Il romanzo La zattera della Medusa (Das Floss der Medusa), uscito nel 2017 per i tipi del Saggiatore nell’ottima traduzione di Silvia Verdiani, è al contempo tante cose.
Il suo autore è Franzobel, pseudonimo dello scrittore austriaco Franz Stefan Griebl, classe 1967 e autore di opere letterarie, teatrali, liriche dal forte impegno sociale. La zattera delle Medusa è uno dei suoi maggiori successi letterari.
Un romanzo, sì, ma un romanzo che vuole anche ritrarre una tragica vicenda: si richiama infatti a una vicenda accaduta due secoli prima, 18 luglio 1816, nel mare al largo della Mauritania. Tra i flutti di quelle acque viene avvistato un relitto alla deriva. Si tratta di un frammento di zattera, di uno scampolo di assi di legno, sul quale si scorgono i corpi consunti di quindici uomini, da tredici giorni alla deriva in mare, preda della fame, della sete, delle onde.
Sono gli unici superstiti dei 147 passeggeri saliti a bordo di una zattera messa su, con alberi e pennoni, dopo che la nave francese Medusa si è arenata nelle sabbie africane d’Arguin. È questa la scena che si profila già nelle primissime pagine del romanzo: un “naufragio con spettatore”.
La vediamo con gli occhi del capitano Léon Parnajon, che dalla base sicura della sua Argus, punta il cannocchiale su quella maceria galleggiante che si scorge all’orizzonte in quella bella, radiosa giornata di sole del 18 luglio 1816 (“Neanche una nuvoletta offuscava il cielo”).
Ebbene allo sguardo del capitano si manifesta uno scenario feroce, quello dei corpi disfatti, ormai disumani, dei sopravvissuti; un impatto visivo che, nel corso del romanzo, si infittisce di orrore attraverso i ricordi e i racconti dei sopravvissuti.
Ecco che la trama di quell’immagine iniziale, già funesta, si inspessisce attraverso i fili dei resoconti di chi ha vissuto l’orrore, e che riporta scene violentissime ed episodi di cannibalismo, in un crescendo di prospettive macabre, in una polifonia di racconti da incubo. Attraverso le voci dei superstiti, Franzobel offre al lettore uno scandaglio dell’animo umano, fino a toccare gli abissi più profondi della psiche, a incagliarsi nelle secche dell’anima, ovvero a perlustrare il passaggio dall’umano al disumano.
Vale la pena sottolineare che la penna di Franzobel, pur spostandosi continuamente tra realtà e finzione, restituisce un ritratto abbastanza fedele dell’accaduto. Quando il 2 luglio del 1816, la fregata Méduse (inviata da Rochefort in direzione del porto di Saint-Louis, sulle coste del Senegal, per accertarsi che l’Inghilterra – in ottemperanza al trattato di Parigi – avesse abbandonato la colonia, ritornata tra i possedimenti francesi), si arenò, i passeggeri vennero distribuiti su scialuppe di salvataggio. Alcuni di loro vennero affidati a una zattera, costruita per l’occasione. Stipati sull’imbarcazione di emergenza, abbandonati a un destino di terrore nell’Oceano Atlantico, i naufraghi, senza cibo né acqua, alla deriva tra le onde del mare, vengono scaraventati in un’atroce lotta per la sopravvivenza: si trasformano in mostri, divorando i cadaveri dei loro compagni di viaggio.
Ecco che affiora una delle questioni del romanzo di Franzobel: il fatto che queste figure sono ritratte in tutta la discrasia, la discrepanza che le caratterizza: da un lato si offrono allo sguardo del lettore come creature seviziate, ma dall’altro come esseri spietati e brutali, “disumane belve feroci” (p. 16).
Fin dalla prima pagina Franzobel utilizza delle immagini visive, e non è un caso. Alla base di questo romanzo è anche un quadro, la nota opera di Théodore Géricault, dal titolo Le Radeau de la Méduse (1818-19), esposta al Louvre di Parigi. Lo stesso Franzobel dichiara il suo debito nei confronti di questo dipinto, confessando la sua intenzione di creare un’opera letteraria pendant di quell’affresco sofferto, una sorta di èkphrasis, quindi.
Ma quel senso di pietas, che pure, nonostante tutto, circola nel quadro Le Radeau de la Méduse non trova più cittadinanza tra le righe del romanzo di Franzobel, nel flusso disperato del suo racconto. E non potrebbe essere altrimenti: il bello in queste oltre cinquecento pagine del testo non è, non può essere, contemplato. E di fatto il romanzo è, tanto nella forma quanto nel contenuto, dissonante, stridente. Non deve meravigliare.
Nelle trame del coraggioso tessuto narrativo di Franzobel si stratificano, così mi pare, i nodi più tragici della storia del Novecento (e del Duemila). In altre parole, le pagine del romanzo La zattera della Medusa hanno incorporato nella memoria l’orrore del reale.
Come non pensare, visualizzando quelle violenze, agli orrori dei campi di concentramento e di sterminio nazisti? E forse la descrizione di quelle vite alla deriva, di quei cimiteri tra le onde, non rimanda anche a quell’Olocausto che è il dramma dei migranti annegati nel Mediterraneo? Si pensi, in questo senso, anche al rifacimento del quadro di Théodore Géricault ad opera dell’artista Bansky apparso su un muro di Calais nel 2015, e dedicato alle vite disperse nel Mediterraneo.
In qualche intervista Franzobel fa cenno a questi richiami, e non manca di soffermarsi su quello che forse è il fulcro più complesso del romanzo: il fenomeno del cannibalismo. È quanto accade anche nel romanzo post-apocalittico The Road/La strada (2006) di Cormac McCarthy. Lo scrittore sottolinea il fatto che questo fenomeno, molto rimarcato nel suo romanzo, riveste anche un valore simbolico: se l’Occidente civilizzato ha abbandonato questa pratica, ma continua a divorare (almeno metaforicamente) gli esseri umani del Terzo mondo. Non è un caso se, a ben vedere, questo romanzo “mette in opera” un rovesciamento di prospettive: protagonisti della barbarie sono qui gli esponenti dei presunti popoli civilizzati, collocati in una situazione estrema. In linea con le tesi di Adorno e Horkheimer nella Dialettica dell’illuminismo è qui in gioco il rovesciarsi della Kultur in Barbarei.
C’è allora un’altra immagine su cui vorrei soffermarmi per chiudere. Si tratta del ritratto della Medusa, che – non dimentichiamolo – è il nome della nave affondata. Come viene ricordato in un passo del romanzo è anche il nome della figura di ragazza bellissima della mitologia greca: «Medusa era una gorgone (…) una fanciulla bellissima dalle forme ben proporzionate, proprio come la nostra nave (…). La sventurata, sedotta da Poseidone, attirò su di sé gelosia di Atena, che la condannò a diventare una creatura mostruosa, capace di trasformare tutti quelli che la guardavano negli occhi in pietra: «Doveva essere così ripugnante che tutti quelli che la vedevano, all’istante si facevano pietra» (p. 106).
Quello sguardo pietrificato, lo sguardo di chi ha vissuto e visto l’orrore, lo ritroviamo in diverse pagine di questo spietato romanzo, ma anche, a ben vedere, stampato sui volti delle tante immagini di violenze di oggi. Il nostro compito è almeno quello di imparare a riconoscerlo.