Scrittura e solitudine: tradurre Thoreau

Henry David Thoreau è conosciuto da buona parte dei lettori per i suoi capolavori Walden e Disobbedienza civile e per un ampio bacino di citazioni estrapolate dai suoi scritti.
Ma chi era davvero Thoreau e quale lavoro deve compiere un traduttore per entrare nel suo universo filosofico e linguistico? Lo abbiamo chiesto a Mauro Maraschi, curatore della raccolta
Io cammino da solo (Piano B, 2020).

Nella mia esperienza di traduttore la curatela di Io cammino da solo è stata finora la sfida più impegnativa, ambiziosa e al contempo soddisfacente.
Il volume è una selezione dei diari del filosofo trascendentalista Henry David Thoreau (1817-1862), noto principalmente per Disobbedienza civile (1849), saggio che ispirò Gandhi e Martin Luther King, e per Walden, ovvero vita nei boschi (1854), resoconto di un biennio trascorso nella natura in solitudine e autonomia, una sorta di “romanzo ecologico” che negli anni è diventato suo malgrado un feticcio della decrescita.
Ma Thoreau fu un uomo complesso e un pensatore discontinuo, e circoscriverlo a queste due opere non consente di comprenderlo appieno. Ecco perché ho proposto all’editore Piano B di ripubblicarne i diari, che Thoreau non concepì come un confessionale privato bensì come un’officina di auto-perfezionamento e un’opera da poter divulgare: «Come se il mio diario non fosse nascosto nel cassetto della mia scrivania, bensì pubblico come qualsiasi altra foglia in Natura».[1]

Il progetto alla base di Io cammino da solo prevedeva una selezione che orbitasse intorno al rapporto tra scrittura e solitudine: mi sembrava un binomio illuminante in un’epoca come la nostra, nella quale agli scrittori è richiesto di apparire in veste di performer, opinionisti, docenti, giurati, giornalisti e influencer. Secondo Thoreau la solitudine è un presupposto imprescindibile per una “espressione” autentica, e ancora oggi sono in molti a pensarla come lui. Il progetto iniziale, però, era destinato a diventare tutt’altro.
Prima di imbarcarmi in questa impresa ero convinto di conoscere Thoreau in modo approfondito, ma avevo sottovalutato la mole e la densità dei diari (oltre due milioni di parole, quasi il doppio della Recherche di Proust), nonché le loro significative dinamiche interne, preziosamente analizzate da Nocera[2].

Thoreau iniziò a scrivere i suoi diari nel 1837, poco più che ventenne, e andò avanti per venticinque anni, trattando e intrecciando un numero considerevole di argomenti.
Thoreau fu d’altronde molte cose: poeta, classicista, insegnante, agrimensore, eremita, conferenziere e attivista, ma soprattutto uomo pratico e dalla grande manualità («Erano poche le cose che non sapesse fare. Sapeva costruire una casa, una barca, una matita e un libro. […] Sapeva correre veloce, arrampicare, pattinare, nuotare e governare una barca»[3]); tutte queste identità si influenzarono a vicenda e portarono Thoreau a produrre argomentazioni dai molteplici piani di lettura. Il risultato è che, nei diari come altrove, una misurazione da agrimensore diventa lo spunto per una speculazione mistica, gli strumenti della botanica alimentano giochi linguistici, un lutto[4] si trasforma in una riflessione sul valore della perdita, e così via; e se il vissuto è fonte del letterario, per Thoreau il pensiero è meritevole soltanto quando innesca l’azione («Un libro è davvero buono quando si guadagna ben poca attenzione. È talmente stimolante che mi invoglia a fare piuttosto che a leggerlo»[5]).
Questo è uno dei motivi per cui, pur essendo tra gli autori più citati di sempre, Thoreau è anche tra quelli più fraintesi: tanto è facile estrapolare le sue “sentenze” per trasformarle in aforismi o slogan, quanto è probabile che esse soffrano di uno slittamento di senso e concorrano alla percezione diffusa di un autore contraddittorio.

Paul Gauguin, Le Ruisseau, Osny

Da lettore sono sempre stato interessato al concetto di citazione e, in senso più ampio, a quello della rielaborazione testuale, ma da quando mi occupo di revisioni quello che era un hobby si è trasformato in un lavoro e in una divertita ossessione. Ho notato che spesso, sia nella narrativa che nella saggistica divulgativa, gli autori citano un determinato volume, inserendolo magari nella bibliografia, quando di esso conoscono soltanto quelle tre righe già citate altrove. Un telefono senza fili che può avere conseguenze comiche, e che talvolta può nuocere sia ai citati che ai citatori.
La citabilità di Thoreau non è dovuta soltanto alla forza e alla nobiltà del suo pensiero, ma anche all’incisività delle sue proposizioni, una qualità legata a uno specifico metodo di scrittura: Thoreau recuperava periodicamente il materiale di cui era più soddisfatto, o del quale aveva testato l’efficacia di fronte a un sodale o al pubblico di una conferenza, e lo inseriva nei nuovi scritti per accrescerne la forza. È per via di questa incisività che il web esonda di meme e citazioni che sono il più delle volte repliche di altri meme e di altre citazioni: la percentuale di aforismi estrapolati direttamente dalla fonte è molto bassa.
Questo fenomeno riguarda ovviamente moltissimi autori: si pensi all’ampia diffusione, in anni recenti, della massima «Imparerai a tue spese che nel lungo tragitto della vita incontrerai tante maschere e pochi volti», attribuita a Pirandello ma assente da qualsiasi sua opera: certo, la frase potrebbe essere rappresentativa del pensiero del drammaturgo siciliano, ma nessuno ha interesse a verificare che sia mai stata scritta in quella precisa forma.
Meccanismi virali di questo tipo fanno sì che non vi sia alcuna proporzionalità diretta tra la notorietà di un autore e la sua conoscenza da parte del pubblico.
A differenza di Wilde, Thoreau non ha mai scritto aforismi intesi come tali: le sue frasi più note sono frammenti di riflessioni, e la loro forza deriva proprio dall’essere il culmine di un thought process all’interno del quale hanno interagito alchemicamente numerosi interessi: botanica, mistica, società, libertà, letteratura e via dicendo.

In corso d’opera ho quindi capito che quelle frasi dovevano tornare al loro posto, e che la loro profondità sarebbe stata proporzionale alla quantità di contesto ripristinata. Di conseguenza, considerato che in Thoreau tutti i temi coesistono costantemente in ogni istante, ho dovuto abbandonare l’idea di una selezione tematica. È stato Thoreau a chiedermelo: «Credo che i pensieri riportati in un diario trarrebbero grande vantaggio dall’essere stampati nella forma in cui sono stati scritti, piuttosto che raggruppati per temi in saggi autonomi. D’altronde sono legati alla vita, e così disposti sembrerebbero più verosimili al lettore. Sarebbe più semplice, meno artificioso. […] Un fiore non può essere più bello in un bouquet che nel prato in cui è cresciuto e sul quale ci siamo bagnati i piedi per raggiungerlo!»[6].
Per tutti questi motivi Io cammino da solo si è presto orientato verso uno zibaldone eterogeneo ed enciclopedico (il doppio della mole preventivata). Gli aforismi più noti di Thoreau ci sono tutti, ma sta al lettore re-individuarli nel loro habitat naturale.
Anche le opere principali di Thoreau affondano le loro radici nei diari, che ne accolsero parte dei passaggi più riusciti, in seguito rimanipolati all’interno di saggi strutturati (in Io cammino da solo un’alta percentuale di questi prestiti è segnalata in nota), per cui il mio compito è stato semplicemente quello di rimettere ogni cosa a suo posto. A quel punto, stabilito un metodo di selezione, ho potuto concentrarmi sulla traduzione in sé.

È opinione diffusa che, dal punto di vista linguistico, sintattico ed espressivo, Thoreau non sia tra gli autori in lingua inglese più accessibili o inequivocabili. Lo stesso lavoro sarebbe risultato molto più oneroso senza il confronto con alcune delle selezioni precedenti, in particolare Vita di uno scrittore, a cura di Biancamaria Tedeschini Lalli (Neri Pozza, 1963), L’agire del mondo, a cura di Laura Dassow Walls (Donzelli, 2008) e La semplice verità, a cura di Stefano Paolucci (Piano B, 2012).
Oltre a fare largo uso di metafore, similitudini e analogie, nei primi anni Thoreau si concede frequenti slanci poetici, non disprezza i giochi di parole e abbonda con riferimenti culturali non sempre accessibili. Per contro, come il suo mentore Ralph Waldo Emerson (1803-1882), Thoreau mira a una sorta di grado zero della scrittura, a un abbattimento degli automatismi di significazione volto a creare un immaginario linguistico autonomo ed “ermafrodita”, come l’avrebbe definito lui stesso.
A questo scopo Thoreau costruisce un vocabolario tutto suo, nel quale determinati lemmi hanno significati specifici: to expand indica una corretta crescita spirituale ed esistenziale; impulse è qualcosa di più del semplice istinto; constitution si riferisce all’essenza di un individuo e non al suo corpo; sentence può identificare un’affermazione apodittica e non una semplice frase, e in quei casi è stato pertanto tradotto con sentenza; e così via. Allo stesso modo, il genius di un uomo non è il suo ingegno quanto una guida spirituale, o ispirazione divina, simile al dáimon di Socrate; e ancora, quando Thoreau parla di divinità lo fa nell’accezione del panteismo naturalistico goethiano, nel quale “Natura”, “Dio” e “Universo” sono sinonimi, e mai aderendo a un credo specifico, poiché «per il filosofo tutte le correnti e le culture sono uguali»[7] e «non c’è una sola buona ragione per preferire una religione all’altra»[8].
Al contempo, altre parole assumono un significato vago e universale: per fare un esempio, a meno che non stia parlando di versi, Thoreau utilizza poet come sinonimo di wise man e philosopher per indicare chiunque abbia deciso di “elevarsi” da una vita dominata da doveri, bisogni e mondanità. Questi e altri usi specifici sono stati segnalati in modi diversi all’interno di Io cammino da solo, che in tal senso vuole essere uno strumento di comprensione di Thoreau sul piano linguistico più profondo.

Più complesso il trattamento di fauna e flora. Una rosa è una rosa, ma non tutti gli elementi della natura sono altrettanto universali. Anche se la nomenclatura binomia consente di riconoscere ogni esemplare a qualsiasi latitudine, non è detto che esso abbia ovunque un nome comune: è il caso del button bush (Cephalanthus occidentalis, Linneo, 1753), diffuso soltanto in Nordamerica e molto caro a Thoreau, due motivi che mi hanno costretto a non tradurlo.
Un caso più complesso è quello del sucker, termine col quale Thoreau si riferisce al white sucker, il pesce ventosa (Catostomus commersonii, Lacépède, 1803), ma qualche volta anche allo yellow-bellied sapsucker, o picchio panciagialla (Sphyrapicus varius, Linneo, 1766); qui è il contesto a chiarire di cosa stia parlando Thoreau, anche se in questo caso io ho comunque rischiato di sbagliare e devo la corretta traduzione a Paolucci, curatore tra l’altro di Tra cielo e terra (Piano B, 2018), selezione dei diari di Thoreau incentrata sull’osservazione dei volatili.
Ci sono poi dei casi in cui il nome comune esiste ma è molto meno familiare al lettore italiano rispetto al suo equivalente inglese per il lettore anglofono: per fare un esempio, quando Thoreau parla di partridge non si riferisce alla pernice, com’è stato tradotto altrove, bensì al tetraone dal collare (Bonasa umbellus, Linneo, 1766), che abita le foreste comprese fra i monti Appalachi, il Canada e l’Alaska; questo dettaglio (ancora una volta identificato da Paolucci) mi ha costretto a tradurre «You must be conversant with things for a long time to know much about them […] as the partridge and the rabbit are acquainted with the thickets» in questo modo: «Bisogna frequentare a lungo le cose per poter dire di conoscerle […] quanto il tetraone e il coniglio sono in confidenza con la selva»[9]. È ovvio che “pernice” avrebbe reso più fluida la lettura (“Un tetracosa?” si chiederanno in molti), ma in questo caso, per tanti motivi, ho optato per la precisione scientifica.

Per contro, mi sono concesso una sola discutibile manipolazione. Thoreau usa irishman come sinonimo di manovale e ubriacone. Ora, basta conoscere un minimo Thoreau, e il suo rispetto per tutte le culture e tutti i mestieri, per contestualizzare e ignorare quest’unica caduta di stile. Come nota Piero Sanavio: «Quanto alla condizione operaia, gli operai che Thoreau era in grado di conoscere più da vicino erano gli immigrati irlandesi dei quali in Walden dà spietate descrizioni — strumenti pronti a lasciarsi sfruttare e dividere, farsi trasformare in mezzi meccanici che producono nell’interesse altrui e hanno identificato il proprio tornaconto con quello della classe dalla quale sono sfruttati. Disprezzo? Semmai irritazione per la loro ignoranza e insieme a essa, però, anche una risentita, innegata pietà»[10].
Pertanto, mi sono limitato a “manovale” o “ubriacone” quando non c’era alcuna connessione con le origini etniche, mentre ho mantenuto irishman laddove i connotati negativi, pur usati con ironia, hanno ceduto il passo alla condizione esistenziale del soggetto: «Circa tre settimane fa, mi sono indignato quando ho scoperto che uno dei miei concittadini, già noto per la sua avidità, ha cercato di accaparrarsi un premio di quattro dollari che un suo povero dipendente irlandese si era guadagnato spalando un quarto d’ora alla Fiera Agricola»[11].

Altro elemento importante sono le citazioni bibliche. Thoreau era un buon conoscitore dei testi sacri: ostile alla Chiesa, rispettava tutte le religioni dal punto di vista filosofico.
Sono frequenti le frasi di ispirazione biblica segnalate dal ricorso all’inglese antico: in quei casi si può essere reso necessario tradurre un vocabolo diversamente che altrove; per fare un esempio, «If thy neighbor hail thee to inquire how goes the world, feel thyself put to thy trumps to return a true and explicit answer» è diventata «Se il tuo prossimo ti saluta per chiederti come va il mondo, sentiti libero di dargli una risposta sincera ed esplicita»[12], ed è l’unico caso in cui ho tradotto neighbor con “prossimo” piuttosto che con “vicino”.
Per comprendere a fondo un autore, però, è fondamentale intercettarne i riferimenti meno lampanti; ecco perché ho inserito diversi passaggi, magari non memorabili, nei quali Thoreau cita opere inaccessibili al lettore italiano e spesso anche a quello anglofono, come l’ormai ignoto romanzo cinese Ju-Kiao-Li, “Le due belle cugine”, di Zhang Yun, tradotto in inglese (a partire dalla versione francese) nel 1827; recuperando parte delle sue fonti, spero di aver restituito l’immagine di un lettore avido, curioso e intelligente, allontanando Thoreau dallo stereotipo dell’uomo tetragono e chiuso in sé: a ogni opera citata, per il lettore diviene più facile ricostruire il contesto culturale di quegli anni, gli scambi tra Thoreau e gli altri pensatori, nonché il modo in cui circolava la cultura in America a metà dell’Ottocento.

Henry David Thoreau, Io cammino da solo (Piano B, 2020)

Non basta un articolo per rendere l’idea del lavoro di indagine filologica alle spalle della traduzione di Io cammino da solo. Disamine di questo tipo sono più comuni nel caso di autori maggiormente riconosciuti dal punto di vista contenutistico e/o formale, mentre Thoreau è considerato più un’icona di rilevanza storicopolitica che uno scrittore, per quanto non manchino analisi dettagliate di vario stampo, soprattutto in ambito accademico anglofono. Sia chiaro soltanto che la relativa abbondanza di note di Io cammino da solo, note che sono di rado critiche e il più delle volte enciclopediche, rientra in un preciso progetto di rivalutazione e approfondimento dell’autore.

[1] Journal, 8 febbraio 1841.
[2] G. Nocera, Il Journal di Thoreau. Un modello di scrittura dell’universo, editpress, 2012.
[3] Robert Louis Stevenson, Il re barbaro. Un ritratto di Henry David Thoreau (1880), Roma, Edizioni dell’Asino, Roma, 2012, pag.13.
[4] vedi la perdita del fratello John, nel 1842.
[5] Journal, 19 febbraio 1841.
[6] Journal, 27 gennaio 1852.
[7] Journal, maggio 1850.
[8] Journal, 3 aprile 1858.
[9] Journal, 18 novembre 1851.
[10] Piero Sanavio, prefazione di Thoreau, Walden, ovvero la vita nei boschi (1854), BUR, 2001.
[11] Journal, 1 novembre 1853.
[12] Journal, 14 marzo 1838.



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