“Quelli che un tempo erano i ‘sottufficiali del capitale’ si sono trasformati in un cospicuo esercito che tra le sue file conta un numero sempre maggiore di soldati semplici e interscambiabili. (…) La proletarizzazione degli impiegati è un fatto indubitabile. In ogni caso le condizioni sociali di ampi strati di impiegati sono simili a quelle del proletariato in senso stretto. Si è formato un esercito industriale di riserva degli impiegati. Alla tesi che si tratti di un fenomeno passeggero si contrappone l’altra, secondo cui tale esercito di riserva potrebbe essere smantellato solo insieme al sistema che l’ha generato.”
Così si esprimeva Siegfried Kracauer a proposito della figura dell’impiegato nella Germania degli anni Venti. A quasi un secolo di distanza, quella del filosofo e teorico del cinema tedesco si configura come un’intuizione quanto mai profetica, come testimonia questo passaggio del suo capolavoro Gli impiegati (Die Angestellten), riproposto da poco in una nuova edizione dalla casa editrice Meltemi.
“Perché vuol diventare impiegato di commercio?”
“Perché questo ramo mi piace”
“Quale specialità?”
“Vetrinista”
“Perché proprio questa?”
“Perché è un lavoro facile e pulito”.
Altra risposta alla prima domanda: “Perché mi piace fare i lavori intellettuali”.
Ancora un’altra risposta: “Mi piacerebbe vendere”.
“Perché non sceglie un lavoro manuale?”
“Non mi piace lavorare in fabbrica.”
Con queste risposte i ragazzi e le ragazze che hanno finito la scuola riempiono i questionari che ricevono dal centro di orientamento professionale dell’Unione centrale degli impiegati. L’ortografia non è sempre ineccepibile, e spesso la grammatica illegale della lingua parlata sopraffà le regole della lingua letteraria imparate a scuola. Un anno o due, e apprendisti esperti di letteratura useranno con sicurezza il linguaggio commerciale.
Lavoro intellettuale, piacere di vendere, lavoro facile e pulito – non tutti i sogni si realizzano. In ogni caso non basta sentire la vocazione, bisogna anche essere eletti. Eletti dalle istanze che portano avanti il processo economico che le sollecita.
Pare che a Dresda i calzolai abbiano ultimamente deciso che gli apprendisti devono avere il diploma di scuola media. Dunque l’inclinazione interna non è sufficiente neanche per risuolare e rattoppare. La buffonata dimostra quello che è stato constatato con una certa rassegnazione nell’ultimo congresso sindacale: che la giustificazione è radicata nella nostra essenza. Se non nell’essenza, certamente nella base dell’ordinamento sociale contemporaneo. Si conoscono, o probabilmente non si conoscono le diverse forme di autorizzazione sotto il cui magico influsso soltanto si schiudono certe sfere della gerarchia burocratica. Ultimamente si è affermato che i pubblici impiegati di grado medio-alto dovrebbero avere il diploma di scuola media superiore – richiesta contro cui ha fortunatamente protestato Severing. Chi non avrebbe supposto che dopo la liquidazione del vecchio stato di classe tali cineserie avrebbero subito la stessa sorte dei fregi sul Kurfürstendamm? E tuttavia continuano a prosperare anche nell’economia privata, e non solo come arabeschi.
Le grandi banche e certe aziende commerciali e industriali concedono l’accesso ai campi elisi delle loro sezioni commerciali solo a coloro che hanno frequentato una scuola media superiore, e preferiscono giovani col diploma di maturità. Secondo una fonte attendibile, a Berlino su cento apprendisti cinquanta furono invitati a perfezionarsi frequentando le ultime classi del liceo. Tra i fortunati possessori del diploma di maturità molti restano limitati per tutta la vita a un’attività che potrebbe esercitare anche un diligente impiegato che avesse soltanto la licenza elementare; alla cultura elevata non corrisponde sempre una retribuzione elevata: la riduzione del personale e altri malanni che sono chiamati colpi del destino colpiscono ugualmente quelli che hanno un attestato e quelli che non ce l’hanno.
Ma poiché i poteri superiori considerano il diploma come un talismano, gli danno la caccia tutti quelli che ne hanno la possibilità materiale, cercando di accrescere il più possibile il suo valore monopolistico. La corsa alle scuole superiori è maggiore dell’amore della conoscenza, e gli impiegati tecnici che vengono dalle scuole professionali fondano associazioni di diplomati.
Un membro dell’Associazione dei bancari tedeschi, che parlando con me ricordava non senza soddisfazione come tutti gli impiegati di banca avessero le carte in regola, faceva seguire direttamente questo fatto dall’osservazione: “Una parte di loro viene da una buona famiglia borghese. Il loro livello è decisamente non proletario”.
L’osservazione è istruttiva da due punti di vista. Poiché non esprime solo un importante scopo dell’autorizzazione, ma insegna anche che lo scopo è stato raggiunto. Anche se certi attestati possono essere obiettivamente necessari, e altri si spiegano con lo stretto spazio vitale, è un fatto che la maggior parte di coloro che hanno frequentato e concluso gli studi liceali è di famiglia borghese o piccolo-borghese. I figli dei proletari devono già essere molto dotati, per superare gli otto anni della scuola primaria, e quando sono riusciti ad arrampicarsi abbastanza in alto spesso scompaiono dalla vista come fachiri indiani.
Ma in quanto privilegia essenzialmente i borghesi che sanno spontaneamente che cosa è opportuno, la società si alleva, nelle aziende, una specie di guardia del corpo. Quest’ultima è tanto più sicura, in quanto, nella forma degli attestati e diplomi, riceve leggiadre armi con cui difendere lo stato e il capitale. Veramente, quell’impiegato di banca elogiava i suoi colleghi perché il loro livello era decisamente non proletario. La guardia muore, ma non si arrende a una mentalità contraria alle prescrizioni; in questo modo il sistema si assicura contro la disgregazione. Si daranno ancora altre prove della coscienza di categoria degli impiegati. Che le associazioni raccolte nell’Afa-Bund si sforzino di eliminare il sistema dell’autorizzazione è solo una logica conseguenza di una mentalità socialista.
“Ognuno sia messo nel posto che è meglio in grado di ricoprire per le sue capacità, le sue conoscenze, le sue qualità psichiche e fisiche, insomma: per la natura della sua intera personalità. L’uomo giusto al posto giusto!”. Queste frasi si trovano in un comunicato dell’amministrazione della società in accomandita O. della fine del 1927, e devono preparare gli impiegati commerciali agli esami di idoneità progettati. Intera personalità, uomo giusto e posto giusto: queste parole tratte dal vocabolario della defunta filosofia idealistica suscitano l’impressione che le prove di esame eseguite rappresentino una vera selezione di persone. Ma né nella società in accomandita O. né in altre aziende la maggioranza degli impiegati svolge attività che richiedano una personalità o ancor meno un certo tipo di personalità; per tacere dell’uomo giusto. I posti non sono professioni che siano fatte su misura per determinate “personalità”, ma posizioni nell’azienda che sono create secondo le necessità del processo di produzione e distribuzione. Solo negli strati più alti della gerarchia sociale comincia la vera personalità, che peraltro non deve più sottostare all’obbligo dell’esame.
E dunque gli esami di idoneità al massimo possono dire se gli impiegati sono particolarmente abili in determinati posti. Telefonista o stenodattilografa, questo è il problema. Non è un chiarimento inessenziale, poiché spiega come questi esami all’interno dell’azienda servano più all’interesse dell’azienda che all’uomo giusto.
Lo dimostra anche un passo del comunicato citato, che afferma come il risultato della prova possa determinare il passaggio a un’altra occupazione. “Un cambiamento della retribuzione, in alto o in basso, si verifica solo se l’impiegato in questione riceve un posto migliore o inferiore”.
La felicità della persona a volte non ha molta importanza.
Lo stesso spirito economico che organizza l’azienda in un modo sempre più razionale indubbiamente produce anche lo sforzo di razionalizzare perfettamente la massa finora informe e disorganizzata degli uomini.
Ha patrocinato recentemente questa tendenza il professor William Stern, in un’ampia conferenza sulle prove psicologiche per gli impiegati tenuta nella sede dell’Afa, e che rivela una non perfetta preparazione nel campo della politica sociale. Egli dirige la Società dei promotori della psicologia applicata di Amburgo, che si è occupata delle indagini dell’azienda O. Secondo gli argomenti del professor Stern un impiegato di commercio è una cosa infinitamente più complicata di un operaio. Se per quest’ultimo di regola è sufficiente esaminare le sue attitudini specifiche, invece l’impiegato deve essere scandagliato in una “visione totale”, date le superiori prestazioni che sono richieste dalle professioni commerciali; anche se poi ne saranno enucleate solo le proprietà importanti per il lavoro.
Si fanno esperimenti: prove di contabilità, al telefono, ecc.
Il candidato viene osservato: in che modo dispone le fatture che deve mettere in ordine? Si fanno esami fisiognomici e grafologici. Insomma, per la psicologia professionale il più piccolo impiegato è un microcosmo.
Nonostante quest’alta considerazione per la vita psichica altrui, che in se stessa è un fatto positivo, i sindacalisti presenti alla conferenza si sono dichiarati unanimemente contrari a questa visione totale. Dubitano giustamente della sua incondizionata attendibilità, altrettanto giustamente sottolineano come le analisi del carattere comportino la minaccia di una violazione della sfera privata, e infine affermano l’esistenza almeno inconscia di un legame degli esaminatori con l’imprenditore. Le doti degli impiegati – affermano – possono essere eventualmente indagate secondo un metodo preciso prima che inizino il loro lavoro, ma soltanto in sedi neutrali. Queste sedi sono i centri di orientamento professionale.
L’esperto addetto ai test attitudinali in un centro di Berlino mi ha riferito i risultati delle sue esperienze. Grande peso ha il fatto che anche secondo la convinzione di questa persona le prove attitudinali nelle aziende siano fuori posto.
“Una grande impresa – egli dice –, che per cambiare di posto i suoi dipendenti ha bisogno di prove attitudinali ha un cattivo controllo del personale”.
In effetti, i dirigenti di un’azienda devono conoscere ben poco i loro dipendenti, se devono ricorrere a torture scientifiche per estorcere loro l’ammissione di capacità nascoste. In ogni modo l’esperto di test attitudinali propone che le grandi aziende istituiscano schedari dove registrare le osservazioni relative ai singoli impiegati.
La proposta, che è stata certamente suggerita da intenzioni sincere e oneste, ha però le sue insidie. Se un’azienda è condotta come si deve le rigide registrazioni su una scheda sono superflue; in caso contrario si formano liste nere, nonostante tutte le misure di controllo. Le esperienze dell’esaminatore si riferiscono a stenodattilografe, contocorrentisti, corrispondenti in tedesco e in lingue straniere e capisezione. Segue la massima di evitare ogni asserzione relativa alla persona privata, limitandosi esclusivamente alla psicologia del lavoro.
Ad esempio ha formulato questo giudizio: “Nel lavoro il signor X ha più apparenza che sostanza”.
È un giudizio piuttosto brutto. Forse nei rapporti privati con le ragazze il signor X inclina alla timidezza, ma il suo lavoro è polvere negli occhi. È lecito dividere l’uomo in due metà?
Per eliminare le mie perplessità, l’esperto mi riferisce successi degni di menzione. Una grande ditta si è rivolta a lui perché esamini due signori maturi per il ruolo di caposezione; si è reso vacante un posto, e si tratta di scegliere quale dei due dovrà occuparlo. L’esperto ha fornito una descrizione della persona dei due delinquenti, in cui viene attribuita una migliore capacità sintetica a uno dei due. La grande ditta ha scelto la migliore capacità sintetica, e ora è straordinariamente soddisfatta.
Un altro caso: un principale gli manda due ragazze, una rachitica e l’altra bellissima. Naturalmente il principale preferirebbe la seconda, però, come si legge spesso nelle fiabe, la perla nascosta è proprio la rachitica.
Moderno Paride, lo psicologo non sceglie Afrodite, ma Atena. (Trovare un’Era tra le impiegate non è possibile). Qualche tempo dopo ha la soddisfazione di sapere che il principale accoglie la dea rachitica nel suo ufficio privato.
La scienza ha vinto persino in un “caso di appoggio”, poiché la raccomandata è stata respinta in seguito alla dimostrazione psicologica della sua incapacità. Per concludere l’esaminatore fa più del dovere, e delinea il mio carattere, che ha messo insieme durante il nostro colloquio senza che me ne accorgessi. È un osservatore esperto, che è riuscito a trattenere nelle ampie maglie della sua rete categoriale certe proprietà strutturali. Potrebbero essere sufficienti per inserirmi in un gruppo mediamente retribuito.
Questi pratici seri ed esperti sono tanto più importanti, in quanto anche per gli impiegati vengono di moda le prove attitudinali. Uno dei proprietari di un rinomato negozio specializzato mi spiega come procede la sua ditta nelle nuove assunzioni. Ogni candidato deve riempire un questionario, e viene ispezionato personalmente dal capo competente. Inoltre le telefoniste e i candidati per la sezione propaganda sono i naturali oggetti della psicotecnica. Se si tratta di forze qualificate, sono fatte perizie grafologiche. Il grafologo a cui è affidato tale incarico penetra nell’anima degli impiegati allo stesso modo che una spia del governo entra in un paese nemico. Entrambi devono seguire sentieri segreti, arrivare nel campo del nemico e procurarsi un materiale che è importante per i loro mandanti. E dunque il crescente uso di metodi di ricognizione psicologici al servizio di una maggiore razionalità economica è anche e non da ultimo il sintomo della reciproca estraneità che il sistema dominante crea fra datori di lavoro e numerose categorie di impiegati. Dove si chiede uno sguardo totale, nessuno è più veramente capace di guardare se stesso. Probabilmente le cose andrebbero meglio solo se si realizzassero le profetiche parole del comunicato della ditta O., e le persone giuste occupassero il posto giusto.
Quella ragazza rachitica a cui l’esperto di prove attitudinali ha aperto l’accesso all’ufficio privato è stata eccezionalmente favorita dal destino. E infatti di regola oggi l’aspetto esteriore svolge una funzione decisiva, e non c’è neanche bisogno di essere rachitici, per venire respinti.
“Data l’enorme offerta di forze lavorative – scrive il deputato socialdemocratico dottor Julius Moses –, si verifica necessariamente una certa ‘selezione’ fisica. Anche se non compromettono minimamente la capacità lavorativa, spesso i difetti fisici evidenti fanno dell’interessato un invalido del lavoro involontario e prematuro” (“Afa-Bundeszeitung”, febbraio 1929).
Che non ci si comporti in questo modo soltanto con gli impiegati che sono direttamente a contatto col pubblico viene confermato da molte parti. L’impiegato di un ufficio di collocamento di Berlino mi spiegava che coloro che hanno difetti fisici, per esempio gli zoppi o persino i mancini, devono già essere considerati come minorati dal punto di vista lavorativo e sono particolarmente difficili da sistemare. Spesso sono avviati a un’altra professione. L’impiegato non nasconde affatto che le rughe e i capelli grigi diminuiscono le prospettive di trovare lavoro.
Cerco di sapere quali sono esattamente, nell’aspetto di una persona, le forze magiche che aprono le porte dell’azienda. Nella sua risposta ritornano continuamente le espressioni “perbene” e “simpatico”.
Prima di tutto i datori di lavoro vogliono avere l’impressione che si tratti di una persona perbene. I candidati che fanno questa impressione (in cui naturalmente rientrano anche le maniere perbene) vengono assunti anche quando i loro attestati sono cattivi.
Il funzionario osserva: “Dovremmo fare anche noi come gli americani. Il candidato deve avere una faccia simpatica”.
Per renderlo più simpatico, l’ufficio di collocamento pretende, d’altra parte, che l’aspirante si presenti ben rasato e con i suoi abiti migliori. Anche il presidente del consiglio d’azienda di una grande impresa raccomanda agli impiegati di accogliere le visite del principale indossando il vestito della domenica.
Quanto mai istruttiva è un’informazione che ricevo in un noto emporio berlinese.
“Nell’assunzione del personale addetto alle vendite e al lavoro d’ufficio noi attribuiamo importanza soprattutto all’aspetto gradevole”, dice un dirigente della sezione personale.
Ricorda un poco, da lontano, Reinhold Schünzel in certi vecchi film. Gli chiedo che cosa intende per gradevole: se piccante, o grazioso.
“Grazioso non è esatto. Decisiva è piuttosto la carnagione moralmente rosa, Lei sa…”.
So. Una carnagione moralmente rosa: la combinazione di questi due concetti rende tutt’a un tratto trasparente la vita quotidiana che è rappresentata dalle vetrine, dagli impiegati e dai giornali illustrati. La sua morale deve essere colorata di rosa, il suo rosa deve avere una tinta morale. Così desiderano coloro che hanno il compito della selezione. Vorrebbero ricoprire la vita con una vernice che nasconda la sua realtà tutt’altro che rosea. Guai se la morale si spingesse sotto la pelle, e se il rosa non fosse più abbastanza morale da impedire l’eruzione dei desideri. La tetraggine di una morale non imbellettata metterebbe in pericolo il sussistente allo stesso modo di un rosa che cominciasse ad accendersi immoralmente. Affinché si elidano entrambi, i due momenti vengono congiunti. Lo stesso sistema che ha bisogno dell’esame di idoneità produce anche questa miscela perbene e simpatica, e quanto più procede la razionalizzazione, tanto più il trucco moralmente rosa prende il sopravvento. Non è azzardato affermare che a Berlino si sta formando un tipo di impiegato che si conforma all’esigenza di questa carnagione.
Linguaggio, abiti, gesti e fisionomie si uniformano, e il risultato del processo è appunto quell’aspetto gradevole che può essere riprodotto su vasta scala, con l’aiuto della fotografia. È una selezione naturale che ha luogo sotto la pressione dei rapporti sociali e viene necessariamente appoggiata dall’economia, che suscita bisogni consumistici corrispondenti.
Gli impiegati devono collaborare, che lo vogliano o meno. La corsa ai numerosi istituti di bellezza è anche determinata da una preoccupazione per la propria esistenza, l’uso dei cosmetici non è sempre un lusso. Per la paura di essere dichiarati fuori uso come merce invecchiata le signore e i signori si tingono i capelli, e i quarantenni praticano lo sport per mantenersi snelli.
Come devo fare per diventare bello? è il titolo di un opuscolo che è stato recentemente lanciato, e che secondo la pubblicità apparsa sui giornali insegna i mezzi “con cui apparire giovani e belli subito e a lungo”.
La moda e l’economia collaborano l’una con l’altra. È vero che la maggior parte delle persone non è in grado di andare da un medico specializzato. Diventano le vittime di ciarlatani, oppure sono costretti ad accontentarsi di preparati che sono altrettanto a buon mercato che problematici. Nel loro interesse il menzionato deputato dottor Moses lotta da qualche tempo in parlamento, per inserire nell’assicurazione sociale anche la cura delle deformità. La giovane Comunità lavorativa dei medici tedeschi che operano nel campo cosmetico ha fatto propria questa legittima esigenza.
Questo brano è tratto da S. Kracauer, Gli impiegati (Meltemi Editore, Milano 2020, pag., 14 €, trad. di Anna Solmi).