Mito e memoria sono due tra i molteplici motivi, filosoficamente fondamentali, che emergono dalla complessa stratificazione interna dell’opera di W. G. Sebald, autore senz’altro cruciale nell’orizzonte della cultura letteraria contemporanea. A offrire un contributo prezioso alla ricomprensione (in termini propriamente estetico-filosofici, e non meramente storico-critici) di entrambi i temi appena evocati, come pure della relazione che li lega, è la ricca e finissima indagine che Salvatore Tedesco dedica all’opera poetica e critica di Sebald, nel suo recente volume Fuoco pallido. W. G. Sebald: l’arte della trasformazione (Meltemi, 2019). A p. 22, infatti, l’autore scrive:
“Arte della memoria, elaborazione della “qualità peculiare del passato” secondo il linguaggio di Mnemosyne: lo sguardo sinottico (altrove, vedremo, Überblick: visione d’insieme, visione dall’alto) non si ottiene spontaneamente né senza fatica, ma è frutto di ricerca, scaturisce da una sufficiente concentrazione, e tale innalzamento della scrittura è guidato da una speranza; per questo nell’estetica sebaldiana lo statuto della temporalità e quello della forma poetica risulteranno, fra contingenza e costruzione, permanenza e dissociazione, così profondamente interconnessi fra loro e così icasticamente espressi nelle cesure della memoria e del linguaggio.”
Il passo appena citato è teoreticamente molto denso e ci offre numerosi spunti di riflessione. Un punto, intanto, emerge con chiarezza: l’opera di Sebald si pone sotto il segno della memoria, sotto il segno di Mnemosyne (un termine, questo, peraltro, carico di ascendenze warburghiane). Non solo, ma a giocare un ruolo decisivo è anche il rapporto che viene a istituirsi tra la dimensione della “memoria” e l’idea di “ricerca”, intendendo con ciò la processualità di un lavoro critico-comprendente animato dall’impulso all’esplorazione del nuovo.
Da questo punto di vista, a essere evocata è un’idea di memoria da intendersi non già come descrizione o riproduzione di una presunta datità identica a se stessa ed empiricamente constatabile – qualcosa, cioè, che appartenga all’ordine della presenza e che, come tale, sia suscettibile di una piena appropriazione conoscitiva – ma piuttosto come messa in opera di un “fare” autenticamente elaborativo: come esercizio di una prassi attivamente immaginativa e ri-configurante. Di una prassi, cioè, che spicca per i suoi tratti creativi e costruttivi: per l’inesauribilità della sua forza plastica e metamorfica.
A profilarsi, così, è un’idea di memoria il cui tratto saliente è la capacità di mettere le cose “fuori sincrono”: la capacità di introdurre, nella loro apparente compattezza e continuità, un’istanza di differimento e di scardinamento. In questo quadro, l’opera di Sebald si offre a noi come l’esibizione in atto del tentativo sempre rinnovato, e in qualche modo sempre destinato al fallimento, di rammemorare, e dunque di portare a rappresentazione, qualcosa che continuamente sfugge al ricordo, alla possibilità cioè di una rappresentazione (di una messa in forma, di una traduzione in immagine) definitiva e totalizzante.
Qui, infatti, Mnemosyne è memoria di un’alterità che continuamente si ritrae, che non smette cioè di resistere a ogni tentativo di assimilazione da parte del logos: a ogni possibilità di penetrazione da parte della teoria. È la memoria di qualcosa che non appartiene all’ordine della fattualità, di ciò che è suscettibile di registrazione e di documentazione, ma piuttosto all’ordine dell’assenza.
In questo senso, potremmo anche dire che la scrittura sebaldiana è animata dall’esigenza di rammemorare l’immemorabile, volendo con ciò indicare quello sfondo opaco di silenzio che la parola implicitamente presuppone e al quale essa liminarmente rinvia, essendone intrisa. Da questo punto di vista, l’immemoriale costituisce, nello stesso tempo, il limite immanente della rappresentazione, l’attestazione cioè della sua impotenza costitutiva, e la sua interna condizione di possibilità. È qualcosa che, a rigore, non può essere né totalmente ricordato né totalmente dimenticato: qualcosa che sentiamo di dover strappare, sempre e di nuovo, all’oblio (con la piena consapevolezza dell’impossibilità di adempiere a un tale compito, per noi comunque inaggirabile).
Seguendo questa possibile traiettoria di indagine, mi pare di fondamentale importanza quello che Sebald scrive nell’incipit della terza sezione di Nach der Natur (Secondo natura): un passo, questo, al quale Salvatore Tedesco dedica osservazioni di grande efficacia e di notevole pregnanza. Qui infatti a essere in gioco – osserva acutamente l’autore – è la stessa preistoria dell’immagine, la sua genesi, il suo processo di formazione, da intendersi però come processo sempre in atto. Come qualcosa, cioè, che è destinato a rinnovarsi incessantemente nella mobilità e nell’incompiutezza del divenire. Non solo, ma la costellazione di motivi tratteggiata da Sebald in quel medesimo passo di Nach der Natur acquista anche un valore fortemente autobiografico: diventa la rammemorazione dell’antefatto storico-naturale, di per sé non-dicibile, implicitamente presupposto dalla storia personale del soggetto narrante, intendendo con ciò quella “pienezza patica” del suo “vissuto” che si qualifica, in primo luogo, per il suo carattere irriducibilmente unico e non-ripetibile: per la sua non-sussumibile individualità e singolarità. Scrive dunque Sebald:
“Difficili da scoprire sono invero, custoditi fra lamine di scisto, i preistorici vertebrati con le ali. Se vedo tuttavia, davanti a me in un’immagine, la nervatura della vita trascorsa, penso sempre che questo abbia a che fare con la verità. D’altra parte il cervello lavora inesausto su tracce, ancorché labili, di auto-organizzazione, e talvolta ne risulta un ordine, a tratti bello e rappacificante, ma anche più crudele del tempo passato, il tempo dell’ignoranza.”
Nel commentare questo passo sebaldiano, Tedesco coglie la vera posta in gioco che gli è sottesa: “non solo la forma naturale si apre qui a una comprensione storica ma, anzitutto, forma naturale e comprensione storica vengono agitate da una tensione non altrimenti risolvibile che è quella che, in senso proprio, ha a che fare con la verità e con la sua messa in immagine” (p. 122).
Rammemorare l’immemorabile significa, allora, rammemorare la passatezza della vita trascorsa, il tempo dell’ignoranza, l’immensa selva di quell’inindagato che si mostra dietro ogni paesaggio storicamente illuminato.
Si tratta dunque di restituire voce alle “deboli tracce della vita organica custodite fra lastre di scisto”. In questo senso, ciò a cui la rappresentazione deve tentare di forma – facendosi testimonianza sensibile dell’impedimento e dello scacco che necessariamente ineriscono a un tale tentativo – è la non-decidibilità della tensione polare che continuamente si attiva nel reciproco rinvio tra storia e pre-istoria, ovvero tra cultura e natura, e quindi tra “umanità” e “animalità”: tra organico e inorganico, tra vivente e non-vivente.
L’insuperabile problematicità ascrivibile a questo nesso – al rapporto di coappartenenza che appunto unisce (dividendoli) natura e storia, rappresentabile e irrappresentabile – costituisce uno dei plessi semantico-concettuali teoreticamente decisivi che emergono dalla finissima lettura offerta da Salvatore Tedesco.
A caratterizzare l’arte di Sebald, infatti, è proprio la sua capacità di mettere in scena la reciproca convertibilità dei due diversi piani di senso appena evocati. Quella di Sebald, cioè, è un’arte che “sa” di dover dare forma al continuo fare segno da parte della storia, e quindi da parte della cultura, verso la possibilità di una sua ri-traduzione nella muta opacità del “paesaggio naturale”: nella lingua innominale e non-significante dell’inanimato, del meramente cosale, del puramente materico. Il che, in Sebald, viene in luce attraverso la complessità, e insieme la visionarietà, di una trama poetico-narrativa sempre vertiginosamente sospesa sulla profondità di un abisso che – “fa mancare il concetto in bocca all’interprete” (cfr. p. 24). A essere convocata sulla scena, insomma, è una dimensione rispetto alla quale il concetto non può che scoprirsi impotente e inadeguato.
Natura e storia vengono così a delinearsi come polarità che, lungi dal sussistere l’una indipendentemente dall’altra, propriamente si co-costituiscono. Il che avviene nella mobilità di quello spazio di attraversamento, di quella soglia cioè sempre oscillante e ritmicamente scandita, che è la loro reciproca messa in tensione: la loro reciproca messa in prospettiva. Nella frequentazione emotivamente intelligente di un tale spazio, la scrittura sebaldiana trova allora il suo più autentico terreno di coltura: ciò che la nutre, ciò che ne rende possibile il dispiegamento, è la capacità di abitare la distanza che insieme separa e congiunge natura e storia.
In questo senso, a giocare un ruolo dirimente è la consapevolezza che, se da un lato “gli ‘elementi naturali’ appaiono […] carichi di storia”, dall’altro lato, “il presente si proietta su uno sfondo naturale la cui infinita distanza appare tuttavia come prossimità incombente” (p. 120).
Vicinanza e lontananza, prossimità e distanza, si presentano allora come termini che cortocircuitano continuamente tra loro. Irriducibilmente paradossale, infatti, è il nodo che li tiene insieme. E questo perché ciascuno dei due termini funziona, rispetto all’altro (rispetto al termine che gli è, insieme, opposto e complementare), e come condizione e come condizionato. A profilarsi così è il paradosso di un condizionato che si scopre condizione della sua stessa condizione, esattamente come la condizione si rivela condizionata dal suo stesso condizionato.
Il piano della storia, qui, è innanzitutto il piano della cultura e, per ciò stesso, il piano della ricerca e del comprendere: il piano del senso. Quel senso, sempre finito e contingente – sempre segnato, cioè, dalla caducità – che l’uomo tenta di costruire e di progettare attraverso la messa in atto di strategie pratico-cognitive aventi di mira la familiarizzazione dell’estraneo, la “domesticazione” dell’esperienza: il depotenziamento, insomma, dell’inquietante.
Ebbene, il mito fa esattamente questo. Secondo quella sua peculiare profilatura che traspare in filigrana dall’opera di Sebald – una profilatura per molti versi intonata in senso “antropologico-fenomenologico”, ma non senza forti tensioni interne, come in particolare testimoniano gli studi di Sebald sulla letteratura minore di Herbeck e Achternbusch e sul Kaspar Hauser di Handke – il mito si lascia infatti ricomprendere come l’espressione di una strategia compensatoria e, per così dire, “omeostatica”. Anche se, come fa notare Tedesco, “Sebald non cerca compensazioni […] cerca proprio quella cosa perduta che sarebbe la felicità” (p. 39).
Si tratta quindi, kafkianamente, di “andare in cerca di soluzioni proprio là dove non sembra che ce ne siano” (cfr. p. 60). Il che, però, implica l’esigenza di mantenere sempre alto il livello della nostra attenzione e della nostra capacità di “vigilanza” rispetto al rischio sempre incombente di una indebita assolutizzazione idolatrica e feticistica dei nostri “mitologemi”, e dunque più in generale dei nostri sistemi rappresentazionali: del nostro modo di descrivere il mondo.
Resta comunque il fatto che, alla base del dispositivo mitico, si deve ravvisare il tentativo sempre rinnovato da parte dell’uomo di costruire equilibri – compagini di grammaticalizzazione e di comprensione dell’esistente – che siano adattivamente vantaggiosi e cognitivamente fecondi. In questo senso, uno dei tratti distintivi del mito è la sua capacità di ridurre il caos al kosmos, la sua capacità cioè di produrre sistematicità sincronizzando il diacronico, riassorbendo quindi la contingenza (la temporalità dell’evento) nella necessità (la spazialità della struttura).
A venire in primo piano, così, è l’idea lévi-straussiana del mito come bricolage: come gioco combinatorio di “ri-cucitura” dell’eterogeneo e del disperso. Secondo questa accezione, il mito funziona come una strategia di organizzazione del molteplice: è la costruzione di un ordine sintattico, di una trama di relazioni, che si realizza attraverso il “raccoglimento” e il “montaggio” di “residui” e “frammenti” di “eventi”.
Attraverso la ri-composizione, dunque, di scarti e di sopravvivenze: di materiali che, a loro volta, costituiscono la sedimentazione di precedenti elaborazioni mitopoietiche.
Sotto questo profilo, si può affermare che la poetica sebaldiana chiama in causa una nozione di mito da intendersi come tentativo di rispondere costruttivamente alla perdita di quel rassicurante stato di armonia prestabilita che, simbolicamente (ma anche filogeneticamente), si traduce nella pregressa condizione “edenico-etologica” della “vita arboricola”. Ciò che quest’ultima espressione indica, infatti, è la vita condotta dall’uomo prima del sopraggiungere di quella cesura evolutiva che è il passaggio dalla foresta pluviale alla savana pleistocenica, lì dove a irrompere è l’indefinita esposizione dell’uomo all’insecuritas: all’incontro con un mondo irrimediabilmente estraneo e minaccioso.
Il mito nasce precisamente da quella cesura, dal trauma di quello strappo: dall’esigenza di elaborare immaginativamente il “lutto” di quella perdita, rispetto alla quale ogni strategia di ricomposizione (ogni mediazione) si rivela insufficiente.
Le radici del mito devono essere insomma rintracciate in quel sentimento di mancanza che consiste nell’avvertire la dissoluzione ormai irreversibile di ogni “armonia prestabilita”: di ogni possibilità di riconoscere nell’ambiente vitale circostante (in quel mondo all’interno del quale l’uomo è innanzitutto coinvolto emotivamente e sentimentalmente) una garanzia di riparo e di rifugio che sia stabilmente assicurata. A questa mancanza, il mito risponde appunto con la messa in opera di strategie di unificazione del molteplice che si qualificano per la loro capacità di funzionare come una sorta di garanzia, pur sempre fragile e precaria, che l’uomo di volta in volta conquista, nell’inquietudine, contro l’inquietudine. Abbiamo a che fare, cioè, con una garanzia che viene per così dire guadagnata, nel tempo, contro il tempo: contro la sua inesorabile distruttività. Nel suo saggio su Herbeck, Sebald scrive: “L’opera del bricoleur vive […] nel tempo, per esso e per l’istante in cui viene fatta; si tratta di un oggetto operativo che, correlato ad uno scopo solo euristico, porta già in sé la distruzione che gli è prossima”.
A contrassegnare il mitologema, dunque, è proprio il suo porsi sotto il segno della provvisorietà e della transitorietà, come pure la sua capacità di esibire le tracce, le vestigia, non soltanto di precedenti intenzioni costruttive (di precedenti formazioni di senso prodotte dall’operatività del poièin fabulizzante), ma anche di precedenti operazioni di smontaggio e di disarticolazione del già-configurato, del già-strutturato. Di qui, in Sebald, la stretta connessione che viene a stabilirsi tra riconoscimento della necessità del mito, da un lato, e coscienza della sua costitutiva finzionalità, del suo darsi cioè come “truffa”, come inganno, dall’altro lato. Menzogna mitica e smascheramento della menzogna si danno, insomma, come polarità inseparabili.
Sotto questo profilo, ciò che merita di essere sottolineato è proprio il fatto che il lavoro di montaggio, e insieme di “ri-uso”, messo in atto dal mito si configura come l’espressione di un “fare” che custodisce già al suo interno, sia pure in forma germinale, il principio della sua dissoluzione, della sua ricaduta cioè nell’immediatezza del naturale: in quell’abisso immemoriale di oblio e silenzio che costituisce, insieme, l’inoggettivabile orizzonte di provenienza e la destinazione necessaria di ogni forma determinata (di ogni “sistema” costruito dal “sapere” umano).
Con riferimento dunque alla nozione di mito emergente dall’opera di Sebald, uno degli aspetti filosoficamente più rilevanti da sottolineare, a mio avviso, è precisamente questo. Si tratta cioè della consapevolezza che, per quell’ente strutturalmente “incompetente” che è l’uomo, la strategia del senso messa in atto dal dispositivo mitico – il suo istituirsi come pratica adattivamente vantaggiosa di contenimento e insieme di trascendimento dell’“inquietante” (quello che Hans Blumenberg chiama l’assolutismo della realtà, il Caos del senza-nome) – è qualcosa che può dispiegare e far valere le sue risorse solo nell’interazione produttiva con l’alterità del reale. Solo nell’incontro e nel confronto con quella dimensione sempre ribelle e irregolare, sempre refrattaria alla possibilità di una trasfigurazione definitivamente acquietante, che è la regione della contingenza.
È questo un punto sul quale Salvatore Tedesco giustamente insiste e che a più riprese torna ad affiorare, nella complessa tessitura della sua analisi, a livelli diversi di approfondimento. Non c’è conferimento di senso, infatti, che possa avanzare la pretesa di affermarsi indipendentemente dall’attrito e dalla frizione con quella inassimilabile estraneità del reale che, come tale, non smette di sottrarsi a qualunque possibilità di sublimazione nella chiarezza e nella fissità di una struttura di significato capace di redimere il finito, e quindi di vincere il tempo. Se narriamo storie, del resto, è proprio perché “non tutto è stato ancora assorbito dall’ordine e in esso risolto” (p. 36).
Di qui, in Sebald, il carattere sempre poroso e permeabile dei confini che separano, ma che appunto insieme congiungono, senso e non-senso, vale a dire storia e natura: “costruzione” e “distruzione”, speranza e luttuosità, caduta nell’opacità e “sollevamento” (o “levitazione”) verso la trasparenza di una possibilità di significato di là da venire.
Di una tale possibilità di rigenerazione del senso l’opera di Sebald diventa, sia pure in forma soltanto negativa, l’annuncio. L’annuncio di un possibile trascendimento dell’esistente, di una possibile liberazione dall’oppressione storica: una prospettiva, questa, alla quale l’opera allude nel momento stesso in cui si fa carico del compito, innanzitutto etico, di rendere giustizia alla “teologia disseminata nella natura” (p. 89).
Quella adombrata dalla scrittura sebaldiana, dalla “cifratura” semanticamente densissima della sua articolazione formale, è infatti una promessa di liberazione il cui improvviso trasparire è affidato alla rievocazione, sempre paticamente intonata, della vita trascorsa: alla rimodulazione del rapporto tra parola e silenzio, al riconoscimento della loro necessaria coimplicazione, sulla soglia di quello “spazio di indecidibilità” che è la forma, la trama pluristratificata dei suoi rapporti immanenti. Nel suo tenore marcatamente cosale, nella sua attitudine a esibire con la massima flagranza le “venature materiali” (cfr. p. 11) che la attraversano e che la rendono perennemente inquieta, ciò che una tale forma riesce dunque a testimoniare è, nello stesso tempo, la perdita irrevocabile del senso e la sua esigenza insopprimibile.