Il 20 marzo 1770 nasceva a Lauffen am Neckar il poeta Friedrich Hölderlin, una delle figure più rilevanti della letteratura tedesca e mondiale.
In occasione del suo duecentocinquantesimo anniversario, Scenari pubblica un ritatto firmato da Azzurra D’Agostino.
«Ci sono in ogni tempo e in ogni lingua versi che continuano a brillare», ha scritto Antonio Prete, e mi sento di aggiungere che brillano di una luce talmente misteriosa da risultare quasi sinistra.
Di certo tra i poeti che, nei secoli, continuano a interrogarci e spaventarci possiamo annoverare Hölderlin, che porta in sé, tra i tratti più inquietanti, la questione dell’irriducibile alterità.
Questa distanza dalla vita, per avere conficcato lo sguardo appieno e così a fondo nella vita stessa, la ritroviamo in alcuni punti centrali della sua produzione, oltre che nella sua biografia.
Nell’acutissimo La letteratura e gli dei (Adelphi, 2001), Roberto Calasso dedica varie pagine alla questione di come Hölderlin sia stato non solo il primo ma anche il più profondo interprete occidentale, dopo l’antichità, della lingua comune a uomini e dèi, diciamo così. Calasso indaga nel saggio la sparizione nel nostro mondo della divinità in senso greco, divinità intesa come ‘qualcosa che accade’, un evento nel suo farsi. Qualcosa che ha a che fare con un movimento, qualcosa di misterioso che viene seguito da dèi e uomini insieme, in una giostra che li avvicina e li allontana nel tempo. Secondo Hölderlin, sostiene Calasso, capire la legge di quel movimento è tutto. E, conclude, l’unico modo in cui nell’ozioso e inerte presente essi possono comunicare, senza che la memoria dei celesti si estingua, è l’infedeltà.
Non si tratta solo qui, sebbene l’affinità etimologica, di traduzione, di conversione del muto nel sonoro, nonostante non si possa che concordare con le riflessioni di Novalis quando scriveva che accogliendo la lingua muta e senza nome delle cose e trasponendola in suoni nel nome, l’uomo risolve il suo compito. L’infedeltà di cui parla Hölderlin sembra andare ancora più a fondo, superare il tradimento per cercare una radice in cui il linguaggio si faccia dispaccio per la divinità, possibilità di incontro se non addirittura di mescolanza.
Per tale ragione il suo rapporto con i classici ha in sé qualcosa di vivente e vivificante, e mai si ha l’impressione di camminare in una galleria di statue immobili. Con lui entriamo in un tempo sovra o extra-storico, dove le genti, i popoli, le lingue di ogni era, si mescolano in un impasto immaginifico e denso, capace di mettere ombre e intuizioni in versi, nei quali tutto riluce di vita profonda.
Questo andirivieni per le strade del tempo e dell’abisso si riverbera nella vita del poeta, se vogliamo guardarla non secondo le categorie dello psichiatrico e psicologico, ma fermandoci sulla soglia dell’emblema.
I molti nomi che il poeta decise di adottare, o meglio dietro i quali decise di perdersi, di sfarsi come alla ricerca di un’unità nel molteplice, sono sintetizzabili nella scelta di appellarsi a tratti come ‘umile bibliotecario’. L’immagine del poeta come custode di una biblioteca, in cui volumi, parole, storie altrui e proprie si affastellano in scaffalature tutte interiori, togliendo di mezzo l’esistenza individuale (nella quale egli per un certo tratto svolse questo mestiere presso il Langravio Ludwig von Hessen Homburg) per dare spazio a un intero palazzo di voci altre, ci racconta ancora della questione dell’infedeltà. Quasi che Hölderlin avesse a un certo punto voluto abdicare alla propria biografia per concedere maggiore spazio al molteplice, ai numerosi e sempre falliti tentativi di scoprire quel moto segreto del mondo.
L’isolamento, anche fisico, nel momento in cui si costrinse nella ‘torre’, tutt’altro che d’avorio, della casa del falegname Zimmer, non ha a che fare qui con un allontanamento nel senso di chiusura verso l’altro, bensì con una sorta di precauzione affinché gli scorni dell’attualità e della cronaca non distraessero lo sguardo, puntato sul fondo delle cose. O, forse, sarebbe più corretto parlare di un altro senso, dell’udito in quanto ascolto delle voci, piuttosto che del senso della vista. E questo dell’ascolto è il nodo centrale.
Nel momento in cui Marianne Schneider mi ha proposto di tradurre a quattro mani il radiodramma che Stefan Hermlin scrisse (di nuovo, dando predominanza all’udito rispetto alla vista) per raccontare la fase in cui Hölderlin divenne Scardanelli, mi sono trovata a ragionare proprio sulla questione dell’oralità e dell’aspetto acustico della parola. Questo non soltanto per ripercorrere il ritmo del testo tra tedesco e italiano, ma anche come punto teorico imprescindibile nel momento in cui ci si accosta alla poesia.
Le affinità tra Hermlin e Hölderlin sono un dato affascinante: non solo per la passione che lo scrittore novecentesco provava per il poeta di due secoli prima, ma anche per la loro vicinanza con la questione dell’esilio (dentro e fuori la patria). Un esilio fatto di indizi, di richiami, di coincidenze storiche, di disconoscimenti. Una vicinanza volatile e intangibile tra due interiorità, un canto comune che si leva da due tempi e modi assai lontani. Tanto che Hermlin a un certo punto sentì il bisogno di scrivere un’opera, pensata per l’ascolto, sulle voci che affollavano il mondo di Hölderlin nel lungo periodo in cui si rinchiuse sulle rive del Neckar.
La scelta non cade su una versione che voglia prendere in esame la presunta schizofrenia del poeta, ma nemmeno si tratta di un’idealizzazione della vicenda come di una scelta del tutto conscia.Ci si trova semplicemente lì, nel mezzo di conversazioni, a tratti malevole, a tratti idilliche, a tratti dense di versi, in un andirivieni di tempi e personaggi che hanno fatto la vita del poeta e la storia della letteratura (non soltanto tedesca).
Il flusso interiore ritratto, pare speculare all’impasto di ere e di luoghi che il poeta ha portato, in tutta la sua produzione, alla ricerca di un dire originario, di una parola che risulta sempre altra perché si ritrova pronunciata, appunto, in terra straniera.Il corpo isolato del poeta diventa estraneo al suo mondo, la sua voce estranea al suo tempo.
Non pare inconsueto che la produzione di Hölderlin sia rimasta a lungo marginale, per esplodere poi nel Novecento anche in Italia (dopo alcune parentesi ottocentesche, con la predilezione del Carducci ad esempio, come spiega Giovanni Cordibella nel suo Hölderlin in Italia – la ricezione letteraria, Il Mulino, 2009). Il secolo passato pone Hölderlin come inquieto e solitario precursore delle lacerazioni che lo attraverseranno e che consegneranno al nuovo millennio un mondo stravolto e confuso, in cui le moltitudini si ritrovano mescolate e smarrite, prive di chiari punti di riferimento.
Per tutte queste ragioni, tra le tante poesie che avremmo potuto tentare di tradurre insieme, la scelta di Marianne e mia è caduta su Die Wanderung, che ho proposto di intitolare “La migrazione”.
Un testo che comprende in sé molti di questi temi: l’incontro tra popoli, la mescolanza tra le lingue e i tempi, la questione dell’estraneità, il legame con l’antichità quale terra mitica in cui tentare fertile amicizia, la creazione di una ‘stirpe’ non come elezione di sangue, ma come fondamento di un’origine a cui, infedelmente, tendere.
La migrazione
(traduzione di A. D’Agostino e M. Schneider, in Scardanelli/Hölderlin, Mimesis, 2016)
O Svevia benedetta, madre mia,
tu pure, come la più splendente, la sorella
lombarda là accanto, come lei
attraversata da cento ruscelli!E alberi in abbondanza con fiori bianchi e rosa,
e altri più scuri, selvaggi, pieni di fogliame di profondo verde
con le cime delle Alpi Svizzere che ti fanno ombra
in vicinanza; poiché proprio là, accanto al focolaretu
abiti e lì dentro senti sgorgare
da argentee paterela
sorgente, versatada
mani pure se toccato
da raggi caldi
è il ghiaccio cristallino rovesciato
da un leggero tocco di luce
quando la cima nevosa lo versa sulla terra
con l’acqua più pura. Per questo
ti è innata la fedeltà. Difficilmente ciò che abita
presso l’origine ne abbandona il luogo.
E le tue figlie, le città
sul lago che riflette le lontananze,
sui pascoli del Neckar, sul Reno
tutte credono che non ci sarebbe
nessun posto migliore di questo da abitare.
Ma io voglio andare verso il Caucaso!
Ho infatti sentito dire che
ancora oggi, nell’aria
liberi sono, come rondini, i poeti.
E pure, aggiungo, in più vicini giorni
qualcosa mi ha confidato
che prima ancora dei tempi antichi
i progenitori, la stirpe tedesca,
tranquilli abbiano lasciato le onde del Danubio
un giorno d’estate, e mentre cercavano ombra
nello stesso momento i Figli del Sole
sono arrivati sul Mar Nero
che non per niente viene chiamato Ponto Eusino, l’ospitale.
Dapprima si erano guardati
poi gli Altri si avvicinarono e infine
anche i Nostri si sedettero sotto l’ulivo.
Allora le loro vesti si toccarono
e nessuno poteva capire
il discorso dell’altro e sarebbe
forse nata una lite se non fosse
scesa dai rami quella frescura
che spesso distende un sorriso
sul viso dei litiganti; e per un po’
rimasero zitti a guardare in alto,
poi si dettero amorevolmente
le mani. E presto
si scambiarono le armi e tutti
i più cari beni della casa,
si scambiarono anche la Parola e nient’altro
auguravano gli amichevoli padri
che i giubili delle nozze ai loro figli.
Poiché dai sacri sposalizi
nacque il bene supremo
quella che a un certo punto
è stata chiamata
dagli uomini una stirpe. Dove
ma dove abitate, cari parenti,
affinché nuovamente possiamo stringere alleanza
in memoria dei cari antenati?
Là alle rive, sotto gli alberi
della Ionia, nelle pianure del Caistro,
dove le gru, le allegre dell’etere,
sono circondate dai monti che baluginano lontano,
là eravate anche voi, o Bellissimi!, o coltivavate
le isole, che coronate di vinori
suonavano di canti; altri ancora abitavano
vicino al Taigeto, al molto lodato Imetto,
e quelli fiorirono ultimi; ma dalla
sorgente del Parnasso fino al Tmolo
con i ruscelli splendenti d’oro risuonò
un canto eterno; così allora
stormivano i boschi e tutte
le arie cantate insieme,
mosse da celeste dolcezza.
O paese di Omero!
Sotto il purpureo ciliegio, o quando
nel vigneto, inviatemi da te
inverdiscono le giovani pesche,
e la rondine viene da lontano e molto racconta
e sui miei muri costruisce la casa nei
giorni di maggio, allora – e anche sotto le stelle,
o Ionia – la memoria va a te! Ma gli uomini
amano il presente. Perciò sono
Venuto a vedervi, voi isole, e voi
foci dei fiumi, o voi porticati di Teti,
voi boschi, voi, e voi, voi nubi del monte Ida.
Ma non penso di restare.
Inospitale è, e difficile da convincere,
la fortezza alla quale sono sfuggito, la Madre.
Uno dei suoi figli, il Reno,
con forza le si voleva buttare al cuore e sparì,
il respinto, nessuno sa dove, in lontananza.
Non in questo modo vorrei essermi allontanato
da lei e ora solo per invitarvi
a Voi sono venuto, o Grazie della Grecia,
o Figlie del cielo
che se il viaggio non è troppo lungo,
Voi verrete da noi, o propizie!
Quando l’aria palpita mite
e frecce amorose manda la mattina
a noi troppo pazienti,e leggere nuvolette ci fioriscono
sopra i timidi occhi
allora potremo dire come venite
Voi, Grazie, dai selvaggi?
Le serve del cielo però
sono meravigliosecome tutto quanto nato dagli Dei.
In sogni sarà trasformato quello
che di soppiatto si avvicina, e castigato quello
che con la forza vuole somigliargli
Spesso sorprende uno
che l’ha appena pensato.
N.D.T.
In una seconda versione questa ultima strofa viene sostituita dalla seguente[1]:
Intanto lasciami camminare
e cogliere bacche selvatiche
per smorzare l’amore per te
nei tuoi sentieri, o Terra.
Qui dove rose
spinose crescono sul pendio
e i dolci tigli profumano accanto
ai faggi, il meriggio, quando nel pallido campo di grano
fruscia la crescita del dritto stelo
e la spiga piega il capo da un latocome in autunno, allora io là, sotto la alta
volta delle querce, io rifletto
e cerco in alto la risposta, il rintocco di campana
che conosco bene
risuona in lontananza, con uno scampanellio d’oro, nell’ora in cui
si risveglia l’uccello. Così va bene.
[1] Prima pubblicazione della prima versione in D.E. Sattler, F. Hölderlin, S. Werke, Flora. Teutschlands Töchtern geweiht (Ottobre 1802), Frankfurter Ausgabe, Francoforte 2000, vol. 8 (Gesänge II), p. 617 ss.Prima pubblicazione della seconda versione in D.E. Sattler, F. Hölderlin, S. Werke, Musenalmanch von Leo von Seckendorf für das Jahr 1807, cit., p. 979 ss.