“Abitare le contraddizioni”: la libertà come lotta costante e il femminismo intersezionalista di Angela Davis

 

 

 

Anger is a gift.

Rage Against The Machine.

Freedom.

 

“Canto la libertà, difficile, mai data, che va sempre difesa, sempre riconquistata”, cantava Giovanni Lindo Ferretti parecchi anni fa nel magnifico brano Montesole dei PGR (Per Grazia Ricevuta), ultima reincarnazione/trasformazione della band che si chiamò prima CCCP-Fedeli alla linea e generò poi i CSI (Consorzio Suonatori Indipendenti) e infine, per l’appunto, i PGR. Le parole di Giovanni Lindo Ferretti, che all’epoca di Montesole era ancora fedele a una linea che poi (purtroppo) avrebbe abbandonato, mi sono sembrate perfette per introdurre la presente breve riflessione sull’ultimo libro pubblicato in Italia della celebre teorica critica della società e teorica e militante femminista Angela Davis, dedicato proprio alla libertà e intitolato La libertà è una lotta costante (trad. it. di V. Salvati, Ponte alle Grazie, Milano 2019). Ogni libertà, ci dice in sostanza Davis, è sempre stata e sempre sarà l’esito di una lotta (struggle), la conquista scaturente da un processo di rivendicazione ed emancipazione che comporta la disponibilità a protestare per ciò che è giusto, per ciò di cui c’è bisogno e per ciò che il mondo viceversa vorrebbe negare; ed essa, la libertà, non può mai dirsi conquistata una volta per tutte, giacché ogni conquista è passibile di essere rimessa in discussione, se non proprio calpestata, e ciò rende per l’appunto la libertà difficile, mai data, sempre da difendere, sempre da riconquistare, giusta la felice intuizione poetica di Montesole. Come scrive Davis in alcuni passaggi particolarmente enfatici del libro (il cui titolo, peraltro, è derivato anch’esso da una canzone: “da una canzone per la libertà che si cantava di continuo negli Stati Uniti meridionali all’epoca del movimento di liberazione del XX secolo”: p. 73), “a mano a mano che le nostre lotte maturano, producono nuove idee, nuovi temi e nuovi terreni su cui portare la ricerca della libertà. Come Nelson Mandela, dobbiamo essere disposti a intraprendere il lungo cammino verso la libertà. […] [Le cose] non si danno da sé. Non succedono automaticamente. Bisogna intervenire. Bisogna intervenire in modo consapevole”, se si vuole davvero “costruire un mondo libero da razzismo, guerre imperialiste, sessismo, omofobia e sfruttamento capitalista” (pp. 25, 42, 106).

La libertà è una lotta costante si compone di dieci capitoli, frutto di interviste o discorsi tenuti da Davis fra il 2013 e il 2015, e preceduti da una breve ma intensa Prefazione di un intellettuale influente come Cornel West e da una Introduzione del curatore dell’edizione originale del testo Frank Barat. Nella sua Prefazione, West dichiara che “in questi scritti, gli ultimi di un corpus magistrale, Angela Davis presenta delle analisi brillanti e offre la sua testimonianza tenace”, incarnando e impiegando “in modo chiaro e conciso […] il concetto di ‘intersezionalità’ – una risposta strutturale, intellettuale e politica alle dinamiche di violenza, supremazia bianca, patriarcato, potere dello Stato, mercati capitalistici e politiche imperialistiche” (p. 8). Mentre Barat, nella sua Introduzione, definisce enfaticamente Angela Davis come “l’incarnazione della resistenza” e come “la prova vivente del fatto che è possibile sopravvivere, resistere e superare l’enorme forza del potere delle multinazionali e dello Stato che mirano ostinatamente alla distruzione del singolo individuo influente a cui si ispira la solidarietà collettiva. È la prova vivente che il potere del popolo funziona, che un’alternativa è possibile, che lottare può essere bello ed entusiasmante. È qualcosa di cui, in quanto esseri umani, dobbiamo fare esperienza. Ed è nelle possibilità di ognuno” (pp. 12-14, corsivi miei).

Questi richiami al popolo, e a ciò che ciascuno di noi può e anzi deve fare, si collegano bene, sempre nella Introduzione di Barat, a un passaggio in cui quest’ultimo connette la prospettiva teorica e pratica di Davis all’“idea che sia possibile un altro modo di organizzare la vita collettiva, che possiamo governarci l’un l’altro, noi, il 99 per cento”, e che “la democrazia dal basso può sfidare l’oligarchia, che i migranti imprigionati possono essere liberati, che il fascismo può essere vinto e che l’uguaglianza è emancipatrice” (pp. 10-11, corsivi miei. Sulla “battaglia del 99 per cento”, cfr. anche pp. 42, 135-136). Si tratta di collegamenti e connessioni che, sia sotto forma di effettivi nessi concettuali, sia sotto forma di echi e suggestioni, possono facilmente richiamare alla mente alcune tesi e idee presentate anche in un altro libro importante uscito quest’anno, Femminismo per il 99%. di Cinzia Arruzza, Tithi Bhattachraya e Nancy Fraser, su cui ha già riferito qui su “Scenari” Alessandro Volpi (http://www.mimesis-scenari.it/2018/11/03/femminismo-per-il-99/#). Riagganciandomi sia a quest’ultimo contributo, sia ad altri testi sul femminismo contemporaneo apparsi in tempi recenti proprio su “Scenari” (come il mio testo su jazz e femminismo e quelli di Ginestra Bacchio su un altro libro di Angela Davis, Donne, razza e classe, e sul Manifesto per un nuovo femminismo di Maria Grazia Turri: http://www.mimesis-scenari.it/2019/02/20/jazz-e-femminismo-intervista-a-maria-pia-de-vito; http://www.mimesis-scenari.it/2018/05/31/donne-razza-e-classe-intervista-a-cinzia-arruzza; http://www.mimesis-scenari.it/2018/08/28/manifesto-per-un-nuovo-femminismo), al fine di formare su “Scenari” una piccola costellazione di contributi su una questione indubbiamente della massima rilevanza oggi, come quella del femminismo, nel presente commento a La libertà è una lotta costante di Angela Davis focalizzerò metodologicamente la mia attenzione solo su tale questione, nonostante essa non sia l’unica tematica affrontata nel libro.

Come si diceva, infatti, La libertà è una lotta costante si articola in dieci capitoli, derivanti da interviste o discorsi in pubblico di Davis e vertenti su vari argomenti, tutti collegati fra loro comunque in una cornice di rigorosa intersezionalità nell’approccio teorico e nella militanza pratica. I dieci capitoli si intitolano rispettivamente: “Lotte progressiste contro le insidie dell’individualismo capitalista”, “Ferguson ci ricorda l’importanza di un contesto globale”, “Dobbiamo discutere di un cambiamento climatico”, “Sulla Palestina, su G4S e il complesso penitenziario-industriale”, “Cesure e continuità”, “Da Michael Brown ad Assata Shakur: persiste lo Stato razzista d’America”, “Il Truth Telling Project: la violenza in America”, “Femminismo e abolizionismo: teorie e pratiche per il XXI secolo”, “Attivismo politico e protesta dagli anni Sessanta all’epoca di Obama” e “Solidarietà transnazionali”. La tematica femminista – che, come dicevo poc’anzi, è stata scelta qui come chiave di lettura per procedere a una rapida esposizione dei contenuti del libro – compare in tutti i capitoli, seppure a volte in modo più esplicito e massiccio ed altre volte in modo più implicito e limitato, e soprattutto esemplifica al meglio la succitata intersezionalità su cui si fonda l’intero pensiero di Davis e che “non [si] riferisc[e] tanto all’intersezionalità delle identità”, spiega Davis, “quanto all’intersezionalità delle lotte” (p. 156).

Nel primo capitolo tale tematica emerge a partire da una domanda dell’intervistatore sul “femminismo nero” alla quale Davis risponde così: “Il femminismo nero si è affermato come un impegno teorico e pratico teso a dimostrare che razza, genere e classe sono inseparabili nella realtà sociale che abitiamo. Quando è stato fondato, alle donne nere veniva spesso chiesto di scegliere se fosse più importante il movimento nero o quello delle donne. La risposta è che era sbagliata la domanda. Più opportuno sarebbe stato chiedersi come comprendere le intersezioni e le interrelazioni tra i due movimenti. Ci troviamo ancora ad affrontare la sfida di comprendere il modo complesso in cui s’intrecciano razza, classe, genere, sessualità, nazione e abilità – ma anche come possiamo sormontare queste categorie per comprendere la correlazione di idee e processi che sembrerebbero distinti e irrelati” (pp. 17-18, corsivi miei; cfr. anche p. 54). “Se l’intersezionalità delle battaglie contro il razzismo, l’omofobia e la transfobia viene sminuita”, scrive Davis nel settimo capitolo, “non conseguiremo mai vittorie significative nella lotta che combattiamo per la giustizia” (p. 101), saldando così insieme la molteplicità delle singole proteste e delle singole rivendicazioni di libertà e l’unità dello scopo finale da raggiungere che è l’emancipazione umana in generale. “L’intersezionalità – o i tentativi di pensare, analizzare, organizzare via via che si individuano correlazioni tra razza, classe, genere, sessualità – si è evoluta molto negli ultimi decenni”, spiega ancora Davis nel secondo capitolo: “Mi sembra che il mio lavoro rispecchi non tanto un’analisi di ordine individuale quanto l’impressione, diffusa all’interno dei movimenti e dei collettivi, che non fosse possibile separare la questione razziale da quelle della classe e del genere. […] Penso in effetti che oggi la cosa più interessante [sia] la concettualizzazione dell’intersezionalità delle battaglie. All’inizio l’intersezionalità ruotava intorno ai corpi e alle esperienza. Ma ora, come discutere del modo di unire le varie battaglie per la giustizia sociale, superando i confini nazionali?” (pp. 31-32, corsivo mio) – domanda che ci dischiude un’altra cifra caratteristica di La libertà è una lotta costante, ovvero non soltanto l’intersezionalismo di Davis ma anche il suo internazionalismo (cfr. pp. 141-157), da rivendicare con forza e da proclamare a voce alta in un’epoca, come la nostra, di allarmante ritorno di anguste, sterili e controproducenti vocazioni nazionaliste.

Una prospettiva femminista intersezionalista e anche inclusivista (anziché esclusivista) come quella di Davis implica logicamente, fra le altre cose, un ampliamento del proprio sguardo e del proprio agire, in modo da connettere questa lotta ad altre battaglie per la libertà. E, d’altra parte, un tale ampliamento di prospettiva e atteggiamento di inclusione presenta anche importanti riflessi sul piano del coinvolgimento degli uomini all’interno della militanza per le rivendicazioni di libertà delle donne. Ciò emerge in modo molto esplicito, ad esempio, da un altro passaggio del secondo capitolo, dove si legge: “In riferimento alle lotte femministe, parecchio lavoro spetterà agli uomini. Spesso mi piace parlare del femminismo non come qualcosa che aderisca al corpo, non come qualcosa fondato sul corpo a cui viene assegnato un genere, ma come un’impostazione – come un modo di concettualizzare, una metodologia, una guida per strategie di lotta. Vuol dire che il femminismo non appartiene a nessuno in particolare. Il femminismo non è un fenomeno unitario, così cresce il numero di uomini che si specializzano in studi femministi, ad esempio. Nella mia attività accademica, vedo crescere il numero di uomini che si specializzano in studi femministi, ed è un bene. All’interno del movimento abolizionista vedo soprattutto uomini giovani che hanno adottato una prospettiva femminista considerevole […]. Si tratta, credo, di un tipo di coscienza che deve essere incoraggiata, in modo che gli uomini progressisti diventino consapevoli di avere una certa responsabilità nel coinvolgere nel movimento altri uomini. […] Giro per i campus regolarmente e […] sono entrata in contatto con questo gruppo di giovani uomini che appartengono a un gruppo chiamato Alternative Masculinities [Maschilità Alternative] e mi hanno colpita moltissimo” (pp. 40-41, corsivi miei). A tutto ciò fa eco un passaggio molto forte tratto dal terzo capitolo del libro, in cui Davis afferma: “Penso che i movimenti, quelli femministi e altri ancora, abbiano maggiore forza quando cominciano a influenzare ideali e prospettive di quanti non ne fanno necessariamente parte. Così il femminismo radicale o quello antirazzista radicale” (giacché, al pari di Arruzza, Bhattachraya e Fraser nel succitato Femminismo per il 99%., è questo il femminismo che Davis ha in mente e prende in considerazione: radicale, antirazzista e anticapitalista) “sono importanti perché hanno influenzato il modo in cui specialmente i giovani oggi pensano alle lotte per la giustizia. Non possiamo illuderci che un qualunque movimento antirazzista possa uscire vittorioso, finché non consideriamo come vi figura il genere, come il genere e la sessualità e la classe e la nazionalità sono compresi in queste lotte. In passato le lotte per la libertà venivano considerate maschili. La libertà nera maschile per gli afroamericani equivaleva alla libertà per il maschio nero […]. Ma ora non è più possibile. E penso che il femminismo non sia un approccio che è o dovrebbe essere adottato esclusivamente dalle donne, ma deve rappresentare sempre più un orientamento per le persone di qualunque genere” (p. 60, corsivi miei).

Se, come si diceva poc’anzi, in tutti i testi raccolti nel libro affiora in modo esplicito o implicito il tema del femminismo anche a prescindere dall’occasione specifica di composizione del testo e dal tema specifico su cui esso verte, è in particolare nell’ottavo capitolo che tale questione, per la quale Davis è del resto giustamente famosa, diviene tematica fin dal titolo del capitolo: “Femminismo e abolizionismo”. Il Novecento, afferma Davis in apertura di questo capitolo, “ci ha lasciato parecchio lavoro da fare” (p. 105), e ciò non certo perché nei decenni passati non si sia lavorato e combattuto per la libertà, ma perché retrospettivamente ci si rende conto che si è fatto indubbiamente molto ma comunque non abbastanza: “negli anni Sessanta e Settanta”, scrive Davis nel terzo capitolo, “abbiamo imparato che i movimenti di massa possono sicuramente produrre un cambiamento sistematico”, e di fatto “ogni cambiamento concreto [nella storia] è stato il risultato di un movimento di massa […]. Dunque, credo che negli anni Sessanta e Settanta abbiamo realmente imparato che un cambiamento era possibile. Alla fine non il tipo di cambiamento che volevamo davvero. Ma non dovrei dirla così. Dovrei definirlo invece un cambiamento non sufficiente, perché si è prodotto [solo] sul piano legale che pure era estremamente importante” (su questo, cfr. anche pp. 138-139 sul tema del cosiddetto “matrimonio egualitario”). “E tuttavia”, aggiunge Davis sempre nel terzo capitolo, “non abbiamo sperimentato il cambiamento economico e altre forme di cambiamento strutturale necessarie” (pp. 48-50, corsivi miei) per sradicare davvero il razzismo, il sessismo e il dominio dell’essere umano sull’essere umano (e, generalizzando ancora, sul vivente) in tutte le sue forme e varianti. Così, tornando all’ottavo capitolo su femminismo e abolizionismo, Davis si sofferma nuovamente sull’importanza dell’adozione di una prospettiva intersezionalista, inclusivista e anche universalista, e in questo contesto accenna alla delicata questione della “definizione della categoria [stessa] di ‘donna’” (p. 108) e dei riflessi che tale questione logicamente ha sulla definizione del tipo di femminismo che si intende teorizzare e praticare (ad esempio, se un femminismo liberale o persino liberista e poco attento alle questioni economiche ed etnico-razziali, o viceversa un femminismo anticapitalista e antirazzista, come anche nel Femminismo per il 99% di Arruzza, Bhattachraya e Fraser). “Molte [sono state] le contese su chi includere e chi escludere dalla categoria”, spiega infatti Davis. “Contese che ritengo decisive per capire perché solo con una certa riluttanza le donne di colore e anche le donne bianche e appartenenti alla classe operaia non riuscissero a identificarsi con il movimento femminista allora nascente. Molti di noi hanno considerato il movimento di quel periodo [scil. gli ultimi decenni del XX secolo] troppo bianco e soprattutto troppo legato al ceto medio, troppo borghese insomma. E, per alcuni aspetti, la lotta per i diritti delle donne si definiva ideologicamente come una lotta per i diritti delle donne bianche delle classi medie, che estrometteva le donne della classe operaia, quelle povere; che estrometteva le afroamericane, le ispaniche e le altre donne di colore dal campo discorsivo individuato dalla categoria di ‘donna’. Le numerose controversie intorno a questa categoria hanno contribuito alla formulazione di quelle che poi abbiamo chiamato ‘teorie e pratiche femministe delle donne di colore radicali’. Nello stesso momento in cui venivano sollevate simili questioni, sull’universalità della categoria di ‘donna’, interessi analoghi riguardo alla categoria di ‘umano’ diventavano oggetto di discussione, soprattutto in relazione all’individualismo insito nel discorso sui diritti umani. Come si poteva ripensare tale categoria?” (pp. 108-109), si domanda Davis, giacché lo scopo non può certo essere quello di abbandonare tout court il discorso sui diritti umani, ma per l’appunto quello di ripensarlo, correggerlo, perfezionarlo, ampliarlo, intersecarlo con altre problematiche e includervi altre dimensioni finora trascurate da una retorica dominante, facendo così trapassare tale discorso da una condizione di universalismo astratto e ideale a una di universalismo concreto e materiale.

In maniera molto significativa, nel prosieguo del capitolo, dopo aver citato il famoso libro di Judith Butler Questioni di genere (“suppongo che quasi tutti quelli che si interessano di studi femministi [lo] abbiano letto”, dice Davis rivolgendosi al pubblico), Davis afferma che, “allargando il discorso, […] un’altra lezione” di fronte alla quale ci si viene a trovare è quella per cui “non bisogna essere troppo attaccati al concetto di genere. Perché, a dire il vero, più lo analizziamo con attenzione, più scopriamo che è radicato in un insieme di formazioni sociali, politiche, culturali e ideologiche. Non si tratta di una cosa. Non se ne dà un’unica definizione e di certo il genere non può essere definito ormai in maniera adeguata come una struttura binaria compresa tra i due poli ‘maschio’ e ‘femmina’. E così, far rientrare nel concetto di genere le donne trans, gli uomini trans, gli intersessuali e le molte altre forme di genere non conforme” (là dove una delle massime del libro è proprio quella di “imparare a pensare e agire e lottare contro ciò che è ideologicamente costituito come ‘normale’”) “mina radicalmente i presupposti normativi del concetto stesso di genere” (pp. 113-114, corsivi miei). Ora, con il rischio che comporta ogni interpretazione, voglio proporre di intendere qui questa idea di Davis come un esempio di una strategia anti-ipostatizzante di fluidificazione di qualcosa (un concetto, un fenomeno, ecc.) che nel corso del tempo si è consolidato e dunque bloccato, e che va pertanto sbloccato e dinamizzato, la quale ha nella metodologia offerta nella Prefazione alla Fenomenologia dello spirito di Hegel il suo modello insuperato (non a caso costantemente richiamato da Adorno nei Tre studi su Hegel e altrove, ad esempio) e per comodità possiamo chiamare col semplice nome di dialettica. Il femminismo intersezionalista, inclusivista, internazionalista, materialista e universalista di Davis si può quindi intendere anche come un femminismo dialettico (o forse persino alla radice, dato il background dialettico della filosofa e militante americana che, com’è noto, fu allieva diretta di Marcuse e per un breve ma significativo periodo studiò anche in Germania con Adorno: http://www.literaturarchiv1968.de/content/theodor-w-adornos-gutachten-fuer-angela-davis; https://www.versobooks.com/blogs/2846-the-effect-of-the-whip-the-frankfurt-school-and-the-oppression-of-women). Detto in maniera un po’ provocatoria: la dialettica, con la sua ottica fondamentalmente (ma anti-fondazionalisticamente) e radicalmente relazionale tale per cui qualsiasi concetto o fenomeno nella sua complessità non è pensabile o conoscibile se non nella interrelazione/mediazione con il suo altro, come base di quel femminismo interrelazionale e intersezionale che pensa e pratica Davis, nonché ovviamente come base di quel marxismo al quale Davis non cessa mai di far riferimento anche in La libertà è una lotta costante (“le grandi aziende, in quest’era di capitalismo globale, hanno imparato […] come introdursi in quegli aspetti della vita che ci inducono spesso a esprimere i desideri più reconditi nei termini capitalistici di merci. Così abbiamo interiorizzato il valore di scambio in un modo completamente inimmaginabile per l’autore del Capitale”, si legge nel decimo e ultimo capitolo: p. 154). Significative, sempre a partire dalla suddetta introduzione di alcune considerazioni sulla tematica del genere nell’ottavo capitolo, risultano allora le seguenti osservazioni di Davis: “le metodologie femministe possono offrire un aiuto significativo a noi ricercatori, accademici, e attivisti e organizzatori. Quando scopriamo quello che in apparenza diremmo un elemento relativamente piccolo e marginale di una categoria – o un elemento che, dibattendosi per entrarvi, in pratica può finire per spaccarla – ebbene, un processo del genere può rivelarsi tanto più illuminante della semplice osservazione della dimensione normativa della categoria. E, lo sapete, gli accademici vengono addestrati a temere l’imprevisto, ma anche gli attivisti vogliono sempre avere le idee molto chiare su percorsi e obiettivi. E in un caso e nell’altro, ciò che vogliamo è il controllo. […] [I]ntendo sottolineare l’importanza di accostarsi sia alla ricerca teorica sia all’attivismo in modo tale da ampliare ed estendere e rendere più complesse e penetranti le nostre teorie e pratiche di libertà. Il femminismo implica molto di più che non la sola uguaglianza di genere. E implica molto più del genere. Il femminismo deve implicare una coscienza del capitalismo – perlomeno il femminismo in cui mi riconosco. E ci sono molteplici forme di femminismo, o sbaglio? Deve implicare una coscienza riguardo al capitalismo, al razzismo, al colonialismo, ai post-colonialismi e all’abilità, e una quantità di generi più grande di quanto possiamo immaginare, e così tanti nomi per la sessualità che mai avremmo pensato di poter annoverare. Il femminismo non solo ci ha permesso di riconoscere uno spettro di connessioni tra discorsi, istituzioni, identità e ideologie che spesso saremmo portati a considerare separatamente, ma ci ha anche permesso di sviluppare strategie epistemologiche e organizzative che ci spingono al di là delle categorie di ‘donne’ e ‘genere’. Inoltre, le metodologie adottate dal femminismo ci inducono a esplorare connessioni non sempre manifeste. E ci portano ad abitare le contraddizioni e a scoprire ciò che, in queste contraddizioni, è fertile. Il femminismo” (o perlomeno quello in cui si riconosce Davis, forte anche del suo background dialettico poc’anzi ricordato) “persegue metodi di analisi e d’intervento che ci impongono di associare cose in apparenza isolate, e di scorporare quelle che si direbbero naturalmente inscindibili” (pp. 116-118, corsivi miei).

In conclusione, allora, in un’epoca in cui molte persone sembrano temere più di ogni altra cosa il riconoscimento della benché minima traccia di complessità nel reale rispetto alla rapida e indolore apposizione di un “like”, Davis ci invita al contrario a mettere in discussione l’ovvio e l’apparentemente naturale e ad “abitare le contraddizioni e scoprire ciò che in queste contraddizioni è fertile”. In un’epoca in cui rinascono in modo preoccupante non soltanto nazionalismi e assurde spinte alla divisione, come già detto prima, ma anche razzismo, sessismo e discriminazioni di vario genere (o forse in realtà non “rinascono”, non essendosi purtroppo mai estinti, ma si sentono legittimati a manifestarsi in modo più esplicito e violento che nel passato recente, forse anche a partire da certi atteggiamenti e comportamenti sconsiderati di leader politici non poco ambigui su questi temi, sui quali invece non dovrebbe mai sussistere alcuna ambiguità), Davis ci invita al contrario a non dimenticare che “abbiamo una connessione comune” e che “ciascuno è il nostro prossimo” (p. 33). In un’epoca in cui molte persone sembrano aderire a un movimento o a un’idea solo a partire dall’esistenza di un proprio interesse diretto al riguardo, Davis si rivolge invece a chiunque abbia ancora un “organo dell’esperienza” (servendomi qui di una famosa e magnifica espressione metaforica di Adorno) capace di percepire le oppressioni, le ingiustizie e le rivendicazioni di libertà e per trasformare tale percezione in stimolo per una coscienza critica che diventi poi prassi attiva di protesta, e, parlando di femminismo in modo trasversale a uomini e donne, sembra dirci: “Femministi e femministe di tutto il mondo, unitevi!”. Del resto, se questo breve contributo si è aperto con una citazione musicale, può non risultare inopportuno chiuderlo con un’altra citazione che sappia connettere filosofia, politica e musica in modo originale e insieme adatto al “99 per cento”, ovvero “popolare” (trattandosi di popular music, ma di eccellente qualità), e ci si può dunque domandare insieme alla cantautrice americana e militante femminista Ani Di Franco: “perché, dico io, tutte le persone oneste, tutte le persone oneste, uomini e donne, / non dovrebbero definirsi femministe? […] / gente, ci troviamo al ground zero / della rivoluzione femminista / sì, è stato un lavoro da infiltrate, stoico e scaltro / che vorrebbero farci dimenticare / ridimensionare, negare, / ma credo che non ci sia momento migliore / perché la verità venga fuori / l’ –ismo più fico che c’è in circolazione / si merita una fottuta ovazione” (da Self evident. Poesie e disegni, minimum fax, Roma 2004; trad. modificata).


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