Come ampiamente annunciato, la Gran Bretagna si prepara dal 2021 a sbarrare gli ingressi, dopo la fine della transizione post-Brexit, ai nuovi immigrati “a bassa qualificazione” e non in grado di esprimersi correttamente in inglese, compresi quelli provenienti dai Paesi dell’Ue. Stando ai progetti del governo, il visto di lavoro che entrerà a regime dopo la Brexit potrà essere concesso solo ai richiedenti, europei e non europei, che abbiano un minimo di 70 punti. E i punti verranno attribuiti solo a chi avrà un’offerta di lavoro di almeno 25.000 sterline, titoli di studio specifici, la qualificazione richiesta nei settori in cui vi sia carenza occupazionale.
Il progetto inglese non ha di per sé nulla di nuovo. Anzi, è solo l’ultimo di una serie di provvedimenti analoghi adottati in molte altre parti del mondo. Passato il primo momento di sorpresa, e di indignazione, il progetto britannico è ben presto scomparso dalle prime pagine dei giornali. Non per caso, in effetti. L’attenzione pubblica tende a concentrarsi sui movimenti transfrontalieri di persone ritenute povere o sfortunate, come i migranti non qualificati e spesso privi di documenti o i richiedenti asilo. E però si tratta di un fenomeno che sta acquistando un rilievo progressivamente crescente, indicativo della volontà di riorganizzare i regimi migratori nella prospettiva dei bisogni mutevoli e instabili dei sistemi economici e di mercati del lavoro mobili e flessibili, così: fornire i flussi economicamente necessari e utili di “capitale umano” in aree di interesse definite e specifiche.
La scelta del governo inglese è rivelatrice di una tendenza generale: creare ovunque situazioni governate da una razionalità in cui deve dominare la massima remunerazione del capitale investito. Una tendenza che è necessario valutare con attenzione perché, anche se il mercato è uno strumento che si pretende neutrale rispetto al valore, esso non è affatto uno strumento privo di conseguenze: quello che comincia come un meccanismo di mercato diventa una norma di mercato. La mercificazione degli ingressi e della cittadinanza non ha solo un aspetto economico, ma anche un aspetto morale.
Spesso gli economisti assumono che i mercati non toccano o non alterano i beni che regolano. I mercati, invece, incorporano norme, che lasciano la loro impronta sui modi di valutare i beni che vengono scambiati – in questo caso, il bene dell’appartenenza. La spinta crescente a trovare una soluzione di mercato al dibattito sulle politiche d’immigrazione è rivelatrice della propensione a trasformare tutte le relazioni umane in relazioni di mercato. E ciò lascia segni etici profondi, poiché incoraggia la tendenza a pensare ai migranti unicamente in termini di calcolo costi-benefici, a persone il cui valore dipende dalla entità di “capitale umano” che sono in grado di investire – e quindi o come a fonti di reddito oppure come a oneri da scaricare, invece che a esseri umani dotati della capacità di scegliere dove poter costruire la propria esistenza.
Nel caso della mobilità o della circolazione dei talenti il problema rappresentato dal fatto di favorire i migranti più qualificati non è costituito dall’arbitrarietà morale. È improprio, infatti, parlare di discriminazione o di iniquità nelle possibilità di accesso, dal momento che la selezione viene compiuta sulla base dello standard di una società orientata al mercato, e questo standard è eguale per tutti. L’aspetto eticamente problematico di queste pratiche risiede altrove e investe molteplici aspetti. Anzitutto, esse alterano il principio di equità, sia nei confronti dei migranti potenziali destinati a rimanere esclusi, sia nei confronti della popolazione del paese di accoglienza, sia nei confronti di coloro che sono rimasti nei luoghi di origine. In secondo luogo, equiparando il “capitale umano” al capitale vero e proprio, trasformano le persone in atomi sociali performanti e competitivi, indotti a concepire se stessi nei termini di un’impresa che vende un servizio in un contesto di mercato. E infine, imponendo un ordine di mercato che non si identifica con lo scambio, il quale opera secondo un principio di equivalenza, ma con la concorrenza, che implica una logica di competizione in cui qualcuno vince e qualcuno perde, contribuiscono a indebolire lo spirito civico e il significato dei legami appartenenza.
Individuando nel “capitale umano” dei migranti la caratteristica cruciale sulla cui base decidere quali nuovi membri ammettere all’interno dei rispettivi paesi, i vari governi si propongono di trasmettere un duplice messaggio. Il primo è di controllo e si rivolge alle opinioni pubbliche nazionali, spesso disorientate e spaventate, per dimostrare che la capacità di respingere gli stranieri indesiderati – soprattutto quelli destinati a concorrere con i nativi nelle posizioni più svantaggiate e meno suscettibili di miglioramento – non è affatto venuta meno. Il secondo è di “attrattività” e si rivolge ai lavoratori dotati delle competenze cognitive capaci di inserirsi nel mercato del lavoro qualificato e di integrarsi positivamente nel tessuto produttivo, per dimostrare che il loro arrivo è bene accetto. Le strategie per correlare i flussi migratori con i bisogni occupazionali e le carenze nelle posizioni lavorative più qualificate finiscono così per creare un universo della migrazione parallelo a quello ordinario. L’uno – che si è affermata come l’ortodossia pressoché indiscussa – caratterizzato dalla chiusura delle frontiere e dal contrasto all’immigrazione indesiderata, l’altro caratterizzato da politiche per la migrazione qualificata, che cercano di sintonizzare i flussi dei migranti con le esigenze dei mercati del lavoro e dei sistemi economici alla ricerca di una migrazione just-in-time e to-the-point e che creano, a questo scopo, specifiche corsie preferenziali.
Si tratta di una competizione che utilizza regole che aspirano a presentarsi con un volto di neutralità, oggettività e imparzialità: sono le caratteristiche selettive, come il possesso di determinate risorse materiali o qualifiche spendibili sul mercato del lavoro, e non quelle ascrittive, come l’etnia, il genere o la religione, a essere considerate come un motivo valido per accettare gli outsiderall’interno della comunità. In realtà, gli abusi sono facilmente prevedibili e quasi inevitabili: sia per l’ambiguità del termine skills, che può riferirsi tanto a competenze tecniche quanto a competenze più vaghe come la capacità di lavorare di squadra, sia perché il concetto di qualifica è difficile da definire quando le caratteristiche richieste nei processi produttivi più avanzati si riferiscono a caratteristiche umane generiche come la socialità o l’adattabilità.
Nel momento in cui le autorità politiche si impegnano a concorrere nella corsa globale per accaparrarsi i talenti migliori e cercano di prevalere sulle controparti perfezionando e ricalibrando i flussi della migrazione qualificata, scelgono di considerare i migranti dal solo punto di vista dell’interesse nazionale, considerando le potenziali ricadute economiche di queste politiche quali altrettanti, e irrinunciabili, fattori essenziali di innovazione e crescita. Il punto decisivo, però, è che in questo modo aprono un varco alla possibilità che la razionalità basata sulla logica di mercato cominci a corrodere il significato dell’appartenenza, che viene trasformata in un bene che può essere comprato e venduto. È come se le reazioni normative dei detentori di capitale, sotto forma di aspettative e attribuzioni di ruolo, a cominciare dal ruolo di cittadino, fossero guidate da imperativi funzionali che si lasciano ricondurre a un solo ed esclusivo denominatore comune: la mercificazione dell’appartenenza e la sostituzione delle norme con valori di mercato.