Sul mantra del nostro tempo: “che fine hanno fatto gli intellettuali?”
L’intervento di Roberto Cotroneo – Intellettuali, ma dove siete finiti? –, pubblicato il 5 aprile scorso su Repubblica, costituisce la spia di umori molto diffusi. Tuttavia, questa domanda rischia di essere fuorviante, elude il nodo reale del problema. Cotroneo sceglie un bersaglio, gli intellettuali, la cui collocazione e il cui peso costituiscono semmai – dire le “vittime”, apparirebbe enfatico – una sorta di “buco nero”, che rende semmai manifesta la grave crisi ideale, politica, culturale e strategica del nostro paese. Non certo per colpa degli intellettuali, di cui Cotroneo lamenta, nella sua riflessione, l’assenza o l’ineffettualità del ruolo, nella scena politico-culturale nazionale. Quasi che lo smarrimento etico-culturale e lo stato di frustrazione che il paese stia vivendo, sia per l’assenza di prospettive ricche di senso sia per l’affermarsi di tonalità emotive regressive – rancore e risentimento diffuso –, possano essere attribuiti agli intellettuali, o possano vedere questi ultimi (filosofi, scrittori, uomini di lettere, di pensiero, di scienza, ecc.) sul banco degli imputati, nella veste di colpevoli. Cotroneo non manca di segnalare l’effervescenza che ha connotato e connota presenza e vivacità degli intellettuali in questi ultimi decenni con l’affermarsi di presenze, rassegne, festival di grande successo e richiamo – Filosofia, letteratura, economia, saperi sociali, arte, ecc. – mentre riconosce l’espansione, specularmente opposta, di un processo di banalizzazione e abbassamento del punto medio di competenza intellettuale, dovuto essenzialmente alla pervasiva diffusione del web e dei social – volto “tecnico” della globalizzazione –, che ha avuto peraltro l’effetto di delegittimare il ruolo “specialistico” delle varie comunità linguistiche dentro cui s’incardina, si svolge e s’inventa sia il lavoro scientifico che quello dei diversi “saperi” e dell’intellettualità in genere. Non si comprende, pertanto, per quale ragione il giudizio centrale del ragionamento di Cotroneo debba tendere ad assegnare agli intellettuali la responsabilità di una deriva che li vede collocati e chiusi nel loro “privato”. Infatti, così egli stesso scrive, «i letterati hanno spostato l’asse del lavoro da un piano letterario e politico a un piano egocentrico, autoreferenziale, effimero e psicanalitico». Giudizio che ci sembra una torsione fuori luogo del suo discorso, come se la “quistione intellettuale” – per dirla con Gramsci – si declinasse oggi lungo una fenomenologia in cui gli intellettuali sarebbero rintanati nella loro “torre d’avorio”, o alle prese narcisisticamente con il privilegio autocelebrativo del loro specialismo e della loro separatezza. Né ci sembra che la decadenza degli intellettuali – per dirla con Zygmunt Bauman – sia conseguente al ruolo di fiore all’occhiello, o di “mosche cocchiere”, svolto da quest’ultimi nel loro carsico rapporto di ambiguità o subalternità al potere: fenomeno che pur esiste – non tale da essere centrale –, per l’opportunismo subalterno di alcuni, o per la pervasività di quella condizione spettacolare che connota i Talk Show, nei quali, spesso, qualche intellettuale svolge il ruolo di tuttologo o patetico guru. È vero, sostiene Cotroneo, che il dibattito pubblico, o la stessa battaglia delle idee che ancora negli anni ’70 (ed anche oltre) scandivano la scena politico-culturale italiana, si trovano oggi orfani di figure prestigiose, come quelle da lui ricordate – da Pasolini a Moravia, da Sciascia a Calvino, da Fortini a Eco, per citarne alcuni –, in grado di esercitare un ruolo alto nella formazione dello spirito pubblico, nella tenuta di quella religio civile, che conformava parte decisiva di opinione pubblica, pur nell’asprezza del conflitto politico di quella stagione. Altri tempi! Tuttavia, dalla domanda di Cotroneo, riproposta anche da altri, continua ad affiorare una sorta di “luogo comune” – «che fine hanno fatto gli intellettuali?» –, quasi un mantra che evoca una risposta che resta preclusa, interdetta, proprio in ragione della fallacia della sua stessa formulazione. Appare evidente che ciò che fa da sfondo inespresso alla domanda di Cotroneo è il tema – eterno, carsico –, esprimibile nel plesso “intellettuali/potere”. Ecco allora che la questione può essere affrontata e declinata se appare individuabile ed anche “decostruito” l’altro corno della dialettica: il potere, la sua configurazione, la sua collocazione, le forme del suo esercizio. Il tema del potere – fondazione ed esercizio legittimo dello stesso – ha costituito, da Platone in poi, un paradigma classico e simbolico di un conflitto o di una tentazione (Jacques Derrida) – con tutti i riverberi di sfide, utopie, fallimenti, sconfitte, cortigianerie e seduzioni del potere –, che ha stagliato il filosofo sul proscenio della sfida con il sovrano. Ora, fermo restando che il plesso filosofia/politica conserva una suggestione ed una eterna valenza – riproponendo il tema della «vocazione politica della filosofia» (Donatella Di Cesare) –, la domanda di Cotroneo, per analogia e per differenza, prova a corrispondere all’identica istanza, assegnando giustamente ad un più ampio campo di intellettualità il tema del proprio ruolo rispetto al plesso politica/potere. Platone rimane sideralmente lontano dalla nostra inquieta e complessa contemporaneità, proprio perché, già ad inizio del ’900, l’ineffettualità della critica del filosofo verso il potere era oramai sancita dallo scarto profondo apertosi tra le trame diffusive, molecolari dei dispositivi del potere moderno e l’irrisorio peso d’attrito della parola critica della filosofia, indebolita e disseminata tra i diversi specialismi regionali. Vale a dire, quei saperi speciali che già conformavano e scandivano le trame plurali della scienza (o delle scienze) e del ruolo dell’intellettualità e di saperi sempre più intrecciati con le forme stesse del potere, dentro l’irreversibile plesso di economia-società-Stato: interfaccia del progressivo processo di inclusione delle masse dentro le trame istituzionali, già dai primi del ‘900. Secolo che, con gli organismi di partecipazione-mobilitazione politica, incardinava sia il ruolo dell’intellettuale collettivo – non solo a “sinistra”! –, sia la relazione tra specialismi-società-politica, in modo sempre più pervasivo e “produttivo”, arricchendo le funzioni strategiche del “politico”, pur senza inibire dinamiche di “autonomia” ed espansione della funzione intellettuale. La relazione intellettuali-società-potere si dinamizzava in un quadro di funzionalità tra specialismi ed elaborazioni politico-istituzionali, dando un senso strategico alle differenti opzioni progettuali dei soggetti collettivi, politici ed istituzionali. Questa complessa relazione, ricca di senso, è progressivamente saltata, dissolvendosi radicalmente lungo quel processo di crepuscolo della sovranità statale che ha segnato, a partire dal 1989 – atto inaugurale della globalizzazione –, i decenni conclusivi del XX secolo e la nostra attualità. Il potere – indicazione indistinta e, oggi, anche ineffabile –, le sue trame e i luoghi del suo esercizio, hanno via via mostrato il volto demoniaco, sì da rendere inafferrabile o invisibile lo stesso posto del Re. Da qui l’enorme difficoltà di una voce critica degli intellettuali, al punto che il loro peso oggi appare davvero un buco nero, uno spazio vuoto, una pagina bianca, dal momento che le plurali figure che compongono questa costellazione non sono più in grado di fare attrito sul potere, così come è apparso vieppiù residuale il compito etico-politico di «dire la verità al potere». Un potere mondiale, giunto alla sua trama ab-soluta, che governa vite e corpi di quella moltitudine, segnata da drammatiche insicurezze globali ed oscillante – dentro un processo di evaporazione della politica – in una profonda «crisi di rappresentanza» e di identità nello spazio politico interno. Moltitudine che si staglia, in parte, in forme di disincanto, o di sovrana indifferenza, o si agita in sterile ribellione, o in aperto tumulto. Appare questa la diffusa fenomenologia sociale che abbiamo di fronte. Restando peraltro nell’ambito nazionale – questo è il luogo con cui la domanda di Cotroneo ed altri interloquisce –, come non ricordare il ventaglio di decisioni politiche, pseudo-riforme, misure legislative, restrizioni finanziarie, ecc., che hanno devastato, a destra e a sinistra, in questi ultimi decenni, il ruolo e il peso dell’intera costellazione dei luoghi del sapere: dalla scuola all’Università, dalla formazione ai centri di ricerca? Chi ha devastato i luoghi deputati all’affinamento della funzione intellettuale, ai percorsi di arricchimento del general intellect, che affinavano strategie politiche, culturali e le opportunità di inventio specialistica del paese, dando senso alla comunità e costruendo immagini di società e di futuro? Ecco perché la responsabilità sul senso di smarrimento che perturba lo spirito pubblico, più che agli intellettuali, va indirizzata ad altri interlocutori, ad altri soggetti: al vasto mondo di protagonisti politici e delle Istituzioni, visibilmente in grande affanno strategico e culturale, non più in grado di cementare la dimensione dello spirito pubblico e le trame della necessaria religio comunitaria. La deriva progettuale e di idee del nostro tempo e il declino strategico del nostro paese mettono pertanto sul banco degli imputati l’intera classe dirigente nazionale, impoveritasi proprio per aver irresponsabilmente liquefatto e fatto venir meno le relazioni produttive che tenevano in vita il plesso “sapere/potere”, specialismi/decisioni istituzionali e per aver favorito la messa in discussione dei saperi, del ruolo delle competenze e delle stesse “comunità linguistiche”. Questo è lo scotto che paga oggi l’intellettualità italiana e, con essa, il paese. Hic Rhodus, hic salta!