Le ambivalenze della sovranità

 

 

Sino a pochi anni fa sembrava a molti che la sovranità, intesa come il supremo potere di comando connesso all’esercizio delle funzioni fondamentali di ogni sistema politico, fosse destinata al tramonto. I processi che a vario titolo rientrano sotto l’etichetta di globalizzazione – le dinamiche dell’economia planetaria, la crescita sempre più rapida dei legami transnazionali e le trasformazioni nel sistema del diritto internazionale – avevano fatto pensare che tutti gli attributi che connotano la dottrina classica della sovranità fossero destinati a perdere valore e significato. E invece, dopo la crisi finanziaria ed economica scoppiata nel 2008 la parola è invece tornata a circolare con sempre maggiore frequenza. Sovranisti si proclamano Matteo Salvini e Giorgia Meloni, Nigel Farage, Geert Wilders e Marine Le Pen e, insieme a loro, gli ultranazionalisti del cosiddetto Gruppo di Visegrád, per non parlare di Donald Trump con il suo “America first”.

Tuttavia, il recupero di questa categoria non è appannaggio esclusivo delle formazioni politiche di destra. Richieste in questo senso provengono anche da sinistra, dove a lungo si è guardato a questa categoria con diffidenza a causa della sua associazione con l’egoismo nazionalista. Pablo Iglesias, il leader spagnolo di Podemos, si è spesso definito “sovranista” e ha fatto costantemente appello alla storia spagnola e all’orgoglio nazionale. Negli Stati Uniti, Bernie Sanders ha criticato la finanza globale e si è opposto al Partenariato Trans-pacifico (TPP) perché minerebbe la sovranità degli Stati Uniti. Il progressivo recupero della sovranità può essere fatto risalire ai movimenti di protesta sorti nel 2011, come gli Indignados spagnoli, il greco Aganaktismenoi e Occupy Wall Street, fra i cui tratti distintivi vi era una richiesta di rivalutare il ruolo della dimensione statale, nella convinzione che lo Stato-nazione sia il solo contesto entro il quale la democrazia può trovare le forme per esprimersi in modo efficace.

Tutto ciò lascia capire come la sovranità sia attualmente diventata un campo di battaglia politico e discorsivo, nel quale si combatte la battaglia per la conquista di un’egemonia il cui orientamento in senso progressista o regressivo è ancora incerto. Il fatto che in passato, tra Otto e Novecento il principio sovrano sia stato messo al servizio del nazionalismo sino alla sua perversione nel razzismo nazista, e che oggi venga utilizzato per ridurre la politica alla difesa di vecchi e nuovi muri, ha spinto molti, a sinistra, a pensare che si tratti di una categoria inutilizzabile in chiave progressista. Eppure, anche se la sovranità è nata, all’epoca di Bodin e Hobbes, nella cornice dello Stato assoluto, la sua rielaborazione successiva – per opera di Rousseau, Kant, Hegel sino al costituzionalismo liberale – l’ha portata a costituire uno dei pilastri dello Stato democratico di diritto. Tanto è vero che la sovranità, quando è esercitata democraticamente, può essere sinonimo di libertà e di autodeterminazione dei popoli, come si evince dall’art. 1 della Costituzione.

Il che suggerisce alcune domande: una concezione progressiva della sovranità potrebbe offrire una risposta alla crescente domanda di ri-democratizzazione dei processi politici ed economici? In che modo gli Stati che si ritirano dietro la linea Maginot della sovranità nazionale possono riuscire a riportare mercati irreversibilmente globalizzati nel raggio d’azione del loro controllo politico? Con quali strumenti il sovrano territoriale può avere la forza per sottomettere i mercati, ormai abbandonati ai loro spiriti animali, alla forza regolatrice che, un tempo, stava concentrata nella legislazione democratica degli Stati nazionali? E, soprattutto, fino a che punto il controllo del territorio e la logica delle esclusioni che costituiscono la logica soggiacente della sovranità possono indirizzarsi a fini realmente emancipativi?

Il ritorno alla questione della sovranità negli attuali dibattiti politici è rivelatore della profonda crisi del neoliberalismo e del modo in cui la sua agonia stia ridando fiato alle richieste di controllo collettivo sulla politica e sulla società. Ora che la crisi del 2008 ha posto fine alla belle époque del neoliberalismo e ha fatto esplodere le contraddizioniinsanabili del sistema, le ansie e il disagio sociale di soggetti frustrati e impoveriti non sembrano trovare altra alternativa se non quella di riconquistare la piena sovranità nazionale e popolare sui flussi – commerciali, finanziari e migratori – che riducono gli Stati nazionali al ruolo di impotenti comparse inserite dentro i mercati globalizzati.

La percezione di una perdita di controllo sul proprio destino da parte delle comunità territorialmente definite riflette il modo in cui la globalizzazione neoliberista ha demolito scientificamente tutte le forme di giurisdizione e regolamentazione territoriale nel tentativo di trasformare il pianeta in uno spazio liscio e senza increspature, così da essere attraversato dai flussi di capitali, materie prime e servizi. Autori come Ludwig von Mises, Friedrich von Hayek e Milton Friedman hanno considerato le rivendicazioni di sovranità come altrettanti ostacoli agli scambi economici e ai flussi finanziari, e quindi come indebite interferenze con il primato del mercato e le libertà degli imprenditori e dei consumatori. Gli Stati sovrani andrebbero cioè rimpiazzati dal mercato globale, l’unico sovrano legittimo secondo la Weltanschaung neoliberale.

Non può perciò sorprendere che se la guerra del neoliberismo alla sovranità abbia generato povertà, disgregazione sociale, incertezza del presente e del futuro, la sua riaffermazione venga considerata come una condizione necessaria per prospettare un ordine politico e sociale alternativo. Alla radice di questa politica emergente di sovranità c’è la volontà di ripristinare forme di autorità territoriale capaci di riportare sotto controllo quei flussi globali che il neoliberismo considerava necessariamente virtuosi e che per la maggior parte dei cittadini si sono invece trasformati in fonte di impoverimento e precarietà. Tuttavia, i populisti di destra e di sinistra differiscono profondamente nella loro visione della sovranità e nella comprensione di quali siano i flussi globali che si propongono di aggirare il gioco di forze che caratterizza la democrazia.

Populisti anti-establishment di destra e di sinistra hanno infatti in comune un progetto di ricostruzione della sovranità, ma la convergenza finisce qui. Per i populisti di destra la sovranità è prima di tutto la sovranità nazionale, il potere associato agli interessi strategici di una comunità spesso definita a partire da basi etniche più o meno inventate e che serve a mobilitare la nazione contro i “nemici” esterni. Si tratta di una concezione della sovranità che presenta forti assonanze con la filosofia politica di Hobbes, che assegnava allo Stato il compito di garantire sicurezza e protezione, ma dove alla fine si è soggetti solo se si è assoggettati. Il genere di flusso globale che questa visione della sovranità considera come la minaccia principale alla sicurezza è evidentemente quello migratorio. La riaffermazione della sovranità significa in questo contesto chiudere i confini ai migranti, inclusi i rifugiati che fuggono da guerre e devastazioni, e ostracizzare le minoranze interne indesiderate. Sono sin troppi gli esempi di questa rielaborazione in chiave xenofoba perché sia necessario ricordarli.

La visione progressista della sovranità che è al centro del populismo di sinistra, da Podemos a Bernie Sanders, ha una sfumatura radicalmente diversa. Per quanto anche questa visione consideri inscindibile la simbiosi tra sovranità popolare e sovranità nazionale, a fare la differenze è la diversa concezione del popolo. Per i sovranisti di destra il popolo va concepito come ethnos, come una comunità tenuta insieme da vincoli ancestrali e prepolitici, per i sovranisti di sinistra va invece concepito come demos,come una comunità costituita da un insieme di individui uniti da rapporti che si fondano su un equilibrio precario e dinamico perché divisi da tensioni e contraddizioni. Questo spiega perché il “nemico” non sia costituito da migranti, rifugiati e minoranze interne, ma dalle organizzazioni internazionali e dai poteri esecutivi resisi autonomi a livello mondiale. Sono i flussi finanziari e commerciali a espropriare i titolari della sovranità democratica e a sottomettere il popolo dello Stato, organizzato a livello nazionale, al popolo del mercato, organizzato a livello globale.

Ora, è abbastanza chiaro che nei confronti di simili prospettive si possono nutrire perplessità. Le profonde trasformazioni che hanno interessato in questi decenni le componenti del trinomio sovranità, popolo e territorio sono state così radicali e profonde da modificare l’intero scenario. Il popolo sembra ridotto a una sommatoria di individui precarizzati e atomizzati, il territorio appare trasformato da processi di riarticolazione, differenziazione e scalarità, la sovranità sembra defluire nella direzione di organizzazioni capaci di darsi una sorta di autoinvestitura tecnocratica. Una visione “progressista” della sovranità dovrebbe perciò prendere atto che lo Stato-nazione non può essere considerato come il solo luogo in cui sia possibile l’esercizio della sovranità popolare, e che i ritorno alle fortezze nazionali degli anni Sessanta e Settanta è semplicemente irrealistico – oltre che improponibile. Bisognerebbe piuttosto ricordare – dopotutto siamo alla vigilia delle elezioni europee – che sarebbe piuttosto il completamento democratico dell’Unione europea, finora costruita solo a metà, che potrebbe dare avvio a un progetto di sovranità sovranazionale capace di modificare e sostituire la giustizia di mercato con la giustizia sociale.



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