Franco Battiato non ha scritto “minchiate assolute”. Eppure, la provocazione di Michela Murgia mi ha fatto ricordare una conversazione con un amico in un locale di Ostia, che risale all’era in cui si usciva di casa. Concordavamo sul valore musicale di Battiato, mentre ci dividevamo sulla qualità dei testi. Lui li lodava quasi incondizionatamente, mentre io tiravo fuori un mio vecchio dubbio che riassumo così: (1) i brani della pars destruens (ad esempio quelli più noti da “La voce del padrone”) non mi sembrano avere un obiettivo polemico chiaro e paiono voler distruggere anche prodotti culturali che non meritano quel trattamento; (2) i brani che incarnano la pars construens (E ti vengo a cercare, La cura, ma anche album come “Fisiognomica” o “Ferro battuto”, che pure apprezzo) non sembrano così radicalmente diversi da tutto quel che lui sbeffeggia nella pars destruens.
Quel che mi pare anzitutto evidente è che Battiato, in un album come “La voce del padrone”, mette in scena una critica radicale e sarcastica della degradazione culturale di quegli anni (tra la fine dei Settanta e l’inizio degli Ottanta) e, più in generale, degli aspetti deteriori della cultura di massa, con tanto di “citazione” di Adorno in Bandiera bianca (per inciso, la chiusa di quel brano in cui, su un tappeto di tastiere-basso-batteria-vibrafono, si rincorrono e sovrappongono i versi “minima immoralia”, “sul ponte sventola bandiera bianca” e “this is the end, my only friend”, è per me una delle cose più belle di tutta la sua produzione). E trovo interessante che questa critica del popular si serva a piene mani di strumenti (in senso lato) popular: non solo perché in questo modo il messaggio arriva a tutti, ma anche perché sembra voler dire: “questa roba è talmente pervasiva che neanch’io ne sono, né potrei esserne, del tutto immune”.
Quindi non credo proprio che per difendere Battiato basti dire – come ho letto sulla rivista “Rolling Stone” – che anche se il testo di Cuccurucucù non significa niente, la canzone è valida in quanto “è evocativa, magica, ha una melodia che non ti stanchi mai di cantare”. A me pare invece che “La voce del padrone” sia quasi un concept album, altro che assenza di significato!
E tuttavia mi sono spesso chiesto a chi e a cosa sia rivolta esattamente la polemica. A una certa politica, e va bene. Allo squallore e alla violenza di tanti costumi sociali, e va bene. Ma quando il musicista arriva a coinvolgere l’arte e la cultura in genere, comincio a non capire più bene dove voglia andare a parare.
Prendiamo proprio Cuccurucucù: (a) si sta beffando del brano “classico” Cucurrucucù Paloma, cantato tra gli altri da Caetano Veloso?; (b) “Da quando sei andata via non esisto più” ha tutta l’aria di una presa in giro di qualche insulsaggine sanremese; (c) poco più sopra: “Avevo già la Luna e Urano nel Leone” potrebbe farsi gioco di chi bamboleggia con un’astrologia da quattro soldi (ma c’è anche il Battiato esoterico, quindi non è detto che sia una beffa); (d) “Cantami o diva dei pellerossa americani” etc. può essere una critica rivolta alla moda dei western, che in tal caso farebbe il paio con “ci mancavano gli idioti dell’orrore” in Bandiera Bianca, che sembra scagliarsi indiscriminatamente contro i film horror (anche se leggo, ma mi pare assurdo, che la frase allude invece al terrorismo)…
E poi, nello stesso brano trovi anche un mix di titoli dei Beatles, di Dylan e altri frammenti di testi inglesi (“Lady Madonna / I can try / With a little help from my friends…”) pronunciati – credo volutamente – all’italiana, e anche questa sembra essere una canzonatura. Ma è possibile che il suo disprezzo per la cultura di massa si spinga fino a mettere nel calderone delle “immondizie musicali” anche Dylan e i Beatles, Mina e Veloso? Ne dubito, perché non può non sapere che in tal caso ci cadrebbe dentro lui stesso. E di chi si sta prendendo gioco quanto intona “A Beethoven e Sinatra preferisco l’insalata / A Vivaldi l’uva passa che mi dà più calorie”?
Un’altra ipotesi plausibile è allora questa: il suo obiettivo polemico è, più ancora che la cultura becera come tale, il rimescolamento postmoderno per il quale “l’alto e il basso”, le opere sublimi e quelle triviali sono tutte lì sul mercato, in un osceno pot pourri che impedisce di riconoscere e vivere il sacro e la bellezza.
Se è questa la chiave di lettura, allora i testi (e in parte anche la musica) dei brani in questione non fanno altro che registrare il caos contemporaneo per quello che è: dove bello e brutto, sacro e corrotto sono riuniti in un unico frenetico, euforico macello. Ma allora l’io che dice “cerco un centro di gravità permanente” è serio (e significa qualcosa tipo “voglio uscire da questo caos”)? O è anch’esso – come pare dai toni – un io parodistico? Non l’ho mai capito. Mi piacerebbe che fosse autoironico, come verosimilmente lo è il verso “C’è chi si mette degli occhiali da sole per avere più carisma e sintomatico mistero”, dato che lui stesso li indossava cantandolo.
Quanto poi ai testi construens, ce ne sono di vario genere. Già ne “La voce del padrone”, brani come Gli uccelli o Summer on a Solitary Beach sembrano delineare l’ideale antitesi del pasticcio postmoderno: un ritorno ascetico alla lenta contemplazione della natura e del divino in essa. Povera patria è invece un po’ la traduzione seria e sintetica dei pezzi destruens citati in precedenza: sfiora la prosopopea ma riesce lo stesso a emozionare. Quanto alla celebratissima La cura, penso e spero che vada letta in senso mistico, come una sorta di risposta divina a E ti vengo a cercare, perché se la si intende come canzone d’amore suona decisamente pretenziosa.
I più riusciti di questo gruppo di brani (tra quelli che conosco, e ho molte lacune) sono a mio parere quelli in cui Battiato va a indagare musicalmente e verbalmente il meraviglioso intreccio di tradizioni della sua Sicilia. Ad ogni modo, in fin dei conti, sono tutti brani popular. Alcuni decisamente belli, affascinanti, altri meno, ma comunque pop-rock. E tuttavia in molti di essi risuona ancora quel senso di elezione, di superiorità, di aristocrazia dello spirito che caratterizzava le beffe della fase distruttiva; solo che qui dà più fastidio perché manca la dimensione apparentemente autoironica e il cantante sembra pretendere di tirarsi completamente fuori sia dalla mediocrità etica ed estetica come tale, sia – se l’ipotesi sopra accennata è corretta – dallo stesso pot pourri.
Forse ci sarebbe riuscito davvero se dopo Bandiera bianca avesse scritto solo messe arcaiche o fosse tornato alle ardue sperimentazioni degli anni Settanta. In tal caso, però, ci saremmo persi tante belle canzoni. Ne voglio citare una che apprezzo particolarmente: Il cammino interminabile.