Carmen Consoli, l’amore e il narcisismo. Prima Parte

Carmen Consoli. Testi che spesso alternano cataste di luoghi comuni (consapevoli, si spera: in un vecchio brano si ascolta “difendermi / con ritagli di frasi fatte”) a espressioni aulicamente strampalate; musica ben fatta, coinvolgente, solo a tratti sorprendente; buona tecnica chitarristica, rara tra le cantanti italiane; distorsione vocale estremamente espressiva, che a volte può apparire esagerata. Ad ogni modo l’insieme, quando riesco a lasciarmi andare, prende ed emoziona in profondità.
È una sofferenza scoperta, di viscere, quella portata dai cocci creativi accatastati da Carmen Consoli; un ibrido che arriva a toccare i luoghi intimi raggiunti per altre strade dai vertici della canzone italiana. A livello stilistico si potrebbe tentare di situarla in un territorio di confine tra il grande cantautorato, la canzone medio-alta sanremese e il rock nostrano. Ma per me lei è soprattutto in una heartland, molto vicina al mare.

Più di qualunque altra cantante che conosca, Consoli ha descritto con precisione e intensità un’esperienza visceralmente femminile, comune a molte donne: quella dell’incontro devastante e rivelatore col narcisismo. Già il suo primo successo, Amore di plastica, sarebbe poco più di una classica canzone sanremese se non fosse per quel timbro vocale intensissimo e per il modo diretto e da subito centrato  con cui affronta il nostro tema: “Volevo essere più forte di ogni tua perplessità / Ma io non posso accontentarmi / Se tutto quello che sai darmi è un amore di plastica”. Le perplessità del lui di turno sono una manifestazione tipica del narcisismo maschile: più un uomo è insicuro di sé, più cerca all’esterno – spesso, e non certo a caso, soprattutto nelle donne – conferme del proprio valore. La donna in questi casi è dunque cercata – e anche amata, adorata – prima di tutto in quanto specchio; l’amore di lei e la sanzione sociale (oggi anche social) del rapporto con lei significano per lui un riconoscimento del proprio valore, che non riesce a darsi da solo. Ed è evidente che, in quest’ottica, più la donna è bella (secondo canoni socialmente riconosciuti), intelligente, simpatica, colta ecc. e più il compagno narciso si sente valorizzato di fronte al mondo. Le sue “perplessità” si traducono essenzialmente in richieste rivolte alla partner di modificare questo o quell’aspetto fisico o spirituale ritenuto difettoso o non abbastanza elevato per colmare il bisogno di autostima. Ed è chiaro che le richieste in tale direzione tendono a non avere fine, perché l’avidità di riconoscimento è insaziabile e la ferita da cui nasce è una voragine senza fondo. Solo se riuscisse ad accettarsi, il narcisista uscirebbe dal meccanismo che lo porta a proiettare quelli che considera i propri limiti su quelli che considera i limiti dell’amata. Essere più forte delle perplessità di lui (come risulterà più evidente dai brani successivi) implica dunque un tentativo di cambiare e migliorarsi non per sé stesse, per amore di sé, bensì per adattarsi al modello che lui ha in mente. Finché non ci si rende dolorosamente conto che l’amore del narciso – perché di amore si tratta, eccome: qui anzi eros si manifesta forse nella sua forma più pura, in quanto è brama di possedere ciò che manca, ciò che ci illudiamo possa riempire il nostro vuoto – non è l’amore di metallo prezioso che ci si aspettava da lui. E con comprensibile sprezzo lo si declassa al materiale triste e anonimo per eccellenza, tipico del commercio, dell’usa e getta. Metafora banale, forse.
Ma Carmen è in buona compagnia: Thom Yorke esprime qualcosa di molto simile e con analoga autobiografica intensità in Fake Plastic Trees: “She looks like the real thing / She tastes like the real thing / My fake plastic love”.

È infatti giusto dire che il narcisismo così inteso non appartiene esclusivamente al mondo maschile: ci sono anche donne ‘narcise’ nel senso appena descritto, e l’esperienza che un (o una) partner può fare con una donna simile può essere altrettanto deludente di quella descritta da Consoli. Ma nei maschi il fenomeno è generalmente più diffuso e il motivo di ciò ha probabilmente a che fare – sul piano della storia della specie umana – con la maggiore esposizione sociale dell’uomo rispetto alla donna: nel modello psichico costruito in millenni e tramandato nelle generazioni, se la femmina vive essenzialmente per il suo uomo e per la sua famiglia in un ambito relativamente ristretto e riparato, il maschio vive invece per l’onore e il prestigio che si conquista tramite il proprio lavoro e impegno nella società, ma che implica anche una serie di ornamenti i più ambiti dei quali sono proprio le compagne.
A ciò si aggiunge la circostanza per cui – fortunatamente – nel corso del Novecento l’Occidente si è progressivamente liberato di buona parte della tradizione patriarcale sul piano dei rapporti formali e giuridici, mentre il processo per la corrispondente trasformazione dell’intima identità maschile e femminile è appena cominciato. Ed è evidente che ciò genera seri scompensi, tra i quali l’aumentata fragilità dell’io dei maschi di fronte al venir meno dei ruoli tradizionali: fragilità che esaspera il narcisismo e nei casi più estremi può sfociare nei crimini mostruosi e orrendi del femminicidio o della deturpazione del corpo della donna.

Indicare l’estrema fragilità psichica – oltre al maschilismo che ne è per molti versi un riflesso – come causa della violenza di genere non solo è lontanissimo dal giustificarla, ma è probabilmente anche uno dei pochi antidoti al fenomeno: se si riuscisse a far capire che la violenza, e quella violenza in particolare, non è affatto manifestazione di forza virile o eroismo tradizionalista, bensì espressione di estrema debolezza e impotenza… forse le cose almeno in parte cambierebbero. Non è corretto – benché spesso lo si senta dire – bollare il narcisista come un mostro irrecuperabile; ma va anche sempre ricordato che quella fragilità patologica può contribuire a sanarla uno psicoterapeuta, un maestro spirituale, forse un amico: mai un’amante, mai la persona coinvolta nella relazione amorosa con le sue sole forze.  Agàpe – con la sua capacità di distacco partecipe, la sua severità all’occorrenza – la può curare, non certo eros.

Naturalmente, queste vaghe considerazioni di ordine psicologico e sociologico sono ben lontane dal fornirci un quadro completo del fenomeno del narcisismo, delle sue varianti e specificità; del resto l’obiettivo di questo scritto è un altro: vogliamo solo farci guidare dalla voce di Carmen Consoli a scoprire o riscoprire con parole nuove alcuni anfratti, alcuni angoli bui dell’esperienza erotica sotto il segno del bel figlio di Selene.
Il brano che più di ogni altro esplicita l’amara ma salutare rivelazione della fragilità del partner e al contempo della propria fragilità – entrambe in precedenza mascherate da forza – si intitola Blunotte, dal secondo album dell’artista siciliana.
“Forse non riuscirò a darti il meglio / Ma ho fatto i miei conti e ho scoperto che non possiedo di più // Come se non bastasse / L’aver rinunciato a me stessa / Come se non bastasse / Tutta la forza del mio amore… // E non ho fatto altro che sentirmi sbagliata / E ho cambiato tutto di me / Perché non ero abbastanza / E ho capito soltanto adesso che avevi… paura”.
Quando Carmen pronuncia quell’ultima parola, “paura” – lo fa per due volte nel brano con un’intensità emotiva davvero rara – le ragazze e donne sotto il palco che l’hanno cantata con lei scoppiano sempre in un applauso che credo voglia dire soprattutto: “Grazie di averlo detto così bene, così forte, quello che tutte noi sapevamo e abbiamo vissuto!” .
Tra l’altro, a mio parere, questa è una delle sue canzoni più riuscite anche perché il testo resta semplice e aderente all’esperienza intima, senza cercare contorsioni metaforiche o citazioni pseudo-colte, così che la voce – quella sì, splendidamente distorta – riesce a esprimere il pathos più intimo senza che il brano cada nella banalità, né in un’eccessiva stravaganza.

Carmen Consoli, Mediamente isterica (1998)

Il terzo disco della cantante, Mediamente isterica, narra con una lingua più rock il culmine della disillusione di fronte alla scoperta di uno degli esiti più squallidi del narcisismo: il tradimento erotico più o meno seriale. Fornirsi di una donna di scorta (o di un uomo di scorta, nel caso in cui il narciso sia una lei) è infatti uno dei modi apparentemente più efficaci per garantirsi un riconoscimento continuo, stereofonico e che tende ad alimentarsi nel passaggio costante, più o meno nascosto, da un partner all’altro.
L’enfasi di alcuni psicologi junghiani sul tradimento come coraggiosa esperienza di emancipazione del sé non fa sufficientemente i conti con un’elementare considerazione morale: non c’è motivo per cui l’inganno erotico debba risultare più apprezzabile di qualunque altro tradimento della fiducia altrui. Una separazione alla luce del sole o un’esplicita apertura poligamica del rapporto potrebbero avere lo stesso esito di crescita personale evitando però l’inganno.
Ad ogni modo, nei primi tre brani dell’album in questione Carmen Consoli sfodera un attacco duro, intelligente e in grado di far riflettere chiunque si sia trovato in una situazione simile. L’ovvia ma doverosa premessa è che non possiamo presumere che l’io-cantante corrisponda all’io biografico e che solo del primo ci occuperemo, senza accampare ipotesi sulla vita privata dell’artista o sulle sue intime convinzioni.
Besame Giuda è appunto la dirompente apertura che, giocando con il classico di Consuelo Velasquez, richiamato anche musicalmente nel distorto finale, mette in scena la scoperta del tradimento e il desiderio di vendetta. La rabbia artisticamente sublimata convive nel brano con una buona dose di autoironia, senza farsi mancare una frecciatina alla tradizione cattolica con il riferimento irriverente alla notte del Getsemani: “Giuda baciami ancora / Finché avrai fiato e vita / Fino alla ricompensa / […] / Bésame”, “Como si fuera esta noche la última vez.
L’omicidio virtuale del proprio traditore si accompagna alla consapevolezza rabbiosa e orgogliosa di aver “sepolto gli sciocchi idealismi infantili” e di potersi ormai vantare “di essere una donna con la D maiuscola / Di essere una donna con le carte in regola”. Puramente casuale ha tutta l’aria di essere un secondo schiaffo musicale al suddetto ingannatore: “Mi accorgo guardandoti / di trovarti abbastanza / spregevole // Sia ben inteso ogni riferimento / […] / Non è puramente casuale / Non è puramente generico / Credimi… / […] / Hai davvero motivo di vergognarti / Credimi…”.  Ascoltando distrattamente il brano, pensavo che dicesse “hai davvero motivo di perdonarti”:  forse sarebbe stata una frase ancora più dura.
Infine Sentivo l’odore, che affonda il coltello nella propria e altrui piaga accennando all’atrocità sensoriale della scoperta dell’inganno, visualizzando l’amplesso nemico e cogliendo l’occasione per rivelare fragilità psicofisiche dell’ex, manifestazioni piuttosto tipiche del narcisismo: “Dolce amore non fiatare / Sono fin troppo angosciata dalle tue ansie / Da quando ho scoperto di essere il tuo ripiego / Ho provato vergogna per ciò che ho pensato / Per ciò che avrei voluto fare e non ho fatto / Per come avrei voluto ucciderti // Sentivo l’odore / Mentre sprofondavi tra le sue labbra / Pregavi perché non finisse / Mentre ti annientavi tra le sue labbra / Speravi che non fosse breve” .

Carmen Consoli, Besame Giuda (1998)

Già in questo stesso album, Consoli si rivela poi capace di un’operazione artistica ancora più interessante e coraggiosa, che entra in rapporto dialettico con la citata denuncia delle fragilità e meschinità del maschile: una sorta di autoanalisi dell’io-cantante che sembra voler portare alla luce alcune ambiguità del femminile, potremmo dire l’Ombra di molte donne visto che chiacchieriamo di Jung, o potremmo tornare a riferirci a quel modello psichico (qualcuno direbbe karmico) millenario che ancora cozza non poco, in entrambi i generi, con le sacrosante rivendicazioni emancipatrici del secolo scorso. Difficile ad esempio rinvenire nell’ambito delle cantanti italiane un brano tanto esplicitamente “scorretto” come l’urlo viscerale di Geisha: “Le infuocate carezze / L’invidiabile savoir faire  / Dolce intenso e brutale ah! // Quanta nobile poesia / Padre, amante, padrone  / Nel tuo conto corrente ah! // In salute ed in malattia  / Finché morte non ci separi // Vorticosa passione / O mia belva insaziabile / Nel tuo caldo e accogliente harem // […] /  Fai di me la tua geisha / Fai di me la tua umile serva //  Fai di me la tua geisha // La tua geisha!!!”.
C’è anche distacco ironico, certo, in un brano come questo: ma non credo proprio che possa essere semplicemente letto come una denuncia della prostituzione in senso lato e di chi se ne serve (ciò che troviamo invece in un pezzo recente come AAA Cercasi).  Anche perché il desiderio più o meno torbido di essere prese, guidate, dominate, plasmate, di servire e prendersi cura, forse perfino di essere consapevolmente usate, riemerge in più brani. Nel secondo album ha ancora le parole del sogno d’amore: “Farmi guidare da te / Restarti accanto / Farmi guidare da te” (Diversi); nel quarto – Stato di necessità – esplode in forma più giocosa ed estrema nella title-track: “Saltami addosso dottore coraggio divorami / Straziami studiami a fondo / Pronto soccorso nessun imbarazzo tu saltami addosso / non aspetto altro // […] / Mi diverte importunare una belva che dorme / Farmi addentare”, per poi avventurarsi in una rilettura pop della figura di Euridice: “Sei venuto a convincermi / O a biasimarmi per ciò che non ho ancora imparato / Sei venuto a riprendermi Orfeo malato / […] / Portami con te non voltarti / Conducimi alla luce del giorno / […] / Sento addosso le tue mani / Ed è un caldo richiamo perché / Ho bisogno di svegliarmi / Prendermi cura di te / Ritorno alla vita… // Sei venuto a difendermi / A liberarmi imponendo oltremodo la tua ostinazione” (Orfeo).

Ed è in questo stesso contesto che Carmen rende per la prima volta esplicito il nostro tema dedicando un’intera canzone – una delle sue più note – a (un) Narciso.
“Narciso trasparenza e mistero / […] / […] modellami… / […] / Conquistami inventami dammi un’altra identità / Stordiscimi disarmami e infine colpisci / Abbracciami ed ubriacami di ironia e sensualità // Narciso parole di burro / Nascondono proverbiale egoismo nelle intenzioni / Narciso sublime apparenza / Ricoprimi di eleganti premure e sontuosità / Ispirami / […] / Conquistami” (Parole di burro).
Al di là dell’infelice titolo, questo è un brano con cui l’io-cantante (il personaggio femminile che Consoli mette in scena) sembra prendere coscienza del fatto che una parte di sé desidera esattamente quel modellarsi sui desideri del maschio, quel tentativo di cambiare identità che era stato denunciato in brani come Blunotte come risultato di un abuso, di una violenza psicologica dettata dalle fragilità dell’uomo. E che desidera proprio quel tipo di uomo il quale, in virtù del suo ego ipertrofico – necessario contraltare della fragilità narcisistica – è in grado di ispirarla, di travolgerla, di farla sentire materia plasmata dalla forma, argilla nelle mani di un demiurgo. Forse questo brano e gli altri analoghi di cui stiamo parlando si possono vedere come occasioni per fare i conti con simili propensioni viscerali, renderle esplicite affinché non ci dominino a livello inconscio e le si possa invece orientare verso la propria e altrui felicità.



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