Nota su Al di là del principio di piacere
Quelli che appaiono
Freud, Al di là del principio di piacere
come custodi della vita
sono stati
in origine
guardie del corpo della morte
A rimetterci la pelle, e l’identità, in seguito alla scoperta dell’al di là del principio di piacere, è il piacere stesso. Dopo il ’20, da un punto di vista psicoanalitico, esso resta privo di una definizione, perché quella classica, e fechneriana, messa in campo da Freud sin dai tempi del suo Progetto per una psicologia scientifica non è più praticabile. Il piacere come scarica o diminuzione della tensione ha mostrato la sua parentela con la morte o, a dir meglio, con quella pulsione di morte intravista da Freud al cuore di ogni organismo[1].
Si è detto variamente come il testo del ’20 sia un libro la cui funzione è, soprattutto, decostruttiva[2]. Si tratta, in modo particolare, di indeterminare le opposizioni classiche. In primo luogo, quella tra vita e morte. Poi quella tra piacere e dispiacere. Eppure, questa indeterminazione non è un obiettivo scientemente perseguito da Freud. La sfumatura tra i contrari è, bensì, l’effetto inatteso delle nuove evidenze offerte dalla clinica dei reduci di guerra. I loro sogni, com’è noto, intaccano la tesi per cui la funzione onirica è una funzione di appagamento del desiderio inconscio in quanto, a tornare in essi, è proprio l’evento traumatico denunciato come fonte di sofferenza nello stato di veglia.
Questo è un caso, tra tanti, in cui lo spiacevole si congiunge enigmaticamente a un piacere, che è, anzitutto, piacere della ripetizione dello spiacevole. Ve ne sono altri, tuttavia, in cui è il piacere, la sua ricerca, a mostrarsi solidale con la produzione di dolore. Presi assieme, essi rivelano che il dualismo pulsionale di Eros e Thanatos non è se non la cristallizzazione di una differenza di ritmo: quella differenza minima postulata, ad esempio, da Nietzsche, tra il cielo e la terra, il mezzogiorno e la mezzanotte. Di qui l’andamento claudicante – “zoppicante” è il termine scelto da Freud – di Jenseits der Lustprinzip: un andamento che segue come una logica conseguenza proprio da quel piacere del cui principio si cerca un oltre.
Lust, in tedesco, significa infatti sia dispiacere che piacere. Sicché, come alcuni psicoanalisti suggeriscono[3], la traduzione italiana del titolo del lavoro di Freud, è imprecisa. Bisognerebbe dire: al di là del principio di piacere-dispiacere o, per essere più icastici, “al di là del principio della loro ambiguità”. Il piacere, sintetizzando, è già da sempre altro da sé, già da sempre dispiacere. Pertanto, ciò che occorre chiedersi è cosa vi sia al di là di questa polarità e dell’incessante conversione degli estremi che la caratterizza. Cosa fa – è la domanda di Freud – eccezione al principio che regola l’intera vita psichica? Ed è di un’eccezione che si tratta, in fin dei conti?
Nel suo strepitoso saggio dedicato a Sacher Masoch, Deleuze sconfessa quest’ultimo punto. L’al di là, spiega, non fa segno a nessuna eccezione al principio di piacere.
Tutte le apparenti eccezioni che [Freud – NdA] cita: il dispiacere e le deviazioni che la realtà ci impone; i conflitti che trasformano quel che è piacere per una parte, in dispiacere per un’altra; i giochi con cui cerchiamo di riprodurre e di dominare un avvenimento spiacevole; e perfino i disturbi funzionali o i fenomeni di transfert (…) tutte queste eccezioni sono citate come apparenti, e realmente conciliabili con il principio di piacere. In breve, non vi è eccezione al principio di piacere, sebbene vi siano singolari complicazioni del piacere stesso[1].
A quest’altezza, secondo Deleuze, inizia il problema. Se, difatti, nulla contraddice il Lust-Prinzip, se tutto si armonizza con esso, questo non vuol dire che esso possa rendere conto di ciò che ne complica l’applicazione. “Se tutto rientra nella legalità del principio di piacere, non significa che tutto ne derivi”[2]. Perciò, ed è la conclusione di Deleuze:
“bisogna dire che il principio di piacere regni su tutto ma non governi su tutto. Non vi sono eccezioni al principio, ma vi è un residuo irriducibile al principio; non vi è nulla di contrario al principio, ma vi è qualcosa di esterno e di eterogeneo al principio”[3]
Un al di là appunto. Per chiarire la natura di questo strano eccesso occorre, secondo Deleuze, impiegare la riflessione filosofica e distinguere tra il principio – ciò che governa un ambito – e la sua condizione trascendentale di effettività – ciò che sottomette l’ambito al principio. Quel che bisogna trovare, quindi, è:
un altro tipo di principio, un principio di secondo grado, che renda conto della necessaria sottomissione dell’ambito al principio empirico. Ed è quest’altro principio che chiamiamo trascendentale. Il piacere è il principio che regola la vita psichica.
Ma qual è l’istanza superiore che sottomette la vita psichica al dominio del piacere?[4]
Secondo Deleuze, Al di là del principio di piacere è il saggio in cui Freud penetra più direttamente nella riflessione trascendentale, ossia in quella riflessione in cui ne va “di un certo modo di considerare il problema dei principi”[8]. In effetti, la sfida di Freud non è, qui, scovare effrazioni alla norma del piacere quanto, piuttosto, assicurarne la fondazione. Ed è un problema speculativo, come Freud stesso riconosce cominciando il paragrafo quarto del testo, un problema la cui risposta o soluzione è: la ripetizione. Solo il legame dell’eccitazione può risolvere quest’ultima in piacere rendendo possibile la scarica. Ma questo legame e quella ripetizione antecedenti al piacere e alla sua instaurazione sono realmente, come sostiene Deleuze, espressione del solo lavoro di Thanatos?
Freud riconosce l’anteriorità del legame rispetto al piacere già nel secondo paragrafo: quello in cui è commentato il celeberrimo gioco del rocchetto. È la ripetizione – spiega – che converte il dispiacere dell’assenza della madre in piacere per la sua presenza ritrovata grazie a un lavoro di trasfigurazione simbolica, non il contrario. Non c’è, in altri termini, prima il piacere provato nel lancio dell’oggetto transizionale, e poi la ripetizione del gioco. Il legamento, spiega Freud inaugurando l’ultimo paragrafo, “è un atto preparatorio che introduce e assicura il dominio del piacere”[9] e, alla luce di ciò,
il principio di piacere diventa una tendenza che si pone al servizio di una funzione cui spetta il compito di liberare interamente dall’eccitamento l’apparato psichico, o di mantenere costante o quanto più basso possibile l’ammontare di eccitamenti in esso presente. (…) Il legamento del moto pulsionale sarebbe (…) una funzione preliminare che deve preparare l’eccitamento per la sua definitiva eliminazione nel piacere della scarica[10]
Dunque, ci sta qui dicendo Freud, se non c’è un legame dell’energia nella forma di una sintesi delle rapsodiche eccitazioni in cui tende a sussistere nel suo stato libero, non v’è alcun piacere possibile. Deleuze, però, si domanda in che modo la ripetizione possa intervenire al momento giusto – cioè al momento dell’eccitazione – se non fosse già intervenuta anche prima, “con un altro ritmo, un altro gioco (prima che l’eccitazione venga a spezzare l’indifferenza dell’ineccitabile, prima che la vita venga a spezzare il sonno dell’inanimato)”[11]. In che modo, detto altrimenti, l’eccitazione può essere collegata e risolta “se quella stessa potenza che la suscita non tendesse anche a negarla?”[12] Al di là di Eros – risponde Deleuze – Thanatos; oltre il legame, lo slegamento, o la dissoluzione.
Dietro il fondamento, il senza fondo. Dietro la sessualizzazione, la desessualizzazione. Quantunque poi tutto si giochi, nell’esperienza, come se dietro volesse dire dopo. Ciò che precede e fonda – la ripetizione – è infatti sistematicamente confuso con ciò che segue ed è fondato – il piacere. Il trascendentale – la sintesi trascendentale di Thanatos – si appiattisce sull’empirico – la sintesi empirica di Eros. In maniera tale che, nell’esperienza di ognuno di noi, le due pulsioni fondamentali non si danno mai come tali ma sempre e solo come combinate, “impastate” è il termine prediletto da Freud. Non esistono, insomma, un piacere e un dispiacere assoluti. Freud cerca quest’ultimo indefessamente nel corso del saggio perché solo un dispiacere che sia tale per entrambi i sistemi e non, come mostra la vita nevrotica[13], piacere per uno – quello inconscio – e dispiacere per l’altro – quello cosciente, potrebbe candidarsi al ruolo di rappresentante di Thanatos. Eppure, malgrado nel testo del ‘20 a sfilare siano diversi pretendenti, nessuno in fondo è atto, o legittimo, a ricoprire il ruolo del “solo spiacevole”.
Non lo è, anzitutto, la coazione a ripetere, posto che, anche nei casi in cui essa si verifica a spese del soggetto, ossia, come dice Freud, “passivamente” anziché “attivamente”[14], vi è nondimeno un intreccio tra la coazione e un soddisfacimento pulsionale direttamente piacevole, sebbene si tratti di un piacere misterioso, “demoniaco”[15]. Non lo sono, anche se Freud non lo ammette esplicitamente rifiutandosi, in un certo modo, di trarre le conseguenze del suo stesso ragionamento, i sogni dei reduci di guerra. Questi ultimi, invero, “cercano di padroneggiare retrospettivamente gli stimoli, sviluppando quell’angoscia la cui mancanza era stata la causa della nevrosi traumatica”[16] e, tuttavia, proprio nella misura in cui l’angoscia ha una funzione difensiva (è la tesi dell’angoscia-segnale del pericolo), questi sogni, in realtà, rispondono comunque all’imperativo del piacere. Il trauma, infatti, nello stesso quarto paragrafo, è presentato come un dispiacere assoluto proprio perché la sua caratteristica è di irrompere come una breccia improvvisa nello psichismo. Ma la condizione, affinché vi sia trauma, è proprio l’assenza di quella preparazione al pericolo che è l’angoscia. Ecco perché, il ritorno sul luogo del delitto che contraddistingue queste inedite formazioni oniriche, non è un ritorno del “solo spiacevole”. Si tratta, per così dire, di una rettifica après-coup, di una correzione a posteriori il cui obiettivo è padroneggiare-legare, ora, ciò che non era stato possibile padroneggiare-legare allora.
Infine, non sono solamente spiacevoli, ossia spiacevoli allo “stato puro”[17], nemmeno le pulsioni dell’Io, per lungo tempo contrapposte da Freud a quelle libidiche o oggettuali. Nel caso delle prime, in effetti, si tratta semplicemente di una libido rivolta all’Io e, dunque, all’interno invece che all’esterno. Questa ulteriore indeterminazione emerge, in modo particolare, dalla nota che chiude, a mo’ di un riepilogo, il paragrafo sei. Qui le pulsioni oggettuali sono accostate a quelle dell’Io ed entrambe, come pulsioni libidiche, vengono contrapposte a un altro tipo di pulsioni: quelle distruttive o di morte. Chiediamoci, però, in conclusione, se questa nuova partizione tra due tipi di pulsioni riesce dove le precedenti avevano fallito o se ogni indagine psichica di stampo trascendentale non sia destinata, piuttosto, a risolversi inevitabilmente in una “equazione a due incognite”[18]
A nostro avviso, che il sito trascendentale resti “tenebroso”[19] in ragione dell’indeterminazione delle opposizioni che vi sfumano i propri contorni in luogo di lasciarsi determinare con precisione, è suggerito da una domanda che si impone all’attenzione di chiunque legga questo testo vorticoso e scricchiolante fino alla fine e senza pregiudizi: la pulsione di morte è davvero una pulsione non libidica? Possiamo cioè escludere che non ci sia un erotismo della morte o, come dice Deleuze, una risessualizzazione di Thanatos? Cosa assicura, in altre parole, che la morte non sia, come l’espressione Todestrieb, del resto, suggerisce, un desideratum, sebbene di una tale natura da oscurare inevitabilmente le limpide acque del piacere? Cosa, in sostanza, distingue le pulsioni di morte dalle pulsioni libidiche in generale?
A queste domande Freud non risponde ma l’andamento della sua riflessione negli anni a venire lascia quanto meno aperta la possibilità di interpretare l’esito di questo testo come l’esito, nel senso di conclusione, di una certa concezione del piacere. In definitiva, infatti, se l’al di là del principio di piacere non è davvero un’al di là nel senso dell’eccezione e/o della trasgressione, stante il fatto che la vita è un “insieme di vie che portano alla morte” e che questa non è se non “la meta di ogni cosa che vive”[20]; se, cioè, persino lo sviluppo o sublimazione non è se non l’effetto di una impossibilità a regredire per via diretta ma, a causa di forze maggiori, costretti lungo un giro più lungo, cosa possiamo definire come piacevole o soddisfacente e cosa, al contrario, non lo è?
Nel saggio del ’24 dedicato al problema economico del masochismo Freud stesso, d’altronde, inverte le coordinate di una tassonomia che, fino al ’20, aveva funzionato come una bussola per orientarsi nel mare tempestoso dello psichico: possono essere avvertiti come piacevoli, spiega, degli incrementi di tensione e spiacevoli delle loro diminuzioni[21]. Ciò a riprova del fatto che un’estetica economica, un’estetica orientata in senso economico com’è quella auspicata da Freud[22], ha il suo trascendentale in qualcosa che è strutturalmente inanticipabile perché strutturalmente insaputo, e insaputo perché variabile da individuo a individuo: la qualità delle singole sensazioni. Invero, si legge nel testo del ’24: piacere e dispiacere non dipendono dal fattore quantitativo dell’aumento e della diminuzione, “bensì da una caratteristica che non possiamo far altro che definire qualitativa”[23]: il ritmo, “la sequenza temporale dei cambiamenti”[24].
Il ritmo, però, è sempre qualcosa che “esce dal caos e che forse può ritornare al caos”[25], qualcosa che, quindi, fa vacillare l’immaginazione provocando la vertigine…o la pulsione: quella che Lacan, nel Seminario XI, rappresenta così
Che allora ogni pulsione sia “virtualmente una pulsione di morte”[26] vuol dire che ogni pulsione è una pulsione parziale. Parziale e tuttavia costante, essendo il suo movimento vibratorio generato da una differenza o sproporzione incolmabile tra la tensione in cui si risolve e ogni oggetto con cui, invano, la si tenta di soddisfare. D’altra parte, proprio questa differenza tra “il piacere del soddisfacimento agognato e quello effettivamente ottenuto”[27] determina nell’uomo un impulso che non gli permette di fermarsi in nessuna posizione raggiunta ma, secondo le parole di Mefistofele nel Faust, “sempre lo spinge più avanti”[28]. Il cammino a ritroso, quello agognato, è ostruito, di regola, dalle resistenze che mantengono le rimozioni: prima fra tutte quella originaria. E quindi, conclude Freud, “non resta che procedere nell’unica direzione in cui si è ancora liberi di svilupparsi”[29].
Si va avanti, insomma, per tornare indietro, costretti in una direzione solo apparentemente progressiva dalla rimozione primaria o fondamentale. E in questo movimento, le due specie pulsioni si intrecciano come i due lati di un solo esercizio: quello dell’esistenza. La pulsione di morte ci fornisce, per così dire, il “che cosa” della stessa – la vita non è che raggiungimento della morte; quella di vita, invece, rivela il “come” – ognuno vuole morire a modo proprio. La felicità, perciò, non coincide mai col godimento ma lo produce come suo scarto costitutivo, in maniera analoga a come, nella termodinamica convocata da Lacan per afferrare qualcosa dei movimenti mortiferi, ogni informazione produce disordine, dispendio: dépense aveva detto Bataille.
Di questa non coincidenza ogni vita si alimenta come di una corrente elettrica che Freud, nel ’24, non esita a definire masochistica in senso primario. Nel masochismo, infatti, perfino l’autodistruzione della persona non può compiersi senza soddisfacimento libidico. Sicché, se vivere è tornare alla morte come origine della vita, si deve dire che vivere è tornare a quell’origine la cui sofferenza – insegna la psicoanalisi – è stata misteriosamente, ma in modo provvidenziale, controbilanciata da un’erotizzazione. Il masochismo – nelle parole di Lacan – è “il massimo godimento dato dal reale”[30] ma “massimo”, qui, vuol dire “migliore”. Il masochismo, allora, è il miglior godimento dato dal reale, il migliore dei godimenti possibili: quello che fa di ogni vita, nel suo inestricabile intreccio con la morte, nient’altro che una singolare, e privata, teodicea.
[1] Ogni cosa che vive, intuisce Freud, vuole tornare allo stato in cui viva non era: uno stato inanimato o inorganico caratterizzato da un’assenza, pressoché totale, di tensioni. La vita, in altre parole, non è altro che un accidente dell’animato perché anche il mantenimento dell’omeostasi, meta del principio di piacere è, in realtà, un processo di carattere mortifero.
[2] Questa, ad esempio, è la tesi sostenuta in diversi lavori da Derrida.
[3] Soprattutto Sergio Benvenuto.
[4] G. Deleuze, Il freddo e il crudele, SE, Milano 2007, p. 125.
[5] Ibidem.
[6] Ibidem.
[7] Ibidem.
[8] Ivi, p. 126.
[9] S. Freud, Al di là del principio di piacere, in La teoria psicoanalitica, Scritti 1911-1938, Boringhieri, Torino 2014, p. 275.
[10] Ibidem.
[11] G. Deleuze, op. cit., p. 127.
[12] Ibidem.
[13] “Ogni dispiacere nevrotico ha questa natura: è un piacere che non può essere avvertito come tale” (S. Freud, op. cit., p. 217).
[14] Ivi, p. 231.
[15] Ivi, p. 230.
[16] Ivi, p. 242.
[17] Ivi, p. 231
[18] Ivi, p. 270
[19] Ibidem.
[20] Ivi, p. 241.
[21] S. Freud, Il problema economico del masochismo, in La teoria psicoanalitica, cit., p. 344.
[22] S. Freud, Al di là del principio di piacere, cit., p. 225.
[23] S. Freud, Il problema economico del masochismo, cit., p. 344.
[24] Ibidem.
[25] G. Deleuze, Fuori dai cardini del tempo. Lezioni su Kant, Mimesis, Milano 2004, p. 110.
[26] J. Lacan, Il Seminario. Libro VII. L’etica della psicoanalisi (1959-1960), Einaudi, Torino 2008, p. 317.
[27] S. Freud, Al di là del principio di piacere, cit., p. 253.
[28] Goethe, Faust, parte prima.
[29] S. Freud, Al di là del principio di piacere, cit., p. 255.
[30] J. Lacan, Il Seminario. Libro XXIII. Il Sinthomo (1975-1976), Astrolabio, Roma 2006, p. 75.