Porcile (1969) di Pier Paolo Pasolini presenta una marcata contrapposizione di spazi. Il film è infatti costituito da due episodi le cui vicende si alternano: in uno siamo in Germania, nel 1967, nella villa di ricchi industriali borghesi; nell’altro, invece, veniamo proiettati in un indefinito medioevo in cui si muove una banda di predoni che deruba e uccide le sue vittime.
La sontuosa villa di Godesberg della Germania contemporanea è stata ricostruita a Villa Pisani a Stra, in provincia di Venezia, mentre le sequenze relative al medioevo sono state girate sulle pendici dell’Etna.
In tali sequenze vediamo lande desertiche e brulle solcate dai ribollimenti magmatici, spazi desolati connotati da scarsa vegetazione nei quali si muove il personaggio del cannibale interpretato da Pierre Clementi. Lo spazio della Germania degli anni sessanta, invece, è costituito da rigide geometrie che serrano i personaggi come in una morsa. In essa vige l’ordine legato ad un oscuro potere direttamente connesso agli orrori del nazismo: fra i borghesi (il signor Klotz, interpretato da Alberto Lionello e Hans Guenther, interpretato da Marco Ferreri) spicca infatti il personaggio di Herdhitze (Ugo Tognazzi), il quale è in realtà un ex criminale nazista trasformatosi in ricco industriale.
La contrapposizione degli spazi mette in scena anche una pregnante opposizione di carattere sociale: il deserto astorico assume connotazioni “barbariche”, primitive, “pure”, legate a un contesto vitale e sottoproletario mentre lo spazio geometrizzato degli interni della villa e quello altrettanto geometrico del giardino rimandano all’universo della borghesia e al potere che da essa promana, portatore di morte e distruzione.
La valenza distruttiva dello spazio borghese, irrigidito in geometriche architetture, verrà portata agli estremi in Salò o le centoventi giornate di Sodoma (1975) in cui i repubblichini di Salò sottopongono a violente torture un gruppo di ragazze e ragazzi del popolo. Per mezzo del travestimento storico della Repubblica di Salò, il regista intende rappresentare metaforicamente l’abbruttimento apportato dalla civiltà dei consumi all’Italia degli anni settanta.
Del resto, si può ricordare come una marcata contrapposizione di spazi che delinea anche un’opposizione fra culture e società diverse sia ampiamente presente in altri film di Pasolini. Per esempio, in Edipo re (1967), i colori pallidi e glaciali del prologo borghese nella Casarsa degli anni venti si contrappongono alle tinte accese che connotano il deserto del mito in cui si muove Edipo (Franco Citti).
Gli spazi desertici che alludono alla Grecia antica sono quelli del Marocco e in essi il protagonista, nel suo peregrinare, incontra personaggi che vestono costumi sgargianti e che appartengono a un universo primitivo e barbarico.
Il deserto, in questo film, si contrappone anche alla geometrica spazialità borghese che connota il centro di Bologna in cui, nelle sequenze finali, Edipo cieco vagabonda accompagnato da Angelo (Ninetto Davoli).
In Teorema (1968), il deserto magmatico, simbolo del terribile perturbamento portato dall’Ospite (Terence Stamp) all’interno della famiglia borghese, entra in opposizione con lo spazio cereo e freddo della villa, delle vie di Milano e della periferia industriale che, all’inizio del film, vediamo in sequenze atone e virate al seppia. Il deserto nel quale, alla fine, si incamminerà il personaggio del padre (Massimo Girotti) ormai “sedotto” dall’Ospite, agisce come un vero e proprio elemento sovvertitore, un magma ctonio e oscuro pronto a sommergere l’ordine e il vuoto rigore della classe borghese.
Anche Medea (1970) presenta una significativa opposizione di spazi. Nella fattispecie, qui, è il mondo ctonio e barbarico della Colchide, da dove proviene Medea, a entrare in contrasto con gli interni della reggia di Corinto, in Grecia, rappresentati sullo schermo per mezzo delle lucide e ordinate architetture della Piazza dei Miracoli di Pisa. L’arcaica spazialità colchica, caratterizzata da linee curve e sinuose, si contrappone alla rigidità geometrica degli spazi della Grecia.
Anche in Medea, il contrasto investe significativamente la sfera sociale e culturale: si realizza infatti un vero e proprio conflitto di culture fra l’universo di Medea, barbarico, quasi rappresentante di un paese del Terzo Mondo e quello di Giasone, “borghese” e illuminista, che pretende di imporre dovunque il suo razionale dominio.
In Porcile, lo spazio desertico è solcato da un gruppo di personaggi nomadi e sovvertitori dell’ordine: il cannibale e la sua banda di predoni.
Essi, nelle loro scorribande, non conoscono lo spazio rettilineo e “inscatolato” della villa di Godesberg all’interno del quale si muovono i personaggi borghesi.
Il cannibale, vero e proprio personaggio barbarico, agisce quasi come una “macchina da guerra nomade”, secondo la definizione di Deleuze e Guattari. Secondo i due studiosi, “il nomade si distribuisce in uno spazio liscio, occupa, abita, tiene tale spazio ed è questo il suo principio territoriale”. Così, il cannibale e la sua banda abitano e tengono lo “spazio liscio” delle lande in cui si spostano come veri e propri ‘nomadi’ sovvertitori dell’ordine costituito.
Lo spazio della villa di Godesberg ritaglia invece oscuri cunicoli e rigide simmetrie. All’interno della villa e del giardino, i personaggi sono costretti a percorrere lunghi corridoi e percorsi obbligati seguendo linee geometriche che non lasciano via d’uscita. Julian (Jean-Pierre Léaud) e Ida (Anne Wiazemsky), inoltre, per parlarsi, si dispongono spesso in pose simmetriche, quasi delle pose teatrali che li trasformano in irrigidite e meccaniche marionette.
Julian, figlio del ricco industriale Klotz, è probabilmente l’unico personaggio borghese che riesce a sfuggire alla geometricità delle strutture che imprigionano lo spazio di Godesberg. In una sequenza, infatti, sottraendosi al percorso cunicolare e scandito che lo costringe vicino alla fontana durante la sua passeggiata nel giardino con Ida, lo vediamo attraversare lo spazio del giardino secondo una linea ondulata, serpentina, antitetica alla rigidità geometrica, per dirigersi verso il porcile, oggetto del suo amore proibito.
Egli, figlio né ubbidiente né disubbidiente, alla fine sarà condannato a essere divorato dai maiali, eliminato, quindi, dalla classe borghese industriale legata con un doppio filo rosso agli orrori nazisti.
Allo stesso modo, nell’ambientazione del medioevo, il cannibale, il barbaro sovvertitore totale, viene condannato a morte da un potere cattolico e oscurantista, latore di una sentenza le cui parole incomprensibili vengono ricoperte dall’ossessivo rintocco delle campane.
Come già accennato riguardo a Teorema, anche in Porcile il deserto magmatico sembra pronto a ricoprire e distruggere lo spazio ordinato e geometrico della borghesia.
All’inizio del film viene inquadrata una lapide sulla quale sono incise le parole di condanna rivolte dal signor Klotz al figlio Julian: “Interrogata ben bene la nostra coscienza / abbiamo stabilito di divorarti / a causa della tua disubbidienza”.
Mentre risuonano le parole di Klotz sta soffiando un vento violento e incessante, che sembra provenire da oscure profondità ctonie. La lapide, conficcata nel terreno all’interno di un deserto barbarico, è esposta a raffiche di vento che sembrano voler annientare il rigore geometrico e teatrale delle parole del ricco borghese. È il vento barbarico che sta soffiando, un vento pronto a investire e annientare la ricca società borghese occidentale, quello stesso che irrompe nel deserto africano rappresentato da Pasolini in Frammento alla morte (componimento appartenente a La religione del mio tempo) come “unica mia alternativa” (“E ora… ah, il deserto assordato / dal vento, lo stupendo e immondo / sole dell’Africa che illumina il mondo. / Africa! Unica mia / alternativa………..”).
La natura, vilipesa e sfruttata, sottoposta al giogo del dominio, per mezzo del vento e di un oscuro magma annientatore sembra perciò rivoltarsi al logos sanguinario della dominazione borghese. Sotto le parole di Klotz sta esplodendo una vera e propria apocalisse forse proveniente dai barbarici deserti di paesi lontani, nello stesso identico modo in cui il deserto irrompeva a tratti nell’apparente ordine della famiglia di Teorema.
I due spazi del film sono connotati anche da due dimensioni sonore estremamente diverse: all’interno delle geometrie della villa di Godesberg domina una vuota ripetizione in serie della parola, contratta nei suoi rutilanti ritmi dominati da macabre espansioni giocose mentre l’ambientazione del medioevo è connotata da un arcaico silenzio rotto soltanto dai suoni ferini e tellurici della natura.
I personaggi borghesi si esprimono mediante parole svuotate di senso, un logos ripetuto e coercitivo come generato da una catena di montaggio della parola, espanso fino al dissolvimento semantico. Se Julian e Ida comunicano in un perfetto italiano netto e cristallino, teatralmente scandito, connotato da termini aulici e colti che si sfaldano in “interiezioni autoironiche” come “urrah” o “trallallà”, i ricchi industriali Klotz e Herdhitze si esprimono per mezzo di una parola lucida e razionale che cerca di rendere narrabile l’inenarrabile e cioè gli orrori degli esperimenti medici all’interno dei campi di sterminio nazisti.
La razionalità delle loro parole sembra poter sussistere solamente insieme allo scherzo e alle distorsioni comiche di cui intessono i loro dialoghi, i quali appaiono così rivestiti di una patina di ironica leggerezza e di umorismo. Ma si tratta, comunque, di una leggerezza e di un umorismo mostruosi perché nell’altra faccia della razionalità illuministica che i borghesi pretendono di rappresentare si celano gli orrori dello stesso sistema basato sulla merce e sul valore. Klotz, Hans-Guenther e Herdhitze parlano di orrori nazisti come se stessero parlando di affari commerciali, di fusioni fra industrie e produzione di “lana, birre, bottoni”.
Secondo l’analisi di un lucido studioso della contemporaneità come Robert Kurz, dietro la modernità illuministica si celano faglie di sangue e distruzione: la logica razionale basata sul valore e sulla merce elimina inesorabilmente l’altro da sé, il non produttivo, l’immigrato, l’emarginato. E così, dietro la parola razionalmente scandita dei ricchi industriali di Porcile si celano i terribili orrori inflitti ai diversi e agli “altri da sé” durante il nazismo e, da ultimo, l’eliminazione del diverso ed emarginato Julian.
L’ambientazione del medioevo è invece connotata da un silenzio arcaico il quale rappresenta l’espansione di un universo sacro e fuori dal tempo, attraversato dai borborigmi magmatici e dalle espressioni più dirompenti della natura. Il cannibale e la sua banda esprimono un silenzio crudele che connota i loro movimenti come tanti attacchi contro il potere oscurantista che cerca di catturarli ma anche contro lo stesso dominio razionale della borghesia industriale degli anni sessanta.
Il cannibale pronuncia le sue uniche parole mentre viene condannato al supplizio, ripetute come in una formula sacrale: “Ho ucciso mio padre, mangiato carne umana, tremo di gioia” .
La ripetizione della frase, che avviene entro uno spazio scenico naturale e aperto, attraversato soltanto dai brontolii tellurici e dal sibilo del vento, è il segno del sacro che rompe la mostruosità e il vuoto della parola borghese.
Eppure, non tutte le parole pronunciate nell’ambientazione della villa sono caratterizzate da una vacua ripetizione e da una chiusura nei corridoi-tunnel e nei reticoli del giardino. Le parole dei contadini, infatti, sfuggono alla costrizione geometrica dello spazio: in quanto non borghesi, essi possono liberare una voce intrisa di afflato poetico e di vera malinconia, estranea all’ironia e alla battuta fine a se stessa che caratterizzano la classe borghese.
I contadini entrano in scena nel bel mezzo della fatuità di una festa, nel momento in cui si celebrano i fasti della mostruosa “fusione” industriale fra Klotz e Herdhitze. Le parole pronunciate nei loro monologhi, prima dal vecchio Wolfram e poi da Maracchione (Ninetto Davoli), un contadino di origine italiana, rompono la catatonica rigidità dello spazio di Godesberg. Se la voce di Wolfram è connotata da arcaiche tonalità rivestite di saggezza, quella di Maracchione, caratterizzata da un accento meridionale, è la voce dell’innocenza e della verità. Le sue parole si espandono come una fluida e catartica poesia negli androni della villa e rappresentano quasi delle falde di resistenza di fronte alla mostruosità e alla fatuità dei borghesi e dei loro modi sprezzanti nei confronti di una classe sociale inferiore.
Alla fine, sembra vincere il silenzio: imposto da Herdhitze riguardo alla scandalosa fine di Julian, divorato dai maiali ma, quasi, anche sorto per effetto della voce innocente di Maracchione. Un silenzio venato di poesia e di arcaica sacralità che zittisce una volta per tutte le fatue marionette borghesi, quelle ridicole e mostruose macchine per parlare.