Il poter del virus: tra biopolitica e psicopolitica

Ogni epoca ha la sua malattia.
La malattia di questa epoca è la viralità. Stiamo vivendo una emergenza di livello globale che mai ci saremmo immaginati di dover fronteggiare: la pandemia dovuta al Covid-19 è il nostro nemico mortale, la cui pericolosità è determinata dal suo essere invisibile e dal suo essere, incredibilmente, veloce. La velocità che caratterizza la diffusione del virus è comune alla velocità che caratterizza il modo di vivere il nostro tempo: tempestiva, automatica, letale. Siamo stati abituati a vivere in tempi fortemente accelerati con la sensazione sempre presente di esserci trasformati in automi, macchine in attività continua di produzione. Ed è proprio nel concetto di produzione che si innesca il controllo generato da un equivoco in atto: non produciamo più prodotti materiali, la materia stessa ha modificato la sua essenza. Oggi la materia si delinea come un progetto delle nostre esistenze: oggi, “materia” sono le informazioni che siamo abituati a produrre e a consumare. Con la rivoluzione digitale, poi, la materia prodotta circola libera nei canali virtuali, continuamente ri-prodotta, trova nella sua ri-producibilità l’analogia con le produzioni aziendali e nella velocità il suo marchio di fabbrica. Siamo nuovi soggetti materiali che manifestano l’essenza della loro presenza nella virtualità immateriale e nel loro essere virali: ci contagiamo di idee che ci vengono inculcate nella convinta illusione di essere liberi. Ma seppur dotati di nuova materia, quello che si delinea come nuovo progetto risulta sempre essere un corpo vivo che si muove nella realtà.

È una fotografia non priva di aspetti problematici quella che ci viene consegnata da Byung-Chul Han, il filosofo coreano naturalizzato tedesco la cui produzione letteraria compone, come un mosaico, un pensiero complesso in cui il confronto serrato con la contemporaneità oscilla tra oriente e occidente. L’incipit di Psicopolitica recita così:

La libertà sarà stata un episodio

Per “episodio”, in questa che appare come una frase lapidaria, sconnessa e decontestualizzata come è caratteristico del suo stile argomentativo, si intende una pausa, un intermezzo. La possibilità di realizzare la libertàè stata intravista e sperata nel passaggio all’era digitale, ma in realtà si è passati da un controllo biologico dei corpi, tipico del biopotere, all’avvento del controllo politico delle menti e delle anime tipico della psicopolitica digitale. La psicopolitica, sostiene Han, decreta la morte della biopolitica. Il bio-potere che agiva direttamente sui corpi e che regolava il regime disciplinare, concetto di origine foucaultiana, oggi è inadatto a pensare la situazione attuale, perché il controllo disciplinare è sorpassato nell’epoca del neoliberalismo. Il neoliberalismo, caratterizzato da forme di produzione post-industriali e immateriali, è, come scrive Han, il capitalismo dei like che dichiarano repentinamente la positività della nostra esistenza e anche delle nostre volontà, le quali sono guidate dall’illusione di volere e desiderare, mentre in alternativa non si dà negatività ma, semmai, una non esistenza. 

Il neoliberalismo regimenta nuovi servi hegeliani che non rispondono più a un altro padrone: servono se stessi. Servi e padroni coincidono in un equilibrio di autosfruttamento orizzontale. Siamo sedotti dal progetto della nostra stessa esistenza, coltiviamo proiezioni future sulla base di ciò che dobbiamo diventare. In questo modo la nostra catena di montaggio di autoproduzione consiste nel nutrimento continuo della rappresentazione virtuale che, pur allontanandoci gli uni dagli altri e isolandoci nella nostra individualità, educa le masse e ci piega al potere. Quale potere? Il potere di cui ci parla Han è il controllo delle menti, è il controllo virale che attraverso la virtualità ci accarezza benevolo e ci suggerisce quello che ritiene conveniente; non è un potere temuto e distaccato ma agisce attraverso il nostro inconscio e la nostra brama di approvazione: utilizza i nostri dati personali per piegarci alla sua volontà perché noi stessi gliene forniamo il consenso, siamo informazioni che generano informazioni e il nuovo potere lo sa. Il nuovo potere non osserva, il nuovo potere registra.

Ma che ne è del corpo in questa prospettiva di socialità virtuale psicopolitica? Nella sua ultima intervista pubblicata su El País, Byung-Chul Han commenta la pandemia mondiale mettendo a confronto le due modalità di contenimento (e di controllo) messe in atto in Europa e in Asia. La nuova pandemia, denuncia il filosofo, ha abbattuto il sistema immunitario già sufficientemente messo in crisi dal capitalismo, diffondendo la paura e il panico attraverso la digitalizzazione. Le misure di contenimento messe in atto dalla Cina sono da lui presentatecome più adeguate rispetto a quelle occidentali: l’Europa ha provveduto alla chiusura dei confini interni ed esterni, la Cina in più si è avvalsa dell’aiuto dei Big data e della utilizzazione senza remore di dati personali sensibili per poter controllare la propria popolazione, le sueabitudini, le sue esigenze, le sue libertà individuali. Dunque, se il nuovo potere psicopolitico non osserva ma registra, questa forma di controllo descritta e apparentemente approvata da Han nella gestione della emergenzaci consegna un nuovo tipo di sovrano: non è sovrano solo chi ha dati ma chi ha il potere di usarli sulla libertà dei singoli corpi. Il modello “Cina” peraltro non rappresenta una alternativa possibile per la nostra società occidentale e democratica ma, semmai, può rappresentare un modello da studiare e tenere a monito per evitare che l’emergenza possa agevolare l’invasione della nostra libertà personale. Il popolo asiatico, che sembra essere esaltato per la sua obbedienza, è obbediente perché obbligato. L’obbedienza non è una scelta consapevole, è l’assenza di una alternativa. Ecco che il potere di controllo psicopoltico, nell’ultima dichiarazione di Han, sembra reintrodurre come conseguenza inevitabile il controllo tipico di un regime disciplinare delle vite e delle loro azioni tramite i corpi. Ma il controllo dei corpi, ora, è voluto, richiesto e necessario (tanto in Oriente quanto in Occidente) per la salute individuale e quindi quella collettiva.

È vero tuttavia che, come afferma il filosofo coreano, il virus ci costringe a prenderci cura della nostra sopravvivenza individuale, ma non per questo deve necessariamente allontanarci: in questo caso particolare che stiamo vivendo, la sopravvivenza individuale coincide con la sopravvivenza dell’altro. La paura del virus si manifesta con la diffidenza dell’altro ed è anche su questo punto che si deve lavorare cambiando la narrazione: se la diffidenza diventa amore per l’altro, il mancato contatto con l’altro diventa cura.
I nostri corpi, oggi, prendono coscienza del mezzo che sono: portatori del virus che veicolano. A seguito delle misure governative prese dagli stati europei, il filosofo Giorgio Agamben ha denunciato a più riprese l’esagerazione delle precauzioni prese lanciando una invettiva contro la possibile minaccia per la democrazia che le nuove regole comportano, non comprendendo quale fosse l’effettivo pericolo mortale del virus. Il panico non riguarda solo i popoli e le singole coscienze, come osserva Žižek, riguarda anche gli stati nella loro organizzazione politica. Dunque, non si tratta necessariamente di punire o controllare, il potere psicopolitico non è ora separato dal potere biopolitico. Al contrario, i conflitti politici attuali si giocano proprio sul rapporto tra (psico)politica e vita biologica. La vita biologica necessita ora di essere pensata diversamente, in una dimensione interumana sia intercorporea che interpsichica. Il corpo animato deve essere ripensato e con esso anche lo spazio e il tempo in cui agisce. Byung Chul Han, alla tendenza alla accelerazione che caratterizza attualmente il nostro tempo, contrappone un diverso modo di vivere la temporalità, suggerendo la riscoperta della vita contemplativa ormai perduta. Non chiarisce però la modalità con cui farlo, e forse sarà questa la nuova sfida filosofica a venire, che parte da un punto decisivo: anche il tempo, ora, non è più democratico.



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