In Italia la Legge 180 del 1978 ha decretato la fine del manicomio concentrazionario nato con Philippe Pinel sul finire del Settecento per segregare e separare i devianti affetti da un qualche “barlume di follia” dal resto della società.
Il manicomio però, nella sua logica profonda, è duro a morire e lo spazio lasciato dalla chiusura, ottenuta attraverso le battaglie basagliane, di quello storico dispositivo di annientamento degli individui è stato presto occupato da altre subdole, ipocrite e redditizie forme di manicomio.
Una puntuale ricostruzione di questa trasformazione è stata tracciata da Piero Cipriano – “psichiatra riluttante”, come ama definirsi – in una serie di libri editi da Elèuthera.
L’autore ha fatto dei Servizi Psichiatrici di Diagnosi e Cura (SPDC), presso cui lavora, il punto di osservazione privilegiato da cui tentare di capire sia chi sembra non saper “stare al mondo” che quella società cinica e spietata che mentre da un lato espelle i sui “scarti” – chi si rivela incapace di adeguarsi a essa – dall’altro riesce a renderli produttivi attraverso le cliniche e la chimico-dipendenza spacciata attraverso diagnosi comandate dai manuali diagnostici statunitensi.
Nei libri di Cipriano, attraverso un particolare alternarsi di racconti di esperienze umane e professionali vissute direttamente e riflessioni derivate dalla partecipazione a convegni, oltre che da letture di saggi e opere narrative, viene passata in rassegna l’ombra lunga del manicomio fisico proiettatasi ben oltre le chiusure sancite dalla Legge 180 – La fabbrica della cura mentale (2013) – l’avvento di quella psichiatria chimica che impone al paziente di assumere il manicomio un po’ alla volta, psicofarmaco dopo psicofarmaco – Il manicomio chimico (2015) – e i passaggi principali che hanno condotto – La società dei devianti (2016) – grazie all’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) e al Diagnostic and Statistical Manual of Mental Disorders (DSM), alla trasformazione della “stanchezza esistenziale”, sempre più diffusa nell’attuale società della prestazione, in “depressione”.
Se la messa in discussione dei manicomi inizia a manifestarsi negli anni Sessanta del Novecento nell’ambito di una più generale contestazione della struttura sociale e delle sue istituzioni totali, non di meno procede di pari passo con il ricorso al trattamento farmacologico attuato anche dagli psichiatri anti-istituzionali. Per certi versi si è passati dalla camicia di forza al manicomio chimico ma, probabilmente, sostiene Cipriano, si è trattato di un passaggio obbligato, utile a porre fine alle strutture di reclusione tradizionali, inoltre, nel breve periodo, gli antipsicotici a cui si è iniziato a far ricorso sono risultati indubbiamente efficaci sui sintomi più eclatanti.
La Legge 180 è purtroppo stata spesso male applicata, visto che, in molti casi, ancora oggi non viene messa in discussione la centralità del ricovero, il primato della clinica rispetto ai luoghi della vita delle persone.
Certamente l’attuale Servizio Psichiatrico di Diagnosi e Cura non può essere definito un vero e proprio manicomio ma, suggerisce Cipriano, assomiglia parecchio a una catena di montaggio. Insomma, se il manicomio tradizionale rimanda al campo di concentramento, l’attuale struttura ricorda molto da vicino la fabbrica.
È con il ricovero presso uno SPDC che l’individuo inizia la sua carriera di “malato di mente”: condotto in stato di agitazione in una di queste strutture, viene lì trattenuto dal personale sanitario, non di rado obbligato a una terapia sedativa e, se ritenuto necessario – in assenza di operatori “sufficientemente riluttanti” – legato al letto.
Se il malcapitato apprende velocemente le regole del reparto e i suoi rituali, una volta mostratosi sufficientemente sottomesso, può uscire, seppur accompagnato, dal reparto tenuto rigorosamente a porte chiuse. Se la “normalizzazione” non è ritenuta sufficiente, il ricovero può però trasformarsi in un vero e proprio Trattamento Sanitario Obbligatorio (TSO).
Infatti, se il ricoverato non riesce a convincere gli operatori di non essere “grave e pericoloso”, viene inviato, con l’autorizzazione del medico del Centro di Salute Mentale (CSM), per qualche mese in una Casa di cura convenzionata. Così le strutture pubbliche respirano e quelle private si arricchiscono.
Data la cronica impossibilità dei CSM di prestare aiuto a domicilio, ben presto il paziente non sarà più tanto paziente e, una volta raggiunto il livello di guardia, o di sopportazione da parte dei conviventi o del vicinato, ecco che il giro riparte da dove era iniziato, dalle porte dello SPDC.
È così che funziona la fabbrica della cura mentale: una fabbrica che ha il suo direttore (il primario) che controlla il buon funzionamento della catena di montaggio umana coadiuvato dai tecnici specializzati (gli psichiatri) con il malato recepito come la macchina biologica da riparare non attraverso la parola, la relazione e un po’ d’umanità, ma per via farmacologica[1].
“Quando un matto agitato viene catturato dalle forze dell’ordine, ammanettato e portato nel pronto soccorso di un ospedale, e lo psichiatra non fa altro che sostituire le manette con le sue fasce, ecco, in quel caso non ha fatto lo psichiatra, ma ha fatto il poliziotto, si è adeguato alla misura poliziesca, ha fatto l’antipsichiatra, insomma. Per cui io ribalterei la vecchia dicotomia degli anni Settanta tra psichiatria e antipsichiatria.
Il vero antipsichiatra per me non è colui che ricusa le fasce, ma è colui che lega; viceversa, il vero psichiatra non è colui che lega, ma colui che non accetta di adoperare le fasce[2].”
Nel frattempo, denuncia Cipriano, si è fatto strada un nuovo tipo di manicomio, fatto di “etichette diagnostiche” e conseguenti psicofarmaci: un “manicomio chimico” che ha saputo combinarsi velocemente con una società digitale votata a quella pratica di “vetrinizzazione” in cui gli individui si concedono volentieri, soprattutto attraverso i social digitali, mettendo a nudo la loro esistenza all’interno di un panottico che ha per controllori gli stessi controllati.
Emblematico il fatto che la Food and Drug Administration (FDA) statunitense stia da tempo lavorando a un sistema di monitoraggio volto a verificare l’avvenuta assunzione di antipsicotici dotati di un sensore in grado di comunicarla alle autorità mediche: una sorta di libertà vigilata controllata a distanza che può facilmente trasformarsi in ricovero nel caso di non ottemperanza a quanto stabilito dalla terapia. Non è pertanto difficile immaginare pratiche di monitoraggio sociale a cui prendono parte gli stessi utenti della rete.
Cipriano spiega come le responsabilità della deriva farmacologica della psichiatria possano essere fatte ricadere soprattutto su quattro istituzioni statunitensi: l’American Psychiatric Association (APA), le case farmaceutiche, il National Institute of Mental Health (NIMH) e la National Alliance for the Mentally Ill (NAMI). Questa “santa alleanza in nome del farmaco” ha potuto contare su un ente garante di autorevolezza scientifica (APA), sui finanziamenti delle aziende farmaceutiche, sul sostegno governativo (NIMH) e sulla “garanzia etica” fornita da un’associazione di famigliari di persone con diagnosi di malattia mentale (NAMI) alla disperata ricerca di modalità con cui convivere con la sofferenza dei propri cari.
Una volta perse le sue tradizionali caratteristiche concentrazionali (strutture di isolamento), il manicomio si è trasferito direttamente nella testa degli individui, nei loro pensieri e in quelle vie neurotrasmettitoriali che li regolano: “il vero manicomio, in questo nuovo secolo appena iniziato, sono i farmaci, il vero, pericoloso, subdolo manicomio è quello chimico (e ciò che lo precede, e lo giustifica, ovvero la diagnosi)”[4].
È così che il paziente, anziché essere internato tra mura e sbarre, si trova ad assumere il manicomio un poco alla volta, psicofarmaco dopo psicofarmaco, attraverso un moderno Cavallo di Troia che si presenta sotto le sembianze di simpatiche e colorate pillole che frequentemente, sin dal nome, promettono un immediato e duraturo sollievo. Non si tratta, sottolinea Cipriano, di rifiutare totalmente i medicinali, ma di ricorrervi con una certa parsimonia, soltanto nei casi più gravi e per periodi di tempo limitati al fine di evitare di indurre in chi li assume la dipendenza da quelle sostanze.
La deriva psicofarmacologica non riguarda però soltanto “i malati”; oggi si può diventare pazienti psichiatrici senza saperlo: per ogni stato emotivo forte esiste “il farmaco giusto” e in un attimo una fase di tristezza, se considerata dai manuali eccessivamente prolungata, può essere etichettata come depressione e curata attraverso psicofarmaci.
Già in apertura degli anni Settanta, Franco Basaglia e Franca Ongaro [5] avevano denunciato come la società consideri “devianti” tutti coloro che risultano improduttivi e come al fine di farli comunque partecipare al ciclo produttivo, occorresse designarli, quanto più possibile, come “malati”. È così che il sistema ha potuto motivare e creare le sue cliniche, i suoi ospedali, i suoi “imprenditori della cura e della follia”. Questi ultimi, sostiene Cipriano, hanno saputo evolversi: grazie all’industria del farmaco ai luoghi fisici hanno sostituto, o affiancato, nuovi metodi di internamento.
Basaglia e Ongaro denunciavano come la società produttivista fosse spietata nei confronti di quanti avevano la sfortuna di nascere in ambiti sociali svantaggiati, ma la violenza di tale tipo di sistema, sostiene Cipriano, prende oggi di mira anche chi è “più banalmente, troppo magro o anoressico, obeso, iperattivo, depresso, bipolare, borderline, schizofrenico, schizoide, hikikomori, psicopatico, ovvero nichilista, ovvero terrorista, zingaro che non si adatta, migrante, apolide, rifugiato e così via.
A ognuna di queste etichette, spesso, corrisponde un farmaco, o una tecnica psicoterapeutica, o un luogo di rieducazione, identificazione, pena, espulsione, insomma tutti questi devianti riluttanti sono pane, sono guadagno per il mondo dei normali, di coloro che sanno lavorare.[6]“
Quello che si è venuto a strutturare è un vero e proprio manicomio illimitato fondato sulla diagnostica e sulla volontà di catalogare, del tutto in linea con quel bisogno diffuso, ubiquitario e condiviso di applicare un’etichetta identitaria a ogni individuo affetto da un disturbo o da una malattia, e tale etichetta, denuncia Cipriano, si trasforma velocemente in un destino, in una condanna da cui tutto deriva: “gli obblighi, i percorsi, le scuole, le cure, i farmaci, le prigioni, ciò che potrà o non potrà fare nella vita[7]“.
Viviamo in una “società dei malati per forza”, in cui chi si trova in uno stato di sofferenza non può che dichiararsi “malato” e accettarne le conseguenze che, il più delle volte, si presentano sotto forma di farmaci. Non ci si preoccupa di individuare le cause che determinano, ad esempio, uno stato di profonda tristezza; questa viene facilmente etichettata come depressione e come tale da trattare con farmaci antidepressivi. Non solo non si indagano le cause del disagio, ma nemmeno gli effetti della cura sul lungo periodo: il Diagnostic and Statistical Manual of Mental Disorders è divenuto una sorta di libro sacro da applicare senza porsi troppe domande.
Secondo l’Organizzazione Mondiale della Sanità, la depressione è la seconda “malattia” più diffusa al mondo (addirittura la prima nella fascia d’età compresa tra i 15 e i 44 anni) ma, sostiene Cipriano, manca uno studio scientifico che spieghi cosa sia la depressione, quali siano le cause che la determinano e persino se si tratti davvero di una “malattia”: ancora oggi, come negli anni Sessanta, ci si limita a pensarla derivare da un basso livello di serotonina e noradrenalina nel sistema nervoso centrale, senza che tale ipotesi sia stata ulteriormente approfondita.
Con il passare del tempo la depressione è stata diagnosticata sempre più diffusamente, tanto che a partire dal 1980, grazie al DSM-III, si è considerati depressi se per un periodo di almeno due settimane si hanno almeno cinque sintomi tra: umore depresso; diminuzione di interesse o piacere; perdita o aumento di peso; diminuzione o aumento dell’appetito; insonnia o iperinsonnia; agitazione o rallentamento psicomotorio; affaticamento o perdita di energia; sentimenti di autosvalutazione o colpa; diminuzione della capacità di pensare o concentrarsi; pensieri di morte o di suicidio.
Il motivo per cui debbano per forza essere presenti cinque indicatori non è dato a sapersi. È così, lo scrive il DSM-III e questo deve bastare.
Trasformando in depressione ogni forma di tristezza e di stanchezza superiore alle due settimane, i manuali diagnostici hanno di fatto eliminato la millenaria distinzione tra malinconia endogena e tristezza esogena.
È legittimo pensare che l’incredibile allargamento dei confini diagnostici della depressione, voluto dagli psichiatri dell’American Psychiatric Association, abbia a che fare con il fatto che gli antidepressivi rappresentano la maggiore fonte di profitto delle case farmaceutiche; non sarà pertanto un caso se i finanziamenti per redigere il DSM-IV sono arrivati quasi per intero dalle case farmaceutiche e se la metà dei redattori del manuale è direttamente legata a esse.
Se fino agli anni Cinquanta, ricorda Cipriano, la malattia “giustificante la psichiatria” è stata la schizofrenia, malattia priva di definizione e basata su sintomi, dopo che l’OMS ha trasformato la salute in “benessere psicofisico e sociale”, l’agire psichiatrico è cambiato: non occorre più curare una malattia mentale giudicata inguaribile (la schizofrenia) ma ci si deve preoccupare del raggiungimento del “completo benessere psicofisico” del paziente. Ecco allora che alla schizofrenia si è sostituita la depressione. L’American Psychiatric Association ha trasformato la “stanchezza esistenziale” dei nuovi tempi in “malattia”: la depressione.
L’esaurimento psicofisico che i manuali diagnostici definiscono depressione, sembrerebbe piuttosto avere a che fare con l’imperativo della prestazione che governa una società in cui gli individui sono indotti a “potenziarsi” per migliorare le prestazioni esistenziali e lavorative sino a bruciarsi il corpo e il cervello divenendo velocemente scarto, rifiuto improduttivo per sé ma non per il business della salute che dagli “scarti umani” invece trae un enorme profitto.
La società contemporanea, votata a forme di autismo arelazionale, palesa come gli individui stiano sempre più perdendo il contatto con il mondo ed è a metà via tra la depressione e la psicosi che si colloca quella sindrome che i giapponesi definiscono hikikomori, letteralmente “starsene in disparte”, isolarsi dalla vita sociale, che per certi versi può essere letta anche come una via di fuga solitaria da quella logica della prestazione oggi sempre più richiesta.
Nei suoi scritti Cipriano denuncia come ancora oggi nelle strutture si continui a ricorrere alle fasce di contenzione nei confronti dei pazienti con disturbi psichici. Si tratta di una pratica che, nonostante non sia menzionata dai libri di psichiatria, continua a essere praticata oltre che per carenze legislative e per motivi di carattere economico (legare costa meno che aumentare le risorse umane nei reparti), purtroppo anche per responsabilità etico-culturali di tanti operatori.
Cipriano fa riferimento anche ad alcuni esempi di modalità di aiuto a chi soffre in cui si fa ricorso a una maggiore empatia nei loro confronti; tra questi cita i CSM triestini aperti ventiquattro ore al giorno, ove sono ospitati i pazienti in luoghi aperti basati sulla relazione e non sull’internamento coatto, e il modello di cura alternativo Soteria, ideato dallo psichiatra americano Loren Mosher, basato su un’abitazione ospitante un numero ridotto di individui affetti da primi episodi di psicosi in cui non si ricorre ad alcuna etichetta nosografica e, soprattutto, si selezionano gli operatori in base alle loro caratteristiche di empatia e disponibilità.
Affinché pratiche come queste possano diffondersi, occorre innanzitutto uscire dalla convinzione diffusa che terapia psichiatrica significhi somministrazione di psicofarmaci ed è necessario, sostiene Cipriano, che lo psichiatra che decide di provare anche solo a diminuire leggermente la terapia farmacologica a un paziente non sia per questo automaticamente condannato da un tribunale.
[1] P. Cipriano, La fabbrica della cura mentale. Diario di uno psichiatra riluttante, Elèuthera, Milano 2013.
[2] P. Cipriano, Il manicomio chimico. Cronache di uno psichiatra riluttante, Elèuthera, Milano 2015, p. 54.
[3] V. Codeluppi, Mi metto in vetrina. Selfie, Facebook, Apple, Hello Kitty, Renzi e altre «vetrinizzazioni», Mimesis, Milano-Udine 2015.
[4] Ivi, p. 35.
[5] F. Basaglia, F. Ongaro Basaglia, La maggioranza deviante. L’ideologia del controllo sociale totale, Einaudi, Torino, 1971.
[6] P. Cipriano, La società dei devianti. Depressi, schizoidi, suicidi, hikikomori, nichilisti, rom, migranti, cristi in croce e anormali d’ogni sorta (altre storie di psichiatria riluttante), Elèuthera, Milano 2016, pp. 14-15.
[7] Ivi, p. 234.