno rendersi conto che per rispondere a queste aspirazioni femminili il narcisismo non paga: se Narciso può inizialmente sedurre e conquistare, presto rivela la propria debolezza, la propria sostanziale incapacità di proteggere e soprattutto di rispettare profondamente sé e chi gli sta vicino.
Ci sono poi canzoni in cui sembra trovarsi un passo ulteriore nell’autoanalisi. È ad esempio il caso del brano di apertura di un album dal titolo eloquente come Eva contro Eva, del 2006, che con il suo bel tessuto melodico e l’insolita lunga chiusa strumentale si presenta come dialogo di una donna allo specchio, abbozzo di riflessione in musica su autoinganni che tradizionalmente sono considerati più tipicamente femminili. Oppure Col nome giusto dal successivo Elettra (2009) in cui, analogamente, ci si trova di fronte alla presa di coscienza della fragilità e delle proiezioni che accompagnano le passioni totalizzanti.
Scrivendo tutto questo, so bene di espormi a critiche di matrice femminista. Eredi di Irigaray, di Cixous o Cavarero potrebbero ben dirmi qualcosa come: “se alcune donne manifestano il genere di desideri sopra descritti, ciò è dovuto al maschilismo imperante: è un dato culturale che si deve e può modificare eliminando il sessismo, a cominciare dagli stereotipi di genere che stai utilizzando!”.
Per rispondere a una critica simile non mi avventurerei a tentare di districare il groviglio di ciò che è naturale e ciò che è culturale in quegli atteggiamenti, visto che in generale tra i due piani c’è una compenetrazione talmente radicale da scoraggiare qualsiasi tentativo in tal senso.
Mi limiterei a osservare che il dato esiste e che mi sembra intimamente connesso alla natura stessa dell’eros: ci si può e deve certamente lavorare tutti e tutte, a tutti i livelli, ma non credo che si potranno ottenere cambiamenti decisivi semplicemente imponendo sul piano etico nuovi modelli relazionali o sviluppando nuovi ordini simbolici, se non si fanno al contempo profondamente i conti – ognuno e ognuna dentro di sé – con quelle pulsioni. E qualunque trasformazione ha come premessa il riconoscimento e l’accettazione di quel che vive in noi.
Per inciso, come si porrebbero le teoriche della differenza sessuale di fronte (non a questo articolo ma) alla stessa Carmen Consoli? Non so se qualcuna di loro si sia già cimentata: in tal caso mi farebbe piacere leggerne l’analisi. Nel frattempo provo a figurarmelo io. Gli ultimi testi citati non vanno certo nella direzione di una demolizione del “fallo-logocentrismo”: sembrano piuttosto esprimere l’esigenza paradossale di una rivendicazione del proprio ruolo all’interno di una dinamica androcentrica, forse come reazione al prevalere della retorica ‘appiattente’ e antierotica dell’uguaglianza formale e del rispetto formale tra i generi.
D’altra parte, quella stessa rivendicazione con la sua fierezza assertiva può risultare problematica e spiazzante agli occhi di un maschile strumentalizzante, che vorrebbe trovare nella donna solo docilità. Inoltre, stiamo già vedendo – e sarà ancora più chiaro in ciò che segue – che i testi dell’artista catanese muovono in svariate direzioni, alcune delle quali mirano alla demolizione di varie figure del maschilismo e alla rivelazione della pusillanimità e del ridicolo ad esse intrinseche (cfr. ad esempio i brani Il sultano (della Kianca), Signor Tentenna, Il pendio dell’abbandono…). Ancora possiamo considerare il suo stesso ruolo di cantautrice, il quale certo non si adatta all’“economia binaria”, che – come sostiene tra le altre Cavarero – da millenni assegna alla donna caratteristiche legate alla passività (vs. creatività), alla dimensione privata (vs. pubblica), etc. Infine, credo che le fautrici di una scrittura femminile, come Hélène Cixous, potrebbero apprezzare soprattutto la voce della Cantantessa, che svolge forse una ricerca analoga a quella dell’écriture féminine esplorando con estrema libertà e spregiudicatezza territori emotivi vastissimi: dall’aggressività e dalla risolutezza alla sensualità morbosa fino alle più delicate tonalità della cura.
Oltre a riempire con la sua voce le vie contorte dell’eros, Consoli è sempre stata capace di aprirla, la voce, all’altra faccia dell’amore: al tentativo di condividere la sofferenza dell’altro – chiunque sia – e di alleviarla, in primo luogo quella più grave.
Già nel secondo album le canzoni d’amore lasciano improvvisamente lo spazio al coraggioso, forse temerario sforzo di mettersi vocalmente nei panni di una sopravvissuta alla Shoah: Un sorso in più è comunque una canzone riuscita e si comprende che nasce da un’emozione autentica. Altrettanto inusuale, ma meno convincente, il tentativo dell’album successivo di parlare della guerra in Afghanistan con il rock adrenalinico e accattivante di Eco di sirene (in questo contesto artistico la parola sirene è legittimamente e fecondamente ambigua, ma il rinvio implicito alla copertina del disco – nella quale la sirena è Carmen Consoli stessa in tutta la sua sensualità, una sensualità di cui è intrisa anche la voce con cui canta il brano in questione – stride parecchio con il contenuto drammatico del testo).
La compassione, comunque, prende via via più spazio e consistenza nei brani della Cantantessa nel corso della sua maturazione artistica. Notevole è ad esempio l’attenzione emozionata alle figure marginali e solitarie, che va a costituire album dopo album una galleria di Eleanor Rigby e Father McKenzie italiani (Contessa miseria, Moderato in re minore, Preghiera in gola, Maria Catena…). Davvero belli nella loro limpidezza sono poi i brani (credo) più apertamente autobiografici dedicati ai genitori – In bianco e nero e Mandaci una cartolina – come anche quella Guarda l’alba che registra forse la scoperta di una nuova fonte di speranza e coraggio grazie all’incontro con il buddismo della Soka Gakkai, lo stesso praticato da Herbie Hancock e Wayne Shorter, da Tina Turner e Suzanne Vega. Fino ad arrivare all’attitudine di partecipe cronista dell’Italia odierna che si manifesta negli ultimi album. Da ricordare a questo riguardo sono soprattutto l’efficacissima denuncia degli abusi sessuali sui minori in Mio Zio (Premio Amnesty Italia 2010); Ottobre che col suo splendido passaggio vocale “piuttosto che il limbo avrei scelto l’inferno / fosse stato il prezzo della libertà” esprime meglio di tanti discorsi politici il diritto naturale all’omosessualità; e poi E forse un giorno e La notte più lunga, nelle quali Carmen – tra compassione e sarcasmo – prende nettissima posizione sull’accoglienza ai superstiti dei barconi e prova a immedesimarsi in una famiglia travolta dalla crisi economica e dall’agonia del welfare state. Peccato per Esercito silente che non mi sembra all’altezza del suo oggetto: la lotta a Cosa Nostra e la denuncia dell’omertà in Sicilia.
Si potrebbe proseguire analizzando brani che sfiorano il tema dei liquidi “rapporti-senza-impegno” (Oceani deserti) o il loro ben più tradizionale estremo opposto, la situazione in cui ci si adagia in una relazione dai confini apparentemente netti, dando la compagna per scontata: tipicità descritta nella musicalmente perfetta Sintonia imperfetta.
Entrambi i brani citati, tratti dall’ultimo disco, sfociano nella decisione serena di interrompere una relazione insoddisfacente; nel primo caso la scelta è più sofferta, ma è altrettanto netta e senza ambiguità. È un tipo di decisione che rispecchia amore – profondo rispetto – per sé stessi e di conseguenza anche un atteggiamento corretto, compassionevole e libero da rancori nei confronti dell’altro.
In fin dei conti, tutte le varianti erotiche che i brani citati in precedenza ci hanno fatto toccare hanno un elemento in comune che le rende in un modo o nell’altro problematiche: la carenza di rispetto per sé, peccato originale di una cultura che – non solo in Occidente – ci chiede di amare il prossimo come noi stessi, ma non ci insegna ad amare noi stessi.
Il contrario del narcisismo e delle condizioni ad esso affini, la possibile via d’uscita dalle loro spire, non è quindi in prima istanza l’altruismo, la benevolenza incondizionata: perfino questa, se praticata a partire da un io fragile – da un io che non si accetta e si detesta – può non essere altro che una raffinata forma di narcisistica richiesta di riconoscimento e accettazione dall’esterno. A volte ci imponiamo di essere altruisti nella speranza di diventare persone più buone, più perfette e quindi benvolute, dunque più accettabili anche da noi. In alcuni casi e in alcune fasi, questa fragile benevolenza può essere una via per l’auto-miglioramento e avere perciò un valore quantomeno propedeutico, senza dimenticare che può comunque offrire orecchie preziose a chi soffre nei paraggi; ma, a lungo andare, agire su questa base può allontanarci ancora di più dal nostro io nella ricerca illusoria di un sé ideale e spingerci perciò ad azioni che non riescono neanche ad aiutare veramente gli altri. Per quanto possa suonare paradossale, l’unico modo diretto per uscire dal narcisismo è imparare ad amare – sobriamente – sé stessi, sé stesse. “Dare voce a una nascente identità” (Ottobre).
Per queste mie sparse considerazioni su amore, narcisismo e dintorni ho preso in prestito da Carmen Consoli inevitabilmente soprattutto i testi, che sono in fin dei conti il suo unico vero punto debole, ma che riescono comunque a trattare – come spero di aver mostrato – temi rilevanti, che arrivano a toccarci soprattutto grazie alla sincerità della voce. A chi avesse ancora dubbi sull’eccezionalità di questa nostra artista (prima donna ad aver vinto la targa Tenco per il miglior album dell’anno e molto apprezzata anche da giganti del pop-rock come David Byrne ed Elvis Costello) consiglio ad esempio l’ascolto dei dodici brani del concerto di Berlino nel 2010: solo lei sul palco, chitarra e voce… è davvero difficile non innamorarsi.