Divorare il corpo. Appunti sul consumo visivo del corpo su Tinder

«Noi diventiamo ciò che siamo solo
col radicale e profondamente insito rifiuto
di ciò che gli altri hanno fatto di noi»
Jean-Paul Sartre

Introduzione

Oggigiorno, l’uso del cellulare è pressoché diffuso in tutto il mondo, anche all’interno delle più piccole e remote comunità. Milioni, o forse addirittura miliardi, di persone non se ne distaccano in tutto l’arco della giornata: è l’ultima cosa che vedono prima di addormentarsi e la prima al risveglio. È qualcosa di più di un semplice oggetto tecnologico: è diventato un’estensione del nostro corpo, e quindi di noi stessi. Lo smartphone è diventato i nostri occhi, la nostra memoria; in questo tempo di crisi, è diventato la nostra voce, la nostra presenza all’interno delle vite delle persone a cui vogliamo bene e a cui siamo legati. Lo smartphone è la nostra prima e più immediata porta al mondo virtuale. In questo articolo, dunque, cercheremo di analizzare questa presenza virtuale, questo “esserci nel web” – non me ne voglia male Ernesto de Martino per questa storpiatura. Nello specifico andremo a vedere come il corpo viene esposto e fruito nei social media e, in particolare, in Tinder, la celebre applicazione di incontri.

Tinder. Qualche accenno

Tinder è una (e forse la più famosa) fra le cosiddette dating app per cellulari basate sulla geo-localizzazione che permettono di connettere persone in base ai reciproci apprezzamenti. Sviluppata dal colosso mediatico americano InterActiveCorp, viene lanciata ufficialmente il 12 settembre 2012 e, a conferma dell’immediato successo che ricevette, nel 2014, ad appena due anni dall’immissione nel mercato, contava già circa un miliardo di swipe al giorno.
Nella versione base , i like, gli apprezzamenti agli altri utenti, sono limitati in base al luogo, all’età, al genere e all’uso secondo un preciso algoritmo. Fintanto che il like non è reciproco, non è dato sapere chi ha già apprezzato il nostro profilo. Tuttavia, nel marzo del 2015 è stata introdotta anche una versione a pagamento (€15.99/mese) che permette di avere un numero infinito di like, di vedere chi apprezza il proprio profilo e di esplorare i profili in tutto il mondo.
Qualche dato. Secondo un sommario di statistiche reperibili online aggiornato al 2018, i fruitori di Tinder in tutto il mondo sarebbero 57 milioni,  4,1 milioni sottoscrivono la versione a pagamento.
Lo swipe – letteralmente “scorrere” – è il fulcro del funzionamento di questo genere di applicazioni, è l’azione attraverso la quale l’utente apprezza o meno gli altri fruitori.
Il funzionamento di Tinder è estremamente semplice. Una volta creato il proprio profilo, bisogna indicare le proprie preferenze in termini d’età (da un minimo di 18 ad un massimo di 55+ anni) e di distanza (da 2 a 161 km) attraverso le quali, poi, nell’immenso database di Tinder verranno scremati gli utenti con gli stessi parametri. Quando si arriva nella pagina di ricerca, ci si trova davanti a un “immenso catalogo disordinato”, per usare le parole di Umberto Eco, di possibili individui da contattare ed è questo il momento in cui inizia la selezione degli interlocutori.

Vedere e vedersi. Rappresentazioni di sé, immaginari del corpo e narrazioni virtuali

Tuttavia, prima di analizzare questo processo selettivo, è necessario soffermarsi brevemente su come il corpo viene esposto. Ciò che sta dietro al funzionamento di Tinder è abbastanza chiaro: io, utente, decido di mostrarmi a una massa di persone che per la stragrande maggioranza ignora chi io sia.
Nel processo di esposizione a questa massa ignorante, la mia identità, tuttavia, può essere mascherata, scremata da quelle parti di me che non apprezzo – o che penso non possano piacere agli altri – oppure che preferisco riservare all’intimità della mia sola conoscenza. In un certo senso, posso reinventarmi e creare un avatàr di me stesso.
È interessante notare come il concetto di avatàr si leghi a quello di incarnazione divina. Dal sanscrito “avatāra”, nel brahmanesimo e nell’induismo indica la discesa sulla terra delle dieci incarnazioni del dio Vishnu per ristabilire la giustizia di cui è garante. 
Nell’accezione odierna fu usato per la prima volta nel 1985 da Richard Garriott nel gioco online Ultima IV: Quest of the Avatar. L’intento dell’autore era quello di spingere i giocatori a ricreare il loro carattere terreno nel mondo virtuale per responsabilizzare le scelte di gioco.
Ad oggi esistono svariate tipologie di avatàr che di fatto possono essere ricondotte a due categorie: quelli reali, che ritrovano, cioè, un alter ego corporeo al di fuori del mondo virtuale; e quelli di invenzione, che con sembianze umane o meno sono stati creati digitalmente.
Tinder, anche solo per il fatto di presentarsi come un facilitatore di incontri virtuali in un mondo fisico,  vede per lo più la circolazione di avatàr reali. Questi, come abbiamo visto, sono immagini create e adattate per uno scopo ben preciso – piacere alle persone a cui si vorrebbe piacere, che avvenga per interesse, curiosità, amicizia o attrazione sessuale – in cui il protagonista è il corpo, metafora attraverso la quale il soggetto si espone.
Infatti, come ci ricorda David Le Breton: «L’immagine del corpo traduce la rappresentazione che il soggetto elabora del suo corpo»[1].
Si arriva, dunque, a una sorta di transustanziazione digitale della rappresentazione di sé in un’immagine del corpo virtuale che riflette mode, tendenze, valori e saperi socialmente condivisi. Infatti, come ci rammenta ancora l’antropologo francese: «l’immagine del corpo non è un dato oggettivo, è un valore risultante essenzialmente dall’influenza dell’ambiente e della storia personale del soggetto»[2].
C’è quindi da chiedersi, quali rapporti di influenza reciproca si instaurano fra Tinder e i corpi dei soggetti? Così come la cultura è agita ed è agente, anche il corpo – e quindi il soggetto – all’interno di Tinder – così come di tutti gli altri social network – è un corpo agito ed agente. Diventa un fattore conformato e conformante il gusto estetico: cambia la cura del corpo e il modo in cui viene rappresentata la bellezza o lo status sociale.

David Le Breton, Anthropologie du corps et modernité (PUF, 1990)


Alla base di questo articolo c’è una breve etnografia virtuale che ho condotto per alcuni mesi nel nord Italia, in Slovenia e Danimarca: mi sono immerso in questo vasto catalogo virtuale e ho iniziato a osservare e a conversare con le persone con le quali entravo in contatto, cercando di capire in primis quali fossero le motivazioni che spingevano a utilizzare Tinder e, in secondo luogo, quale fosse la ratio dietro le modalità adottate per presentarsi, per apparire.
Già da un’osservazione spiccia, si può notare come gli ambiti dell’apparire siano fondamentalmente quattro: lo sport e il corpo modellato – soprattutto nella fascia d’età 18-35 – scolpito da esercizi di fitness, dai quali i soggetti traggono appagamento e soddisfazione[3]; il corpo viaggiatore, cioè del soggetto che si mostra come oggetto internazionale, cittadino del mondo; il corpo “naturale”, che viene ritratto in contesti extraurbani o insieme ad animali; e il corpo amicale, tramite il quale il soggetto esprime la sue attitudini e capacità sociali.
Tutte queste immagini, tutti questi selfie sono episodi del reportage del protagonista[4], di una narrazione più grande, quella della vita del soggetto stesso e che lo stesso soggetto decide di destinare alla più ampia platea possibile. Non a caso, all’account di Tinder si può collegare quello di Instagram.
Sono, tuttavia, storie conformi, come sottolinea Gustavo Pietropolli Charmet: «ritegno, prudenza, cautela, riservatezza svaniscono lontani mentre si srotola l’ennesima sequenza del docufilm del nostro protagonista che racconta l’ultima puntata di una storia ben nota e proprio per questo gradita e fruibile senza suscitare aspri commenti o critiche sullo scarso interesse delle immagini registrate»[5].

Questa trasparenza e questa ripetizione fanno parte di un panorama più vasto, all’interno del quale gli individui non si considerano più soggetti sottomessi, bensì progetti liberi. Focalizzandosi sulle forme odierne di dominio e di potere, Byung-Chul Han ha analizzato come oggi ci stiamo avviando verso una psicopolitica digitale che passa dalla sorveglianza passiva al controllo attivo. Questo controllo trova le sue fondamenta sui big data e sull’enorme quantità di informazioni che volontariamente decidiamo di condividere, senza sapere l’uso che ne verrà fatto e da parte di chi. Secondo il filosofo sudcoreano, questo sapere del dominio consente di avere accesso alla psiche e di influenzarla, operando tramite oggetti devozionali usati per sottomettere: «lo smartphone […] è per eccellenza l’oggetto devozionale del digitale. Come strumento di soggettivazione funziona come il rosario, che pure rappresenta, per la sua maneggevolezza, una specie di cellulare. Entrambi servono alla sorveglianza e al controllo del singolo su se stesso. Delegando la sorveglianza a ogni individuo, il dominio aumenta la propria efficacia. Il like è l’amen digitale. Mente clicchiamo like, ci sottomettiamo al rapporto di dominio. Lo smartphone non è solo un effettivo strumento di sorveglianza, ma anche un confessionale mobile»[6].
In questo capitalismo del like, sempre per rifarsi alla definizione proposta da Han, l’apprezzamento, dunque, è uno dei dispositivi di controllo che direziona e omologa gli individui e ciò che da loro è prodotto e consumato.

Eros digitale. La consumazione del corpo

Come abbiamo visto, Byung-Chul Han ha paragonato lo smartphone al rosario: l’utente scorre (swipe) le immagini dei corpi esattamente come il fedele fa con i grani del rosario.Il senso privilegiato nel mondo occidentale è senza dubbio la vista. Non a caso oggi ci troviamo nell’era delle immagini, in cui veniamo bombardati da foto e grafiche martellanti sulle quali si basa la maggior parte della nostra comunicazione.
Continuamente fruiamo di questi prodotti. Originariamente fruire, da frui in latino, significa “godere”: quindi godiamo delle immagini che ci scorrono davanti. Le divoriamo una dopo l’altra in un continuo pasto abulico, senza antipasto né dessert. In Tinder, dunque, ci nutriamo del corpo digitale degli altri utenti.
Sebbene negli anni si sia sviluppata anche in direzioni amicali, questa app conserva comunque le sue origini, funzionali a incontri amorosi o sessuali. Da notare, infatti, che il logo rimane una fiamma rossa, simbolo condiviso della passione e della sessualità.

Come sottolinea giustamente Vittorino Andreoli, anche la sessualità passa per immagini: «l’uomo digitale, tra i cinque sensi, usa soprattutto la vista, si può dire che il mondo virtuale lo si esperimenta soltanto con quest’organo di senso. Persino la sessualità diventa visiva, risultato del dare una risposta ai bisogni e alle pulsioni della sfera dell’Eros sempre navigando. In questo modo il partner finisce per essere virtuale, fatto con un corpo visibile ma non concreto. E la sessualità per immagine si riduce, appunto, alla vista»[7]. In un’economia dell’eros, quindi, seguendo la scia di Han, potremmo affermare che gli utenti espongono il proprio corpo perché venga fruito, e dunque goduto. Questo godimento, tuttavia, è centrato sul soggetto esponente in primis e si traduce nell’appagamento e nell’autostima personali.

Che la sessualità e la vista siano connessi non è, però, una novità dell’era digitale, questa semmai ha acuito tale relazione. Se pensiamo a espressioni come “divorare con gli occhi” o “mangiare con gli occhi” che indicano un sentimento di bramosia, questo rapporto è ben chiaro. Ma c’è qualcosa di più: l’alimentazione. Verbi come divorare e mangiare in italiano o aggettivi come gostoso in portoghese, lækker in danese o lekker in olandese [“delizioso”], hot in inglese – per non approfondire le varie denominazioni gergali degli organi genitali, come “banana”, “fava”, “patata” e via dicendo – indicano che, durante il processo di fruizione e godimento delle immagini, alla vista, in un certo senso, si somma il gusto. Mi sembra, dunque, che ci troviamo di fronte a una sorta di cannibalismo digitale in cui siamo divorati e divoratori degli altrui corpi digitali. Tinder diventa così un enorme menù che sfogliamo alla ricerca di ciò che potrebbe saziare il nostro appetito e donarci un senso di godimento e appagamento.

Il corpo divorato è l’alimento, la benzina di dinamiche più o meno inconsce che sorreggono il funzionamento di tali applicazioni e tecnologie.
Gli studi sui mondi digitali e virtuali si stanno mostrando estremamente prolifici nell’analisi di tali fenomeni continuamente in divenire che quindi richiedono di essere sempre approfonditi e aggiornati. È necessario, infine, che ciò che emerge da tali studi venga condiviso con il più vasto pubblico per renderci consapevoli delle potenzialità e dei rischi che questo genere di tecnologia inevitabilmente porta con sé. 

 [1] D. Le Breton, Anthropologie du corps et modernité (1990), PUF, Parigi 2013, p. 215.
[2] Ivi, p. 217.
[3] Esiste anche, in alcuni casi, una comparazione fatta con il corpo di prima, come per dimostrare il tentativo messo in atto di cambiamento e miglioramento (in termini emici) di sé attraverso esercizi fisici per dimostrare agli altri curatori del corpo il valore che si ha acquisito.
[4] L. Di Gregorio, La società dei selfie. Narcisismo e sentimento di sé nell’epoca dello smartphone, Franco Angeli, Milano, 2017.
[5] G. Pietropolli Charmet, L’insostenibile bisogno di ammirazione (2018), Editori Laterza, Bari 2019, p.38.
[6] B.-C. Han, Psicopolitica. Il neoliberalismo e le nuove tecniche del potere (2014), nottetempo, Roma 2016, p.22.
[7] V. Andreoli, L’uomo col cervello in tasca. Come la rivoluzione digitale sta cambiando i nostri comportamenti, Solferino, Milano, 2019, p.269.

Bibliografia

  • Andreoli, V., L’uomo col cervello in tasca. Come la rivoluzione digitale sta cambiando i nostri comportamenti, Solferino, Milano, 2019
  • Di Gregorio, L., La società dei selfie. Narcisismo e sentimento di sé nell’epoca dello smartphone, Franco Angeli, Milano, 2017
  • Han, B-C., Psicopolitica. Il neoliberalismo e le nuove tecniche del potere (2014), nottetempo, Roma, 2016
  • Le Breton, D., Anthropologie du corps et modernité (1990), PUF, Parigi, 2013
  • Pietropolli Charmet, G., L’insostenibile bisogno di ammirazione (2018), Editori Laterza, Bari, 2019


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