Richard Shusterman, filosofo pragmatista, attualmente “Dorothy F. Schmidt Eminent Scholar in the Humanities”, professore di filosofia e direttore del “Center for Body, Mind, and Culture” alla Florida Atlantic University (FAU), è famoso per i suoi contributi nel campo dell’estetica pragmatista e nel nuovo ambito di studi della somaestetica, da lui stesso fondato. Fra i temi principali della ricerca filosofica svolta da Shusterman nel corso dei decenni spiccano i temi dell’esperienza estetica, della difesa del valore e del significato delle arti popolari, della rivalutazione dell’idea della filosofia come arte di vivere, e infine la forte sottolineatura del ruolo del corpo nelle pratiche ed esperienze umane in generale. Tenuto conto della grande attualità e diffusione di prospettive pragmatiste nella filosofia e nell’estetica contemporanea, e tenuto conto della centralità del concetto di bellezza nell’intera tradizione filosofica ed estetica dell’Occidente (e non solo, ovviamente), abbiamo approfittato della disponibilità di Richard Shusterman, figura eminente del pragmatismo contemporaneo, per porgli alcune domande a proposito del ruolo svolto dal tema della bellezza nella sua filosofia pragmatista e somaestetica.
S.M. Insieme al gusto, al genio, al sublime e ad alcuni altri concetti-chiave, la bellezza rappresenta senza dubbio una delle questioni principali nella storia dell’estetica. E, come tale, essa ha giocato sicuramente un ruolo anche nello sviluppo dell’estetica pragmatista, a partire dal fondamentale contributo del 1934 di John Dewey Art as Experience (ed. it. a cura di G. Matteucci, Aesthetica Edizioni, 2007) fino a oggi. Ora, il titolo di uno dei tuoi libri più famosi è Pragmatist Aesthetics (1992¹; 20002: tradotto in 14 lingue, fra cui l’italiano: ed. it. a cura di G. Matteucci, Aesthetica Edizioni, 2010) e presenta un riferimento immediato al tema del bello, dato che il sottotitolo del libro è Living Beauty, Rethinking Art. Pertanto, la mia prima domanda è: in cosa consiste la “living beauty” di cui tratta l’estetica pragmatista, o su cui quest’ultima risulta persino incentrata?
R.S. Sì, il sottotitolo di Pragmatist Aesthetics include il termine gerundivo “living beauty”, che scelsi per via della sua ricchezza semantica. Quest’espressione in inglese ha perlomeno due significati chiari. Primo, quando “living” funge da aggettivo, esso suggerisce l’idea di una bellezza che è vivace, vivida o energica (il tipo di bellezza che volevo difendere in generi popolari come la musica rock e hip hop). Secondo, quando “living” funge da verbo, l’espressione “living beauty” si riferisce all’idea del vivere la propria vita come un progetto estetico, l’idea dell’arte di vivere, o del vivere una vita bella o una vita che sia come un’opera d’arte. Quando pubblicai il libro in francese e in tedesco, nei primi anni Novanta (prima che il pragmatismo e l’estetica pragmatista diventassero molto noti in Europa), il titolo principale del libro non faceva alcuna menzione al pragmatismo ma si focalizzava invece sull’idea, presente nel sottotitolo originale, della bellezza “viva” o del “vivere” l’arte. Il titolo dell’edizione francese era L’art à l’etat vif (Minuit, 1992) e la traduzione tedesca recava il titolo Kunst Leben (Fischer, 1994). L’idea del pragmatismo compariva solo nei sottotitoli di entrambe queste edizioni, perché, come ho già detto, a quel tempo l’estetica pragmatista non era effettivamente molto conosciuta in Europa. L’estetica di Dewey, per esempio, non è stata tradotta in francese fino 2005. Ma, per tornare all’espressione “living beauty”, il mio scopo è stato quello di sottolineare la dimensione vivida, vissuta o esperita dell’arte, e l’idea dell’arte di vivere; di apprezzare la bellezza nell’arte e nella vita e, quindi, di contribuire alla bellezza esperita nell’arte e nella vita mediante le proprie pratiche di vita. Si può contribuire all’incremento della bellezza esperita nell’arte anche senza essere degli artisti, anche senza praticare l’arte; per esempio, attraverso pratiche di interpretazione, di insegnamento, di teorizzazione in modi che aprano gli occhi delle persone su forme di bellezza che in precedenza non sapevano apprezzare. Ovviamente, chiunque sia vivo può fornire un contributo alla bellezza del vivere attraverso le sue pratiche, sia etiche che estetiche – e, nella mia concezione dell’estetica pragmatista, c’è una considerevole sovrapposizione fra l’etico e l’estetico. Sono un pluralista, più che un essenzialista, riguardo alla bellezza. Penso che vi sia una grande varietà di forme di bellezza e non credo che possano essere completamente e propriamente ricondotte a un’unica essenza comune. Riconosco che alcune definizioni tradizionali della bellezza possono essere utili per fornire una comoda traccia per la comprensione del concetto: per esempio, “unità nella varietà”. Tuttavia, ci sono forme di unità nella varietà che non sono belle e ci sono esempi di bellezza che possono non esibire chiaramente una varietà unificata delle parti. Nei termini di questa definizione piuttosto familiare, insisterei sul fatto che ciò che è importante per la mia idea di “living beauty” è che l’unità sia un’unità energica o dinamica, che viene sentita in un’esperienza viva anziché essere una forma di unità statica o morta. La mia attività nel campo della performance art con “The Man in Gold”, un progetto che conosci bene avendo recensito il mio libro sulle sue avventure (cfr. S. Marino, recensione di R. Shusterman, The Adventures of the Man in Gold, in “European Journal of Pragmatismand American Philosophy”, 2, 2017, pp. 1-6), esemplifica questo senso di una bellezza dinamica, energica. L’uomo dorato (“the man in gold”) non è bello secondo gli standard convenzionali di bellezza che conosciamo dal mondo della pubblicità e dei/delle top model, ma irradia un’energia e una luce che esprimono un’aura di bellezza dinamica. Accanto alla definizione della bellezza come unità nella varietà, altre concezioni della bellezza la collegano al piacere. Riconosco una forte dimensione edonistica nella mia estetica. Sebbene alcuni critichino il piacere come qualcosa di superficiale, io insisto sul fatto che esso è un elemento cruciale della vita e un elemento capace di promuovere avanzamento della conoscenza e dell’azione. Smarriremmo il nostro gusto per il vivere se non avessimo alcuna speranza di provare piacere; e l’estetica pragmatista scorge nel piacere un valore importante che è del tutto coerente con la conoscenza. Buona parte del mio lavoro sull’esperienza estetica sottolinea il nesso fra piacere e conoscenza.
S.M. Uno dei tratti distintivi di Pragmatist Aesthetics, fin dalla sua prima edizione nel 1992, è sempre stata la tua difesa dell’arte popolare (e, in questo contesto, soprattutto della musica popolare), con l’affermazione che essa effettivamente “merita una seria attenzione estetica”: come si legge in Pragmatist Aesthetics, “l’arte popolare non solo è in grado di soddisfare i requisiti più importanti della nostra tradizione estetica, ma ha anche il potere di arricchire e rimodellare il nostro tradizionale concetto di estetica, in modo da liberarlo pienamente dalla sua alienante associazione con […] la negazione ascetica della vita”; essa suggerisce “un estetico radicalmente rivisto, con un gioioso ritorno della dimensione corporea che la filosofia ha a lungo represso” (ed. it., pp. 124-125, 129, 136). In questo contesto, vorrei sapere se, sulla base del tuo background e della tua prospettiva pragmatista, ritieni che vi sia una qualche differenza fondamentale (o, per così dire, essenziale) fra l’esperienza del bello nella cosiddetta cultura alta e nell’arte elevata, e nell’esperienza del bello nella cultura e nell’arte popolare.
R.S. Riguardo a questa questione è utile non focalizzarsi semplicemente sulla distinzione, da te menzionata, fra arte elevata e arte popolare, ma pensare di più nei termini di una distinzione fra modalità elevata e popolare di apprezzamento dell’arte (a prescindere che l’arte sia designata come elevata o popolare). Penso che la medesima opera d’arte (elevata o popolare) possa essere esperita o usata in modi molto differenti: alcuni molto intellettuali, raffinati, controllati e, a paragone, non-emozionali; altri più semplici, non-riflessivi, non-trattenuti, e più emozionali e somatici. L’arte popolare incoraggia questa ricezione più libera, emozionale e somatica. Ma può anche essere consumata in modo molto raffinato e intellettuale. Un genere popolare come quello dei fumetti dei supereroi, per esempio, può essere fruito semplicemente per la sua storia e per l’interesse visivo sensoriale per le sue immagini, ma può anche essere analizzato intellettualmente per la sua forma, per i suoi riferimenti intertestuali e per i suoi significati filosofici o sociali. Lo stesso vale anche per la musica rap, che, come ho mostrato, può veicolare messaggi filosofici sofisticati così come può eccitare il pubblico suscitando una ricezione non-trattenuta ed emozionale che dà luogo a una danza spontanea ed energica. La bellezza può essere sensoriale e intellettuale al tempo stesso; e la migliore arte, sia elevata sia popolare, esibisce entrambe le forme di bellezza. La distinzione fra arte popolare e arte alta non è una distinzione di tipo essenziale ma di tipo pragmatico, contestuale e mobile, perché, come ho spesso sottolineato nelle mie discussioni sulla distinzione “arte alta/arte popolare”, la medesima opera d’arte può evolversi dallo status di opera popolare a quello di opera appartenente alla cultura alta. La tragedia greca classica in tempi antichi era una forma di arte popolare e di intrattenimento, dove il pubblico assumeva comportamenti che possono ricordare quelli del pubblico di un concerto rock, ma queste opere teatrali sono oggi considerate dei classici della cultura alta. I romanzi di Charles Dickens ed Emily Brontë vennero inizialmente considerati arte popolare, ma adesso sono classici della cultura alta. Shakespeare era originariamente teatro popolare, e nella cultura americana dell’Ottocento veniva apprezzato sia nella forma popolare del vaudeville sia nel teatro raffinato. In modo simile, nell’America dell’Ottocento l’opera poteva essere fruita in maniere popolari (con il pubblico che si univa cantando chiassosamente e commentando) o in maniere raffinate, elevate.
S.M. Il tuo sviluppo originale dell’estetica pragmatista è sfociato infine nel “conio” di un nuovo concetto e di una nuova disciplina, cioè la somaestetica, definita come “lo studio critico, migliorativo dell’esperienza e dell’utilizzo del proprio corpo come sede di fruizione estetico-sensoriale (aisthesis) e di auto-modellazione creativa”, che si articola poi in tre branche o dimensioni fondamentali (somaestetica analitica, pragmatica e pratica) e in tre forme, a seconda che l’orientamento sia principalmente rivolto all’apparenza esterna o all’esperienza interna (somaestetica rappresentazionale, esperienziale e performativa) (ed. it., p. 220 ss.). Nel tuo articolo Thinking Through the Body, Educating for the Humanities: A Plea for Somaesthetics (in “The Journal of Aesthetic Education”, 40/1, 2006) si legge: “la somaestetica, […] come disciplina migliorativa tanto della teoria quanto della pratica, […] cerca di accrescere il significato, la comprensione, l’efficacia e la bellezza dei nostri movimenti e degli ambienti ai quali contribuiscono i nostri movimenti e dai quali essi traggono anche la loro energia e la loro significatività” (p. 2). Pertanto, qual è il significato della bellezza dal punto di vista di una disciplina filosofica come la somaestetica, specificamente incentrata sul corpo, sulla corporeità e sulla natura corporea della nostra esperienza del mondo e della vita, in generale, e della nostra esperienza estetica, in particolare?
R.S. Uno dei motivi fondamentali che diede origine al progetto della somaestetica, e forse persino la ragione più urgente per proporla, fu la mia convinzione che la bellezza corporea non dovrebbe essere limitata agli stereotipi convenzionali relativi ai corpi belli che conosciamo tramite la pubblicità, la moda e l’industria cinematografica, e che inoltre non dovrebbe essere limitata alla superficie e alla forma esteriore del corpo. La somaestetica ha un interesse centrale per la percezione e l’apprezzamento sensoriale, e in questo senso essa porta avanti l’orientamento e gli interessi originari dell’estetica. La maggior parte delle persone che non si specializzano in estetica e che non ne conoscono la storia non sa che questo campo di studi non fu concepito originariamente come teoria dell’arte e della bellezza. Piuttosto, il suo fondatore Alexander Baumgarten la introdusse alla metà del Settecento come un campo dedicato allo studio e alla coltivazione della nostra percezione sensoriale, di modo che, attraverso una migliore percezione sensoriale, potessimo perfezionare la nostra conoscenza, la nostra azione e la nostra esperienza (e mi fa piacere citare qui, per i lettori italiani, il fatto che il traduttore in italiano dell’estetica di Baumgarten, Salvatore Tedesco, abbia anche tradotto il mio libro Body Consciousness [cfr. Coscienza del corpo. La filosofia come arte di vivere e la somaestetica, Marinotti Edizioni, 2013]), aggiungendo un’eccellente Introduzione alla sua traduzione). Baumgarten non incluse nel suo progetto di estetica la coltivazione del corpo e della coscienza perfezionata dei nostri sentimenti somatici, ma io capii che ciò era necessario ai fini di un perfezionamento più ampio della nostra percezione, della nostra azione e del nostro piacere. Inoltre, attraverso le mie esperienze nel campo delle arti (specialmente musica e danza) e la mia pratica di diverse arti e discipline somatiche (yoga, taijiquan, zazen, metodo Feldenkrais), imparai ad apprezzare la bellezza di certi sentimenti corporei interiori: la bellezza del respirare, del sentir scorrere l’energia, dell’armonia e dell’equilibrio, della sensazione di vigore e forza, del rilascio dinamico, ecc. Per molti di noi, questi sentimenti passano troppo spesso inosservati o non hanno luogo per nulla. Uno degli scopi principali della somaestetica, pertanto, è quello di aiutare tutti noi a sentire meglio, in due sensi di “sentire meglio”: in primo luogo, a esperire sentimenti più piacevoli o, potremmo anche dire, sentimenti di bellezza interiore più frequenti e potenti; ma, in secondo luogo, ad acquisire maggiore precisione, chiarezza e consapevolezza dei nostri sentimenti interiori, in modo da poter coltivare questi sentimenti e il nostro comportamento somatico al fine di godere maggiormente della bellezza e con maggior apprezzamento.
S.M. Nel tuo libro Body Consciousness affermi che il pragmatismo cerca di sintetizzare il bello e il buono (p. 47). E uno dei capitoli più importanti di Pragmatist Aesthetics è dedicato alla questione riguardante l’etica postmoderna e l’arte di vivere, e quindi alla relazione fra estetica ed etica, tanto che il capitolo si apre con una famosa citazione dal Tractatus di Wittgenstein (proposizione 6.421) che recita: “etica ed estetica son uno” (ed. it., p. 189). Si può dire che, nella tua prospettiva filosofica, la bellezza giochi un ruolo anche in campo etico, oltre che in campo estetico?
R.S. Sì, è così, perché scorgo una significativa sovrapposizione fra etica ed estetica che include anche una sovrapposizione fra il vocabolario etico e quello estetico. Aggettivi come distinto, giusto o appropriato, che usiamo quando elogiamo le cose in senso estetico, sono usati ovviamente anche in contesti etici. In inglese di solito non parliamo di azioni etiche distinte o nobili come anche belle, ma in molte altre lingue “bello” è usato per descrivere ed elogiare le azioni etiche o per lodare il carattere della persona che ha compiuto tali azioni. Accanto alla bellezza delle azioni etiche ammirevoli c’è anche il fatto che la bellezza molto spesso ispira le persone ad agire eticamente. La bellezza stimola l’amore e l’amore rappresenta un potente incentivo alla coltivazione ed esibizione della virtù. L’idea della bellezza come essenzialmente collegata alla bontà e all’ispirazione dell’amore è centrale nella tradizione platonica, compreso il suo rigoglio nel Rinascimento italiano, dove Dio costitutiva la fonte massima e l’esemplificazione perfetta di Bellezza, Bontà e Amore. Nella nostra epoca post-moderna (e alcuni potrebbero aggiungere: post-umana) di estremo scetticismo nei confronti di un’essenza umana permanente da cui si possano ricavare logicamente delle regole etiche assolute e universali, siamo sempre più spinti a prendere le nostre decisioni etiche attraverso il tipo di giudizio riflettente, non-deduttivo, che caratterizza i nostri giudizi di gusto. Dato che le argomentazioni dettagliate a sostegno di questa affermazione sono state fornite in quel capitolo di Pragmatist Aesthetics a cui facevi riferimento (ed. it., pp. 189 ss.), non entrerò ulteriormente nei dettagli in questa sede.
S.M. Da ultimo, uno degli sviluppi più recenti della somaestetica, e più precisamente della sua seconda sottodisciplina (la somaestetica pragmatica), riguarda l’indagine sul tema delle arti erotiche dell’Asia (cfr. R. Shusterman, Asian Ars Erotica and the Question of Sexual Aesthetics, in “The Journal of Aesthetics and Art Criticism”, 65/1, 2007). C’è qualche differenza, specificità o particolarità nell’indagare da un punto di vista estetico il ruolo della bellezza in un ambito così particolare come quello dell’erotismo e della sessualità, in confronto all’indagine sulla bellezza in ambiti più tradizionali della ricerca estetica?
R.S. Un aspetto caratteristico dell’occuparsi di estetica del desiderio erotico o della bellezza del sesso è il fatto che l’erotico è stato essenzialmente escluso dalla tradizione estetica predominante nella modernità perché tale tradizione è stata definita dal disinteresse in opposizione al desiderio. Già prima che Kant formulasse le sue concezioni dei giudizi estetici come disinteressati e della bellezza come essenzialmente diversa da qualsiasi cosa collegata ai piaceri dell’appetito (relativi al cibo o al sesso), l’influente filosofo inglese Shaftesbury insisteva sul radicale divario esistente fra l’apprezzamento della bellezza di un corpo umano e l’esperienza dell’attrazione sessuale per un tale corpo. Come spiego nel capitolo sulla somaestetica di Edmund Burke incluso nel mio libro Thinking Through the Body, Burke fu davvero uno dei pochi teorici dell’estetica moderna ad affermare la dimensione sessuale della bellezza. Nietzsche, almeno in parte, fu un altro di questi teorici, ed entrambi i pensatori furono probabilmente spinti a queste conclusioni dal loro riconoscimento del ruolo cruciale del corpo in estetica. Considero entrambi questi pensatori, pertanto, come precursori della somaestetica, pur criticando nei miei scritti alcuni dei limiti presenti nelle loro teorie del corpo. Tuttavia, non dovremmo dimenticarci del fatto che anche pensatori premoderni abbiano riconosciuto il legame bellezza/erotismo. Questo legame è al centro della filosofia di Platone. La bellezza è l’oggetto dell’eros ed è l’eros che guida la ricerca filosofica della capacità di percepire la forma ideale del bello e, attraverso tale visione, di dar vita a forme belle di azione e conoscenza. Il primo passo nella ricerca erotica del bello in Platone è il desiderio del corpo di un’altra persona legato alla bellezza che esso possiede, e che secondo Platone esso possiede come riflesso della forma ideale del bello. La ricerca filosofica prevede un graduale elevarsi dell’amore desiderante dal corpo dell’amato a manifestazioni sempre più astratte e spirituali di bellezza, fino a raggiungere la forma ideale di bellezza in quanto tale. Ma il primo scalino della scala platonica dell’amore è il desiderio sessuale per un bel corpo ed è possibile ritrovare quest’idea anche nel neoplatonismo rinascimentale, dove troviamo anche un desiderio erotico di unione con Dio. I vari modi in cui il desiderio erotico assume la bellezza come proprio oggetto (sia essa una bellezza umana, astratta o divina) costituiscono una parte della mia ricerca attuale, insieme alla mia esplorazione dell’esperienza somaestetica della bellezza in pratiche sessuali come quelle insegnate nelle arti erotiche delle varie tradizioni culturali. Ho aspettato un po’ prima di pubblicare tali ricerche per varie ragioni, alcune delle quali sono facilmente immaginabili. La filosofia, a livello accademico, rappresenta un ambito conservatore e in qualche modo puritano, cosicché filosofare sulla somaestetica del sesso rischia di far sì che l’intero campo di studi della somaestetica venga rigettato come provocazione superficiale e volgare. Come vedi, sono disposto ad assumermi questi rischi, ma lo faccio con maggiore cautela e prudenza che nel caso di altri temi maggiormente rispettati in filosofia, incluso il tema della moda su cui sono stato felice di contribuire con un capitolo alla raccolta di saggi curata da te e Giovanni Matteucci (cfr. R. Shusterman, Fits of Fashion: The Somaesthetics of Style, in G. Matteucci e S. Marino [a cura di], Philosophical Perspectives on Fashion, Bloomsbury, London 2016). Inoltre, accanto al conservatorismo della filosofia accademica (che ha anche i suoi aspetti positivi nel preservare certe preziose tradizioni) ma, più in generale, della cultura attuale, l’intera tematica dell’erotismo è stata rovinata dagli scandali recenti e dalle reazioni indignate riguardo alle diffuse molestie sessuali ai danni delle donne e al loro sfruttamento erotico. Condanno un tale comportamento predatore, non solo in quanto immorale ma anche in quanto ferocemente brutto, e penso che questo sia un buon modo per concludere la nostra intervista sulla bellezza.
(trad. it. di Stefano Marino)