Valorizzazione della Cultura e tradizione culturale
La maggior parte delle persone crede oggi di vivere nel migliore dei mondi possibili. A livello culturale, poi, si presuppone di essere “informati”, e quindi, ipso facto, “acculturati” (posto che sussista davvero una qualche forma di analogia), sebbene ci si trovi dinnanzi ad un processo massivo di regressione e di “esternalizzazione” della memoria e dei dati realmente conosciuti, che pare non accennare a estinguersi o a invertire il proprio corso o la propria direzione di marcia (verso). Un tale atteggiamento, peraltro, comporta, inevitabilmente, una inesorabile perdita di presa critica sul ‘reale’, sia vissuto che storico (oltre che meta-teorico), e questo accade – paradossalmente – proprio nella prima era di massima e totale disponibilità (per accesso, divulgazione e costo) dei testi scritti (e manoscritti). Quelli ‘veri’, per intenderci, che come stelle già eclissate nella notte più scura della Storia compongono ancora, con l’invio della loro luce, il più bel cielo stellato dell’umanità. Oggi più che mai s’impone tuttavia un’autentica riflessione attorno al concetto di “Cultura”, del tutto abusato, decisamente distorto e troppo spesso confuso – o impropriamente assimilato – a quello di “tradizione”.
La Cultura la si misura anzitutto ‘intensivamente’ (intensive) e qualitativamente nella sua capacità di generare ricchezza (umana ed esistenziale in primis). Essa, come la Tecnica, opera da moltiplicatore esponenziale dell’attività progettuale umana. Non va “a peso”, e non produce immediatamente ricchezza, ma crea i presupposti per una condizione futura (a medio e lungo termine, ma già in sé operante e riconoscente in chi la esercita) di prosperità e di ricchezza interiore, rappresentando inoltre la sola via di accesso per la costituzione di un “paesaggio” umano autentico. Questo discorso, del resto, è particolarmente valido per un Paese in cui la Cultura riveste – e dovrebbe rivestire – un ruolo strategico per la crescita esistenziale e sociale (ben oltre che per lo sviluppo commerciale o per il turismo), e per una determinata e condivisa idea di futuro. Certo, la questione è pur sempre duplice. Occorre infatti domandarsi, in primis, di quale Cultura si stia parlando (?), vale a dire di quella del Vinitaly o di Eataly (in chiave più attuale), o ancora dei “Borghi d’Italia”, oppure, più propriamente, di quella di Gentile, Giotto, Vitruvio, Gae Aulenti, Gavina, Pitagora, Aristotele, Tommaso d’Aquino, Kant, di Marin Marais e del Barocco di Claude Perrault, oltre che dell’Illuminismo di Émilie du Châtelet? Si tratterebbe inoltre, in secondo luogo, di chiedersi quali dirigenti (e con quale formazione!) siano in grado di operare attivamente e sinergicamente un tale cambiamento (?), perché se oggi la Politica e i media “coltivano” la manipolazione per immagini e l’analfabetismo di ritorno, che impone a sua volta campagne elettorali a-culturali e concentrate sul dinamismo pulsionale ed immediato di una libido inconscia – e pertanto su aspettative a-cefale, destrutturate ed an-estetiche –, allora siamo dinanzi ad un Paese da Alto Medioevo (e pre-scholastico, cioè ancora senza università e ‘facoltà’), destinato all’agricoltura e alla pastorizia, da un lato, al vassallaggio e allo sfruttamento del lavoro a basso prezzo, dall’altro. Perché se è vero che la qualità dell’artigiano deve pur sempre poter essere da questi consapevolmente assunta, e pertanto riconosciuta, è altresì vero che un tale riconoscimento può avvenire solo ad opera di una mente a sua volta consapevole ‘della’, ed educata ‘alla’, dimensione “qualitativa” di ciò che rende una semplice attività umana un opus degno di valore.
Tale guadagno costituisce un a priori fondamentale (formaliter) rispetto al problema pur sempre rilevante della possibilità di stampare moneta, di svalutare e di gestire direttamente il proprio debito pubblico (materialiter), ovvero la questione attorno al recupero della propria “Sovranità”, che rimane solo una condizione pur sempre necessaria ma non affatto sufficiente, vale a dire non costitutiva, del problema, poiché anche recuperando la sovranità monetaria e sul “proprio” debito, resterebbe pur sempre il problema (in questo senso eminentemente rinascimentale) di cosa fare e di come investire questa ricchezza nell’orientamento al senso, per la costituzione di un futuro socio-politico possibile e conveniente, articolato e composto in un quadro d’insieme che sia, per citare Vitruvio e i tre canoni del suo De Architectura: 1. strutturato (cioè solido), 2. funzionale (vale a dire costruito a partire da un’attività fondamentale antecedentemente determinata) ed 3. estetico (ovvero sensibilmente conforme all’aspettativa umana).
Certo la Cultura, nella sua parte di ricerca teorica fondamentale, è molto ‘tecnica’ (τέχνη, ars, arte) ed apparentemente inutile per il Paese, l’etica pubblica e l’economia, oltre che, a prima (s-)vista, poco seducente. In realtà, recuperando una preziosissima distinzione scolastica (la Scholastica che ha creato le università medioevali e le scuole cattedrali, vale a dire il mondo moderno occidentale che conosciamo, e di cui, per un vuoto e superficiale narcisismo, mai ci vantiamo di aver creato) ed una citazione aristotelica [per cui: «ciò che è ultimo nell’analisi è primo nella costruzione. E se ci si imbatte in qualcosa di impossibile, ci si rinuncia (…). Se, invece, la cosa si rivela possibile, ci si accinge ad agire» (Etica nicomachea, 1112 b, 23-25)], tale attività culturale risulta indispensabile per comprendere che il “fatto”, ed ogni sua ‘analisi’ relativa, in quanto creazione inventiva (cfr. ars inveniendi), non è mai ‘normativo’ (cioè non ci fornisce alcuna norma o ‘legge’ in relazione all’agire) e non s’impone mai ab extra, e che pertanto il problema non è mai “dato” nelle cose stesse (in re), ma nel nostro andare alle cose (in rem), vale a dire nel nostro modo di fare esperienza del mondo in rapporto a noi, alle nostre facoltà, alla nostra pre-comprensione ed al nostro vissuto psico-esistenziale. Poiché, come giustamente afferma Kant nella sua Critica della ragione pura – e con quello che risuona come un monito per la storia dell’umanità, nell’eterno ed indistricabile alternarsi sinuoso, sinergico e simultaneo di passività e recettività – “ogni analisi presuppone sempre una sintesi”:
«§. 15. Sulla possibilità di una congiunzione in generale. Il molteplice della rappresentazione può venir dato in un’intuizione, che è semplicemente sensibile, cioè null’altro che recettività, e la forma di questa intuizione può trovarsi a priori nella nostra facoltà di rappresentazione [Vorstellungsvermögen], senza tuttavia essere null’altro che il modo in cui il soggetto viene modificato. Tuttavia, la congiunzione (conjunctio) [e qui risiede oggi il vero potere manipolativo, ndr] di un molteplice in generale non può mai entrare in noi attraverso i sensi, e quindi non può neppure essere già contenuta nella forma pura dell’intuizione sensibile. In effetti, tale congiunzione è un atto della spontaneità della capacità di rappresentazione [Vorstellungskraft], e poiché tale spontaneità, per distinguerla dalla sensibilità, occorre chiamarla intelletto, allora ogni congiunzione […] è un atto dell’intelletto, che designeremo con la denominazione generale di sintesi, per fare così osservare in pari tempo, che noi non possiamo rappresentarci alcunché come congiunto nell’oggetto, senza averlo noi stessi congiunto in precedenza, e che la congiunzione, fra tutte le rappresentazioni, è l’unica che non può essere data da oggetti, ma può essere costituita soltanto dal soggetto stesso, poiché essa è un atto della spontaneità del soggetto. Ci si accorge qui facilmente, che questo atto dev’essere originariamente unico ed equivalente per ogni congiunzione, e che la dissoluzione – analisi – che sembra essere il suo contrario, lo presuppone tuttavia sempre. In effetti, là dove l’intelletto non ha congiunto nulla in precedenza, esso non può neppure dissolvere nulla, poiché è solo mediante l’intelletto che un qualcosa, in quanto connesso, ha potuto essere dato alla capacità di rappresentazione [Vorstellungskraft]» (KrV, KGS, III, 107; tr. it. G. Colli, pp. 152-154).
E qui si delinea una distinzione fondamentale tra “tradizione” e “Cultura”. Perché la “tradizione” è solo la cristallizzazione del costume, è acritica, non necessariamente assunta con consapevolezza e procede per mimesis (per mezzo della facoltà della memoria), seguendo la successione degli eventi rispetto alla sola successione temporale (extensive); mentre la “Cultura” è sempre costitutiva di senso, profondamente dinamica e cosciente (del nexus), giocata attivamente in prima persona, e sorge a partire dalla successione dinamica ed a-temporale (metafisica) del soggetto (intensive), secondo la categoria della poiesis, per mezzo cioè della facoltà che Kant definisce della Bildungskraft o Vorstellungskraft, e che, seguendo la lezione di Giorgio Colli, si potrebbe tradurre con facoltà sintetica della rappresentazione.