Nella prima parte di questo contributo cercherò di mostrare in che senso l’architettura possa intrecciare pratiche discorsive etichettate come ideologie; filosofi come Althusser, Freud e Spinoza, o architetti come Rem Koolhaas, ci aiuteranno a comprendere in che modo i processi di soggettivazione si strutturano attraverso determinate forme materiali di esistenza. Nella seconda parte valuteremo alcuni tentativi di dialogo a distanza tra architetti e filosofi; in particolare mi soffermerò sulla necessità di ricollocare nel loro originario quadro discorsivo categorie come quella di postmoderno, al fine di evidenziare l’eccessiva mobilità di un lessico che diventa comune senza i necessari approfondimenti; infine verrà evidenziato come alcuni termini – come junkspace di Koolhaas – richiamino indirettamente alcuni concetti filosofici, o come la necessità di una filosofia del design sia stata praticata in ambito estetico prima che filosofico.
The aim of this paper is to explain the debatable connection between architecture and philosophy. In the first part, we will take into consideration in what sense architecture can be considered a form of ideology, which contributes to realize processes of Subjectivation through material forms that create precise conditions of existence; we will use Althusser, Freud and architects such as Koolhaas for this purpose. In the second part we will refer to the various kinds of inspiration that philosophy has produced in the field of architecture; how Jenks read Lyotard or Rem Koolhas took inspiration from Les Immaterieux at the Pompidou center in 1985, by making reference and explaining the so-called Postmodern condition and the so-called design philosophy in Latour. We will also try to understand how architectural concepts such as junkspace connect to philosophical concepts such as heterotopias
Lo spazio della domus è il luogo in cui avviene l’iscrizione del tempo; da un punto di vista antropologico esso costituisce la cornice in cui deve collocarsi l’attesa di tutto quanto si ripete in forme differenti, diari, quaderni contabili, vincoli familiari, attese per l’avvenire, una continua esplicitazione ritmica di alleanze materiali e immateriali in cui trova posto, in una silenziosa e meditata accoglienza, la stessa irruzione dell’imprevedibile dolore[1]. Lo spazio domestico è anche il luogo di una rimozione strutturale e simbolica; è lo spazio dei nostri escrementi, quello nascosto nelle pareti e nelle fondamenta per assicurare il nostro comfort; è il luogo riparato per le voci narranti che sanno essere dispotiche e violente. Ma noi, in qualità di ultimi uomini, siamo quelli per i quali “la terra è diventata troppo piccola e su di essa saltella l’ultimo uomo, quegli che tutto rimpicciolisce. […]. Noi abbiamo inventato la felicità”[2]; e ciò comporta la necessità di piegare il pensiero a ciò che è comunicabile o, in altri termini, il fatto che la condizione di benessere in uno spazio diventi, come spiega Sloterdijk[3], un sistema immunitario in cui ogni forma di estraneazione viene bandita. Da qui, osserva Koolhaas dall’angolo visuale del teorico e dell’architetto, il fatto di essere ormai condannati “ad un limbo di parole” funzionale solo a costruire un consenso inconcludente; l’ossessione della viabilità propria di ogni programma urbanistico ci rivela che le autostrade, così come gli aeroporti con i loro servizi sempre più sganciati dall’attività del viaggio – tanto che di fatto si avviano a sostituire le città – delineano la nostra condizione universale di esseri di passaggio.[4]
Costruire l’ideale
Quando Althusser parla di “esistenza materiale” dell’ideologia si sta evidentemente smarcando da una considerazione della stessa in termini di credenza e coscienza, cioè una considerazione del tutto idealistica dell’ideologia costruita sull’opposizione credenza/scienza; la materialità di cui parla Althusser ci immette direttamente nel campo degli “apparati” e delle “pratiche”. Per cui se l’ideologia continua a “rappresentare il rapporto immaginario degli individui con le proprie condizioni reali di esistenza”, queste rappresentazioni non vanno intese come qualcosa di altro rispetto alla realtà, ma qualcosa di immanente alla realtà sotto forma di corpi, forze, e qualsiasi forma di materialità che struttura le relazioni in una società. In questo modo Althusser, con questi “corpi di rappresentazioni esistenti all’interno di istituzioni e pratiche”[5], vuole da un lato dare conto di tutte le posizioni soggettive nelle descrizioni delle pratiche sociali, dall’altro giustifica il fatto che siamo già sempre presi in una serie di rapporti che definiscono le nostre condizioni di vita, e questo non ha niente a che vedere con la conoscenza che abbiamo di queste stesse condizioni.
Prendiamo il progetto di Iofan del 1934 per il Palazzo dei Soviet; al vertice vi era una gigantesca statua di Lenin che porge la sua mano a circa 450 metri di altezza; veniva, cioè, plasticamente raffigurata la situazione per cui il sogno socialista della nuova umanità dominava dall’alto le persone in carne ed ossa, i cui bisogni erano evidentemente secondari rispetto al traguardo da conseguire. Ora, chiunque avesse fatto notare ciò, sarebbe stato accusato di essere un anti-rivoluzionario, con tutte le conseguenze del caso. Quello che, dunque, questa esteriorità materiale rende visibile è che l’ideologia funziona facendo vedere ciò che non può essere esplicitamente formulato, in questo caso l’antagonismo non dichiarato tra gruppo dirigente comunista e la popolazione. Questa monumentale trasparenza sociale rivela il modo in cui l’apparato ideologico si rapporta alle nostre convinzioni consce, cioè ci dice il modo in cui agisce la fantasia all’interno dell’ideologia. Il Lenin gigante è innanzitutto la costruzione immaginaria che ci permette di non vedere la nostra effettiva condizione di uomini sfruttati che stanno costruendo il socialismo; allo stesso modo, spostandoci nell’Italia fascista, la fondazione di una nuova capitale all’esterno dei confini della città eterna ipotizzava una monumentalità separata dalla realtà sociale: l’Enigma dell’ora di De Chirico era realizzato quasi alla lettera nel Palazzo della Civiltà Italiana. Mussolini presenta l’Italia come un impero, però noi notiamo che costruisce l’EUR fuori da quello che era all’epoca il centro storico di Roma, quindi in una zona che non ha niente di imperiale, di fatto una zona di aperta campagna. Inoltre questa costruzione, che viene ripresa dai dipinti di De Chirico, non ha nulla di nuovo, ma riposa su un passato tradizionale, non c’è nulla di moderno. E’ un paese che a parole vuole costruire un impero e l’uomo nuovo; ma in realtà è un paese ancorato al passato, anche dal punto di vista architettonico. Anche se proviamo ad aggirare l’ideologia dicendo che la sua materialità è, in certi casi, semplicemente rispondente a criteri di utilità, siamo veramente al riparo? L’utilità non è anch’essa intrisa di ideologia? Il rituale che si definisce utile, pretendendo in questo modo di mantenere un neutrale distacco dalla realtà, non è qualcosa che ci sta pilotando senza che uno ne sia consapevole, così come nel nostro esempio venivano presentate quelle soluzioni architettoniche? Ancora; l’opera canonica del movimento razionalista italiano fu la Casa del fascio di Como, progettata da Terragni all’interno di un quadrato e alta esattamente la metà della sua base; la casa venne posta su un basamento per accentuarne la monumentalità; questo progetto mostra bene come si sposavano elementi tecnici ed intenzioni politiche, visto che le porte che separavano l’atrio d’ingresso dalla piazza erano in vetro ed azionate da un meccanismo elettronico che le faceva aprire tutte simultaneamente; in questo modo si voleva rendere anche visivamente la suggestione di un flusso ininterrotto tra la città e la sede del partito, come se le due cose si identificassero.
L’operatività della fantasia, dunque, va ben al di là del modo più ovvio in cui possiamo considerarla, e cioè come la modalità allucinatoria di soddisfacimento di un desiderio. Se desidero un determinato oggetto, il problema non è semplicemente capire come realizzo questo desiderio sul piano della fantasia; il primo problema, quello che Freud chiamava “fantasia fondamentale”, è capire perché il desiderio è orientato proprio su quell’oggetto. In secondo luogo, dobbiamo evitare un’altra considerazione ovvia, e cioè che questo desiderio ricorrente sia l’espressione del mio essere più autentico, il mio desiderio più privato; questo desiderio esprime solo il modo in cui cerco di corrispondere alle aspettative che gli Altri hanno su di me.
In altre parole: è il problema che Marx evidenzia con il mistero teologico della merce; io so chiaramente che la mia giacca è il prodotto del lavoro umano, eppure, girando per le vie dello shopping, è lei che dalla vetrina vede me, facendo si che mi appaia come se avesse una vita propria che dice: sono fatta per te. A saltare è proprio la distinzione tra apparenza soggettiva e realtà oggettiva, nel senso che lo scarto tra le due si riflette dal lato dell’apparenza facendo si che quest’ultima appaia oggettivamente così, dotata della sua esteriorità materiale, simbolicamente riconosciuta nella sua impersonalità. Questo aspetto ci consente di evidenziare, dal lato del soggetto, un aspetto decisivo; non si tratta, cioè, solo di riconoscere il fatto che c’è un meccanismo anonimo che ci guida, ma soprattutto di riconoscere il fatto che quella che ci sembra un’esperienza intima, del tutto personale – ho scelto questa giacca perché esprime il mio stile -, è qualcosa di inaccessibile; non possediamo affatto il nucleo più profondo del nostro essere proprio così. Solo la giacca può creare quella X interiore e personale che poi si dichiarerà alienata. In termini più espliciti: è l’alienazione stessa a creare il mito di un soggetto non alienato – questo è un punto importante. All’inizio abbiamo parlato del fantasma come di una produzione singolare: il mio fantasma / i nostri fantasmi, quando parliamo in questo modo intendiamo evidenziare il fatto che il fantasma è una singolarità non scambiabile; esso diventa tale solo quando viene formulato, condiviso. In altre parole, accanto alla realtà dei fantasmi c’è quella dei simulacri. È il simulacro, in quanto segno, a funzionare per la circolazione. Non bisogna pensare, però, che il fantasma tradotto in segni venga, per così dire, sacrificato perché baratta la sua singolarità per essere condiviso; anzi, gli stessi simulacri diventano un’ulteriore manifestazione di carica libidinale, altrimenti non si capirebbe il godimento attraverso segni come per esempio la scrittura e il denaro[6]. Vediamo come, servendoci del resoconto di Rem Koolhaas in Delirious New York[7] della costruzione del Rockefeller Center, la mega struttura che avrebbe ospitato uffici, abitazioni, intrattenimento, una radio, una tv, e attività commerciali. La lunga fase di progettazione portata avanti da ciascuno degli Associated Architects dalla metà degli anni venti culminò nella capacità di far coesistere cinque progetti ideologicamente distinti accomunati solo dalla comune presenze di ascensori, servizi, l’involucro esterno e i pilastri. La base delle torri venne affidata a S.L. Rothafel affinchè ne facesse un luogo per il divertimento illimitato da offrire alla Nazione. Dopo un deludente viaggio in Europa e a Mosca per visionare teatri e strutture per il divertimento, questo ex showman della Paramount dichiarò di aver avuto la visione della futura Radio City Music Hall durante il viaggio di ritorno in nave, prima ancora di confrontarsi con gli architetti. La visione consistette nella volontà di realizzare un gigantesco teatro che incarnasse il tramonto osservato dalla nave. La pianta venne così disegnata eseguendo una serie di semicerchi concentrici di diametro sempre più ridotto man mano che ci si avvicina al palco; su quest’ultimo una tenda di tessuto sintetico riflettente inviava i riflessi sugli archi di stucco con elementi color oro disposti per illuminare tutto l’auditorium; il ritmo e l’intensità dell’elettricità simulava alba e tramonto. Prima che venisse dissuaso dagli avvocati Rothafel diffuse ozono dal sistema di condizionamento per aiutare le persone a rilassarsi; negli opuscoli e negli articoli che pubblicizzarono l’apertura campeggiava la scritta: “Una visita al Radio city Hall fa bene come un mese in campagna”[8]. In un’unica area della città, il Rockefeller Center, le persone trovavano spazio, bellezza, divertimento, cultura, reddito, una dimensione urbana e anti-urbana: un complesso architettonico che trasmetteva al mondo intero la vera vita desiderabile. Ed è proprio su questa abolizione della distanza tra affetto e lavoro che dobbiamo soffermarci. Quello che dobbiamo notare, con un testo di Lyotard del 1974[9], è che la pubblicità tradizionale dove il corpo fa segno verso il prodotto è un tipo di potere psico-economico, perché neutralizza la carica libidinale del corpo esposto della modella tradizionale che pubblicizza un prodotto e la proietta verso il prodotto e il denaro funzionando come una normale forza/lavoro; in Delirious New York, invece, il corpo scatena una potenza d’emozione che funge da modello complessivo di un’esperienza che si imprime come fantasia fondamentale da realizzare; l’intensità di questi corpi non rinvia a nient’altro, vuole essere immediatamente consumata in forma allucinatoria perché viva come incandescenza incorporata nello spettatore.
In Psicologia delle masse e analisi dell’Io (1921) Freud pone la formazione dell’ideale dell’io al centro della propria speculazione, osservando come ogni singolo, attraverso il meccanismo dell’identificazione, assuma i modelli più diversi come elementi strutturanti il proprio ideale. Quando, due anni più tardi, in L’Io e l’Es, Freud introduce per la prima volta il concetto di Super-Io, quest’ultimo ha con l’Io un duplice rapporto, che riunisce le funzioni del divieto e dell’ideale: devi fare tutto ciò che fa la tua istanza -modello (l’ideale), ma allo stesso tempo alcune cose rimarranno una sua prerogativa perché non puoi essere alla sua altezza (divieto); infine, nella nuova serie di Lezioni di Introduzione alla Psicoanalisidel’33, Freud ingloberà nel Super-Io ben tre funzioni: auto-osservazione, coscienza morale, la funzione di ideale; queste ultime due, nello specifico, vengono da Freud associate al seno di colpa e a quello di inferiorità. Seguendo l’indicazione freudiana della compenetrazione tra l’aspetto ideale e quello del divieto, Lagache[10] stabilirà una relazione strutturale tra questi due aspetti: «il Super-io corrisponde all’autorità e l’ideale dell’Io al modo in cui il soggetto deve comportarsi per corrispondere all’attesa dell’autorità». Tenuto conto di ciò si rivela il paradosso per cui più compri più hai bisogno di spendere o più obbedisci più hai bisogno di provare di essere all’altezza.
Consideriamo il Prada Flagship store di Rem Koolhaas[11], ultimato nel 2000 a New York. Di questo progetto, costruito su due livelli congiunti da una “grande onda” rivestita di legno e da un ascensore, colpisce il suo carattere scarsamente funzionale. L’onda è concepita come una zona di transito dove si può e si deve sostare: durante il tragitto, infatti, le persone si ritrovano davanti modelli di scarpe casualmente disposti (anche se il piano di vendita è al livello inferiore), o gabbie pendenti con all’interno modelli di abiti: qui chiaramente emerge l’affinità dell’ideologia con la verità, visto che né Prada né Koolhas smentiscono l’analogia weberiana del capitalismo con le gabbie d’acciaio; la parte finale dell’onda apre su uno spazio dove è possibile imbattersi in diverse tipologie di eventi perché concepito come area destinata ad ospitare differenti performances. Lo stesso uso della tecnologia si rivela semplicemente estetizzante più che funzionale; l’ascensore che, infatti, collega i due livelli viene scarsamente usato dai clienti (che invece prediligono la camminata) a dispetto della sua posizione assolutamente visibile da entrambe le aperture: da questo punto di vista il tecnologico incarna bene la tipologia di prodotto in vendita in questo tipo di shop: non chiedere mai quanto sia costato e a cosa serve, ma solo se per te è bello. Se un edificio incarna la possibilità di rendere concreto qualcosa che prima era nascosto anche alla vista, questa ‘apparenza’ non è falsa, ma vera proprio perché struttura il modo in cui si manifestano le relazioni sociali: che i marchi di alta moda siano afferrabili da chiunque esprime bene la realtà sociale per cui veramente crediamo di dover fare determinate esperienze sensibili per rendere la nostra giornata fatta di momenti riusciti. Da questo punto di vista un edificio può essere strutturato per incarnare uno spazio inclusivo che annulla ogni forma di antagonismo perché, in ultima analisi, è già un miracolo che tutti possiamo conoscere e accedere a forme che riproducono ciò che cinquanta anni fa era profondamente elitario; ed è, di conseguenza, necessario accettare che questo miracolo veda qualcuno in posizione privilegiata: quel qualcuno è solo più bravo o più fortunato, ma l’importante è esserci. Questi spazi polifunzionali privati e pubblici, autentico fiore all’occhiello delle principali città mondiali, hanno un accesso filtrato – alcune aree hanno tickets, alcuni luoghi pubblici hanno servizi con prezzi nettamente superiori agli stessi servizi in altri luoghi della città – nonostante vengano sempre presentati come spazi della città e, come tali, pensati per tutti. Tanto che questa apertura selettiva sembra essere la frontiera della nuova aristocrazia democratica; l’importante non è tanto la mostra, la conferenza o la sfilata che possono tenersi in alcuni spazi all’interno di questi contenitori sociali, quanto la vita sociale che si può fare passando da uno spazio all’altro: io ci sono. Pensiamo ai luoghi concepiti per la musica: Karlheinz Stockhausen predispose ad Osaka nel 1970, per l’Esposizione mondiale, una sala da concerto sferica trasparente al suono[12]. La piattaforma consisteva in una griglia di metallo, con tre cerchi di microfoni al di sotto e quattro cerchi al di sopra. Tutti i solisti erano disposti su dei balconi sospesi intorno e sopra la piattaforma, il loro suono veniva catturato dai microfoni e inviato ad un mixer da cui il suono poteva essere indirizzato in qualsiasi direzione e con cambi di intensità: uno spazio di ascolto in cui il visitatore poteva stazionare o muoversi cambiando in questo modo fonte sonora, il proprio rapporto col corpo, e il livello di coinvolgimento estetico. Nato come luogo per una diversa disciplina dell’ascolto questa tipologia di spazio si è poi realizzata nei decenni successivi in molti edifici polifunzionali pieni di musica in ogni ambiente, ma sono diventati il format di un consumismo generalizzato in cui si passa da un ambiente all’altro senza poter metabolizzare i passaggi, e questo perché prima e dopo non c’è stata né ci sarà alcun ascolto disciplinato. Seguendo Foucault[13] dobbiamo chiederci se questi artefatti architettonici creino dei luoghi comuni per gli esseri che li attraversano, se riescano a stabilire dei rapporti con un minimo di stabilità tra i segni e ciò che designano; nel caso contrario avremmo solo dei frammenti sparpagliati che svuotano ogni rappresentazione legata ad un ordine delle cose, ovvero l’aspetto inquietante delle “eterotopie”. A differenza dell’utopia, infatti, la quale permette di concepire uno spazio meraviglioso, le eterotopie possono aggrovigliare “i luoghi comuni”[14] e non consentono di pensare i rapporti tra le cose: dove ciò accade, il senso stesso del nostro rapportarci a queste cose sprofonda. Ma possono anche aggrovigliare i luoghi, osserva Foucault, in modo da sfumare le distinzioni tra utopie ed eterotopie; possono, cioè, manifestare la realizzazione nello spazio sociale vissuto di luoghi che permettono, seppur temporaneamente, di sperimentare la realizzazione di una pratica di vita che perturba la struttura di uno spazio già noto: si pensi all’esempio precedente di Stockhausen o allo straordinario resoconto degli elementi di design che lo scrittore D.F. Wallace fa del modo in cui una nave diventa lo spazio progettato per strutturare il divenire di uno spazio collettivo di divertimento[15].
Il gesto architettonico, o “la modernizzazione dei poveri”[16]
Quando Eisenmann cercò di prendere le distanze da Derrida, gli fece notare che la decostruzione della dialettica presenza/assenza è del tutto inadeguata in architettura: in architettura c’è un’altra condizione che io chiamo presentness (presentezza), che non è né assenza né presenza; né forma né funzione; né un particolare uso del segno, né la cruda esistenza del reale; piuttosto un’eccedenza, posta tra il segno e la nozione heideggeriana di essere – la mia architettura non può essere ciò che dovrebbe essere, ma ciò che può essere[17].
Con un percorso molto diverso Zizek segnala un elemento affine riprendendo il concetto di “pennacchio” utilizzato in architettura e biologia per designare la classe di forme e spazi che si presentano come sottoprodotti necessari di un’altra decisione nel progetto, e non come adattamenti di utilità diretta in se stessi. Questi spazi interstiziali ci rammentano l’enorme responsabilità etico-politica dell’architettura: nella progettazione è in gioco molto di più di quanto possa sembrare[18].
In entrambi i casi l’attenzione cade sul fatto che l’architetto compie una serie di atti sociali, nel senso che le condizioni dell’autonomia dell’architettura si sviluppano in dialogo o in dissidio con le strutture politiche e sociali in cui operano; da questo punto di vista il gesto architettonico si manifesta sempre come qualcosa che si inscrive in un codice e, allo stesso tempo, ha qualcosa di singolare ed irripetibile. Che il discorso architettonico debba assumere piena consapevolezza delle proprie implicazioni politiche e filosofiche è un’esigenza manifestatasi con particolare chiarezza negli ultimi decenni anche se, è bene dirlo, in modi non sempre adeguati. Le due figure paradigmatiche di questo incontro tra discipline – Derrida ed Eisenmann – ebbero così tante incomprensioni da spingere il primo a definire il loro rapporto né in termini di collaborazione, né di scambio, “piuttosto una doppia parassitaria pigrizia”[19]. Non meglio era andata qualche anno prima tra Lyotard e Jencks. Quest’ultimo aveva pubblicato nel 1978 la bibbia del postmoderno architettonico, rivendicando per l’architettura una connotazione linguistica poiché veicola dei significati. L’architettura postmoderna era per lui l’esito del fallimento del razionalismo e del funzionalismo dello stile internazionale in cui si era ingessato il movimento moderno, tanto da essere esplicitamente accusato di elitarismo; l’uomo moderno immaginato dagli architetti, osservava Jencks, esisteva solo nella loro testa. Occorreva recuperare la capacità di saper parlare a tutti, comprendendone lo stile di vita, gli aspetti tradizionali delle loro culture, etc… È chiaro che qui riecheggiava quanto già Fiedler e Sontag avevano detto negli anni sessanta a proposito della letteratura americana. In questo modo l’architettura si apriva ad una pluralità di codici culturali in senso ampio, facendo dell’eclettismo la capacità di saper aderire ai diversi contesti. Jencks conosceva la Condizione postmoderna di Lyotard, ma aveva accusato il filosofo francese di essere un semplice sostenitore di un nuovo mondo tecnocratico; possibile? Lyotard aveva, proprio nel primo capitolo del suo pamphlet, avanzato l’ipotesi che in una società informatizzata cambiasse la natura del sapere, ma non aveva indicato un rapporto di causa-effetto; e infatti subito dopo aveva iniziato a porsi il problema della legittimazione delle scienze. Lyotard osservava che i grandi metaracconti moderni, cioè quelli universalizzanti e totalizzanti che finalizzavano tutte le condotte umane (idealismo, illuminismo, socialismo, etc…) non avevano più alcuna validità. Le stesse scienze dure erano andate incontro, all’inizio del ‘900, ad una crisi interna dopo che la relatività e il principio di indeterminazione avevano profondamente alterato la certezza della verità. La condizione postmoderna è esattamente la condizione di tutti i saperi, nel momento in cui non trovano più il loro posto in un discorso legittimante universale che ricostruisce tutte le sfaccettature della verità; di fronte ai saperi, ormai, bisogna solo chiedersi se sono efficaci oppure no in base alle regole che si sono dati. Da qui la “guerra” che Lyotard proclama a tutti i discorsi inglobanti. Occorre, invece, salvaguardare i dissidi, testimoniare dell’impresentabile. In campo artistico ciò implica per Lyotard la necessità di reinventare continuamente i codici di ogni pratica artistica, proprio perché nessuno stile o corrente possono pretendere di avere la parola definitiva. Se, dunque, Jenks metteva l’accento sulla necessità di riportare in superficie tutti gli aspetti della memoria storica – era questo il senso del suo eclettismo architettonico -, lo sguardo di Lyotard andava verso la continua ricerca del nuovo, di una sperimentazione incessante.
In un’intervista del 2015 su Artribune Koolhas ha dichiarato di essere stato molto più vicino a filosofi come Lyotard e Latour che agli architetti che lo invitarono alla sua prima Biennale nel 1980, quella che programmaticamente portò il postmoderno architettonico americano alla conquista dell’Europa. Ed infatti in questa intervista ricorda con molto più piacere la partecipazione alla mostra Les Immaterieux nel 1985 al Centre Pompidou, accanto a molti pensatori francesi dell’epoca. Koolhas afferma, a ragione, che questa mostra lo affascinò perché “non aveva niente a che fare con la materia e la sostanza- si trattava di pensiero-”. Che tipo di pensiero? Mostrerò che
Koolhas è molto più vicino a Latour che a Lyotard e che, rispetto a quest’ultimo, mette in campo una più lucida consapevolezza degli effetti in campo architettonico della concettualità postmoderna. L’immateriale della mostra è un materiale la cui essenza è linguistica in senso generale, in molti casi un codice numerico. Questo radicale cambiamento nello statuto della materia ci permette di considerare lo scarto rispetto alla tradizione metafisica precedente, in cui la materia era un dato che l’uomo si trovava davanti e che l’affettava nei modi previsti dalle categorie dell’intelletto e dagli schemi dell’immaginazione. Poiché l’immateriale non è già dato come la vecchia materia, ma prodotto da un apparato tecno-scientifico, allora tutta la realtà che ne deriva può essere considerata l’esito di una produzione senza resto, del tutto trasparente, proprio perché deriva da dei dati intellegibili, programmati. In secondo luogo l’idea stessa di paternità in rapporto a un prodotto materiale si attenua, perché questi modelli generativi automatici possono operare con la stessa matrice in contesti e progetti del tutto diversi, e tendono spesso a considerare chi ne fa esperienza come una variabile che interagisce con gli elementi del progetto. Prendiamo l’installazione Le double plateau di Buren al Palazzo reale di Parigi nel 1985[1]; c’è uno strumento programmato per produrre, in modo del tutto anonimo e senza alcuna intenzionalità, delle bande verticali bianche e nere che si applicano a qualsiasi tipo di contesto materiale pre-esistente: una piazza, una facciata, etc… . Abbiamo così una matrice tecno-scientifica, non legata a nessuno spazio in particolare e potenzialmente a nessun autore, ma programmata per intervenire su qualsiasi supporto: è il trionfo del trans-individuale, il ritorno ad un sistema massivo che cerca di conciliare varietà e ripetizione. In questo modo il senso della postmodernità consisterebbe nella condizione in cui qualsiasi messaggio- sia esso una frase, un edificio, un’immagine, etc…- non viene né considerato come l’effetto di una causa pre-individuale che ci precede, ci ingloba e in qualche modo ci predestina a ricevere il messaggio, né come qualcosa la cui paternità sia chiaramente individuabile: qui la postmodernità rischia di essere qualcosa di molto vicino all’essere heideggeriano. Nel testo che Lyotard presenta per questa mostra osserva che questa nuova corrente di pensiero ci insegna che “l’uomo non deve considerarsi né come un origine né come un risultato, ma come un tasformatore che assicura […] un supplemento di complessità nell’universo”[2]. L’anno successivo, al Convegno Nuove tecnologie e trasformazione dei saperi organizzato dall’Ircam e dal Collége international de philosophie, esplicita in che senso la tecno-scienza contemporanea esprima una potenza di sintesi all’opera sul pianeta nel suo insieme, e come lo spazio umano non sia affatto il beneficiario di questa potenza, ma solo il tramite: “bisognerà riprendere l’analisi, direi metafisica e ontologica, del capitalismo”[3], per porsi il problema delle direzioni in cui “ricostruire”; mentre per molta architettura contemporanea non c’è nessun problema nell’avere un’architettura regolamentata dall’economia di mercato, per Lyotard la cosa da pensare è proprio questa; inoltre non c’è mai nel filosofo l’attitudine riconciliante verso il passato che c’è in Jencks. Lyotard, invece, nell’ultimo intervento richiamato non tradisce la sua radicale concezione di postmoderno: “si tratta […] di abbandonare le sintesi già stabilite, non importa di che livello siano, logiche, retoriche ed anche linguistiche, e di lasciar lavorare in maniera liberamente fluttuante ciò che accade, cioè il significante, per quanto insensato possa apparire”[4].
Latour è molto più in sintonia con Koolhas. Il pensatore francese mette in evidenza la centralità assunta negli ultimi anni dal termine design[24], tanto da fargli dire che esso ha del tutto sostituito il termine rivoluzione: nessuno, ormai, propone di ricominciare da zero, ma per ogni situazione o oggetto si tratta di riprogettare a partire da ciò che è. Il concetto di design ha ormai un’estensione che era inimmaginabile fino a pochi decenni fa. Oggi il termine si applica a qualsiasi cosa: si può fare il design di una costa, di una città, di un sito ovviamente, a tutti gli oggetti che popolano la nostra esistenza. Non è più possibile distinguere tra funzione e design, che si tratti di un edificio, di un telefono, o delle nanotecnologie, il design è entrato prepotentemente a definire ogni aspetto della progettazione. Va da sé che l’applicazione del design ad ogni ambito ci autorizza a chiederci, per qualsiasi cosa, se è stato progettato bene o male, anche se quest’aspetto non viene problematizzato in modo convincente. Latour si augura che la grande conquista di questo nuovo idioma, la cui incarnazione filosofica viene giustamente attribuita a Sloterdjik (superamento della vecchia distinzione moderna tra “materie di fatto” e “materie in questione”) conduca alla capacità di esplicitare tutti gli effetti e i concatenamenti che una data riprogettazione in un ambito può avere in contesti del tutto diversi e apparentemente slegati, a partire ovviamente dalle pressanti questioni ecologiche. Ma è possibile porre il problema di come aumentare, grazie alle tecnologie, il livello di consapevolezza globale su queste questioni e i loro intrecci senza porre la questione delle enormi disuguaglianze distribuite a tutti i livelli sociali? Questione che ritorna in modo cinico nella produzione teorica di Rem Koolhaas; cinica perché parliamo di uno dei grandi protagonisti dell’architettura mondiale degli ultimi tre decenni e che, quasi parallelamente, ha sviluppato una capacità di descrizione e narrazione della stessa produzione architettonica con accenti apocalittici. Quello che Foucault aveva intravisto con il termine eterotopia viene teorizzato in rapporto all’architettura con il termine Junkspace[6]. Questo termine, di cui Koolhaas ha preteso il copyright, giunge al termine di una riflessione che ha attraversato gli anni novanta, e che lo ha visto esplicitare una serie di questioni inerenti alle tendenze dell’architettura moderna compendiate prima intorno al termine Bigness, poi quello di Città generica e infine, nel 2001, con un saggio apparso in un volume collettaneo, Guide to shopping, e intitolato appunto Junkspace. Quando Koolhaas teorizza la bigness, spinto dalla consapevolezza che le grandi dimensioni dei complessi architettonici (come aereoporti, stazioni, o centri commerciali) impongono all’architetto la necessità di formulare la grandezza teoricamente, per poter capire come gestirla e utilizzarla, è netto nell’affermare che l’accumulazione di queste strutture trasforma la città fino a renderla “una rivoluzione senza programma”, in cui nuovo e vecchio si fronteggiano senza far parte di alcuna narrazione condivisa: “un nebuloso impero di indistinzione che confonde l’alto e il basso, il pubblico e il privato […] per offrire un ininterrotto patchwork di ciò che é perennemente disarticolato”[7]. La disarticolazione è una chiave di analisi che rende penetrante il modo in cui l’architetto olandese esprime il suo disappunto verso gli esiti della postmodernità, denunciando sia i risultati scadenti raggiunti da ciò che Lyotard aveva esaltato sul piano teorico, ovvero la ricerca del nuovo, “la libera fluttuazione del significante”, sia la presunta capacità creativa di aderire al contesto ricercata da Jencks. Quando Koolhaas, infatti, riflette sulla condizione globale delle città non manca di notare come i tentativi parossistici di trasformare il tessuto urbano mostrando una identità storica abbiano finito col depauperare la storia di ogni significatività, fino a produrre “uno stato ipnotico fatto di esperienze estetiche quasi impercettibili”[8]. Junkspace è l’estenuazione epigonale della ricerca del nuovo che ha ossessionato parte della recente produzione architettonica. Il saggio Junkspace ha il ritmo incalzante di una confessione in cui Koolhaas sembra tanto il penitente quanto il confessore:
il junkspace sarà la nostra tomba. Metà dell’umanità inquina per produrre, l’altra metà inquina per consumare […].
Il junkspace è politico: dipende da una rimozione centrale della facoltà critica in nome del comfort e del piacere[9]
Gli architetti per primi pensarono al junkspace nominandolo megastruttura; tra l’altro, osserva Koolhaas, il nominare è la nuova attività per il rinnovamento sociale una volta che la lotta di classe è entrata a far parte dell’antiquariato. Il sogno postmoderno era quello di garantire, attraverso l’idea di megastruttura, l’incontro tra frammenti differenti, uno spazio per tutti i codici culturali, in realtà ha prodotto “la fine improvvisa di un sistema, lo stallo”[29].
[1] Cfr. J.F. Lyotard, Domus e la megalopoli, in L’Inumano, Lanfranchi 2001, pp. 239-253.
[2] F. Nietzsche, Così parlo Zarathustra, Prologo, Adelphi 1986.
[3] P. Sloterdijk, Sfere III, Raffaello Cortina 2015, p. 509.
[4] R. Koolhaas, Bigness, in Junkspace, Quodlibet 2006, pp. 33-35.
[5] L. Althusser, Elementi di autocritica, Feltrinelli, 1975, p. 48.
[6] Mi permetto di rinviare, per l’approfondimento di questi aspetti, a M. Autieri, Ideologie trainanti: produttività, piattaforme, economia libidinale, goWare, Firenze 2019 (in particolare cap. 2 e 4).
[7] R. Koolhaas, Delirious New York, Electa, Milano 2001.
[8] Ibid., p. 200.
[9] J.F. Lyotard, Economia libidinale, PGRECO edizioni, Milano 2012, p. 101.
[10] Cfr. J. Laplanche, J.B. Pontalis, Enciclopedia della psicoanalisi, Laterza 1993 , vol.1, p. 227.
[11]Cfr. D.J. Huppatz, Miuccia Prada/OMA/Rem Koolhaas: Prada Store: http://djhuppatz.blogspot.com/2009/08/muiccia-pradaomarem-koolhaas-prada.html
[12] Cfr. K. Stockhausen, Sulla musica, postmediabooks 2014, p. 114.
[13] M. Foucault, Il corpo utopico e Le eterotopie, in Utopie Eterotopie, Cronopio, Napoli 2006.
[14] Id., Le parole e le cose, BUR 2009, p. 7.
[15] Mi riferisco al reportage intitolato Una cosa divertente che non farò mai più, Minimumfax 2017.
[16] “Invece che una coscienza, come i suoi inventori in origine possono aver sperato, (la città generica) crea un nuovo inconscio. È la modernizzazione dei poveri”. R. Koolhaas, La città generica, in Junkspace, Quodlibet 2006, p. 54.
[17] P. Eisenman, A Reply to Jacques Derrida, in Written into the Void, Selected Writings 1990-2004, introduction J. Kipnis, New Haven & London, Yale University Press, pp. 1-4.
[18] S. Zizek, Il parallasse architettonico. Pennacchi e altre forme di lotta di classe, in Il trash sublime, Mimesis, Udine 2013, p. 76-77.
[19] Cit. in P. Bojanić e V. Đokić, La filosofia architettonica, tr.it. di Autieri M., in “Rivista di estetica”, n.58, 2015, pp. 81-88, nota 2.
[20] Cfr. J.L. Déotte, «Les Immatériaux de Lyotard : un programme figural», mis en ligne le 09 mars 2009: http://journals.openedition.org/appareil
[21] J.F. Lyotard, Materia e tempo, in L’Inumano, cit., p. 68.
[22] Id, Logos, techne o la telegrafia, in L’inumano, cit., p. 76.
[23] J.F. Lyotard, Logos, techne o la telegrafia, in L’inumano, cit., p. 82.
[24] B. Latour, Un Prometeo cauto? Primi passi verso una filosofia del design, in “EIC”, n.3/4, 2009, pp. 255-263.
[25] “il Junkspace è la somma delle nostre attuali conquiste […]. L’essenza del junkspace è la continuità; il junkspace sfrutta ogni invenzione che rende possibile un’espansione […]: scale mobili, aria condizionata, sprinkler, porte tagliafuoco, lame d’aria…”; R. Koolhaas, Junkspace, op.cit., p. 64.
[26] Ivi, Junkspace, cit., p. 66.
[27] Id., Bigness, cit., p. 33.
[28] Id., Junkspace, cit., p. 83.
[29]Ivi, p.71.L’altro aspetto interessante, che richiede una trattazione a parte, è la vicinanza di Koolhaas a Deleuze –cosa che lo stesso architetto dichiara esplicitamente-. Quando in Mille piani Deleuze e Guattari affermano che quei flussi che hanno conosciuto un modo di stare nello spazio senza delimitazioni – “spazi lisci”-, possono tornare a dipendere da forme stratificate di potere che si caratterizzano proprio per il fatto di coesistere con ciò che, in termini assoluti, oltrepassa i limiti degli apparati di Stato, dicono qualcosa che Koolhass riprende chiaramente quando scrive ad es.: “il junkspace conosce tutti i tuoi desideri, le tue emozioni. Anticipa le sensazioni della gente”; Ivi, p. 84.