Là dove le trasformazioni del nostro ecosistema sono tali da suggerire agli esperti che si sia inaugurata sulla Terra una nuova era geologica, è difficile negare che la contemporaneità viva sotto l’insegna di una Kehre e, allo stesso tempo, è facile immaginare che questa svolta, avviata nella storia recente, possa pericolosamente condurre verso la catastrofe ecologica. Il neologismo ‘Antropocene’, ormai ampiamente diffuso per designare tale epoca, non solo ci ricorda che le caratteristiche chimiche, fisiche e biologiche del nostro pianeta stanno registrando un reale mutamento, ma lascia soprattutto intendere che quest’ultimo è un prodotto dall’agire umano. Se da una parte, allora, si possono comodamente rintracciare le origini dell’attuale assetto geologico nella radicale intensificazione dell’attività industriale e nei suoi incontrollati effetti di ricaduta, dall’altra è certamente meno agevole offrire una convincente riflessione sulle condizioni che hanno reso possibile l’affermarsi del consumo (e, quindi, della produzione intensiva) come nuova pratica identitaria dell’uomo e della società contemporanei. Verso questo insidioso obiettivo, tuttavia, muovono le pagine del libro di Vincenzo Costa Consumo e potere. Ontologia del legame e dell’emancipazione, pubblicato nel 2018 da Meltemi editore. L’autore, che offre al lettore una riflessione affatto autonoma e originale, non è però il primo né l’unico a esplorare sistematicamente la questione del consumo. Fra i tanti, è qui opportuno ricordare Jean Baudrillard, riferimento ineludibile per chi voglia affiancarsi allo studio delle società consumistiche e per lo stesso Costa che, infatti, fa largo uso degli strumenti concettuali resi disponibili dalla teoria del sociologo francese, senza tuttavia accomodarsi su di essa.
Consumo e potere. Ontologia del legame e dell’emancipazione si articola in nove capitoli (intitolati, nell’ordine, “Trasformazioni dell’esperienza: simbolo, merce e segno”, “Il consumo e i bisogni: l’economia politica”, “Il legame sociale tra scambio, produzione e consumo: l’antropologia economica”, “Dono e scambio simbolico: la relazione originaria”, “L’avvenire della socialità: tra fusionalità e responsabilità”, “Il codice del consumo e l’emancipazione”, “Il padrone assoluto e lo sterminio della socialità”, “Il significato politico del consumo e l’ideologia”, “La comunicazione pubblicitaria come paradigma universale”) e nasce dalla ferma consapevolezza che una trasformazione abbia profondamente alterato, deturpandoli, i tratti della modernità e degli individui che la abitano. Alla luce di tale convinzione, si tratta di scorgere quale configurazione abbia assunto la società nel presente e cosa la distingua dalle sue vesti passate. Insieme all’ambiente sociale, è chiaro, mutano le strutture cognitive attraverso le quali non solo si fa esperienza della stessa realtà, ma pure la si modella. Per comprendere il cambiamento è necessario, dunque, confrontarsi con le pratiche e con le teorie che, insieme, contagiandosi le une con le altre, conferiscono forma e senso al mondo. Nel testo di Costa, poi, questo confronto viene instaurato a partire da un approccio metodologico di matrice husserliana: la ‘decostruzione’ fenomenologica. Così facendo, ci si può finalmente affrancare dall’illusione di pervenire a una verità ontologica, universale nel tempo e nello spazio. Solo quando il pensiero riesce a riconoscere i suoi stessi contenuti alla luce della contingenza storica, ovvero come il prodotto della contaminazione con l’esperienza, si offre la possibilità di rifuggire la chiusura del senso dell’esistenza entro i confini dell’esistente. Anche la teoria critica, seppur voglia riformarlo, rimane complice del reale, giacché essa cerca soluzioni all’interno di quello stesso ordine di senso. Un pensiero allora è sempre vero, perché riflette le condizioni storiche che l’hanno prodotto, ma è anche falso, perché avanzando la pretesa di scoprire (in accordo o in contrasto con il reale) l’essenza originaria del mondo e dell’uomo finisce per naturalizzare ciò che invece è contestuale e contingente. In altri termini, si tratta di comprendere che l’ontologia deve presentarsi come lo spazio a partire dal quale indagare le condizioni di possibilità dell’essere e le sue realizzazioni storiche, anziché le sue regole di necessità e di universalità.
Il lavoro ‘fenomenologico-decostruttivo’ di Costa trova il suo bersaglio privilegiato in quelle teorie (e soprattutto nell’economia politica) che, per spiegare la società dei consumi, si appellano a schemi interpretativi universali senza tenere in considerazione il loro stesso carattere di determinatezza storica. Assumendo che il consumo è la massima novità del presente rispetto al passato, per comprenderlo non è quindi sufficiente illustrare i meccanismi intimi che lo governano ma bisogna altresì insistere sulla contingenza sia dei medesimi meccanismi sia del discorso che li fa affiorare. Solo così si dà la possibilità di scorgere, dietro l’apparente necessità del consumo come pratica identitaria nel tessuto sociale, l’apertura di condizioni di esistenza alternative che rompono con un’unica prospettiva di senso.
Lungo la sua storia, l’uomo ha conosciuto diversi modi di rapportarsi sia con gli oggetti, sia quindi con i suoi simili. L’importanza di queste differenti relazioni è evidente laddove si capisce che esse conferiscono, di volta in volta, uno specifico ordine di senso al mondo e un’identità a quel particolare gruppo sociale. Ora, il consumo, così come si è configurato nella contemporaneità, rappresenta una netta rottura con il passato perché esso altera il rapporto dell’individuo con l’oggetto, mediazione per la creazione di legami sociali. La novità più grande riguarda, secondo Costa, la chiusura del valore d’uso, rifermento centrale nella riflessione di stampo marxista e nell’economia politica, e di quello simbolico, più caro invece all’antropologia. Lo scambio non può più essere inteso come quella pratica, regolata dalla razionalità e dall’utilità, attraverso la quale si cede un oggetto per prendere proprietà su un suo equivalente. Consumare non significa, dunque, entrare in relazione con l’altro per rispondere al reciproco bisogno razionale di possedere una merce. Quando nella società dei consumi due individui stabiliscono tra loro un contatto scambiandosi un bene, non obbediscono a un criterio utilitaristico. Lo scambio però non asseconda nemmeno la logica del dono, come avveniva invece in alcune società non occidentali. Qui, come risulta dalle ricerche di Mauss (che, a sua volta, riprende e sviluppa le teorie di Malinowski), l’oggetto dimostra apertamente la sua funzione simbolica. Nella pratica del dono, infatti, il bene scambiato si fa veicolo di contenuti simbolici che, trascendendo il significato materiale e strumentale, costruiscono in siffatta maniera un legame unico e irripetibile tra due singolarità. Ora, però, bisogna forse dare ragione a Derrida quando sostiene che lo scambio simbolico, al pari di quello tra equivalenti, nasconde la stessa struttura di dominio perché il dono apre sempre una Schuld (in tedesco insieme ‘colpa’ e ‘debito’) che chiede di essere riscattata.
Ad ogni modo, se nella società tardo-capitalistica l’oggetto viene vuotato sia del suo valore d’uso che di quello simbolico, che ne rimane di esso? Da dove gli deriva quel fascino che ammalia a tal punto l’uomo da fare di lui un vorace consumatore? Secondo Costa, il primo ad aver offerto una risposta soddisfacente a questi interrogativi è Veblen, per il quale il consumo consisterebbe nella compulsiva ricerca non più di utilità bensì di prestigio sociale. Analogo, ma più complesso, è il pensiero di Baudrillard, a cui l’autore di Consumo e potere fa ampiamente riferimento. Quando il possesso di un bene (sia esso culturale o materiale) diviene unicamente un marchio di distinzione, l’universo simbolico lascia spazio a quello semiotico. L’oggetto non trascende più sé stesso, non rimanda più a quello spettro di significati che per suo tramite si costituiva, ogni volta in maniera diversa, nello scambio tra individui. Al contrario, invece, esso si è irrigidito nel suo valore segnico che può solamente rinviare a una precisa posizione entro un codice prestabilito. Il consumo, allora, si deve intendere come la pratica grazie alla quale il soggetto cerca riconoscimento sociale rivestendosi di segni che scongiurano la realtà, ovvero la evocano per subito negarla. In questo senso, si può dire che la modernità apre le porte a una ‘neoambientalità’ o ‘iperrealtà’ in cui la simulazione è più reale del reale. Con la società dei consumi, infatti, si inaugura il regno dei simulacri, dove ogni cosa, soggetto e oggetto, è la copia sbiadita di un modello promosso dal codice semiotico che monopolizza le aperture di senso dell’essere al mondo. Inoltre, quando il soggetto, consumando, si ricopre di segni per ottenere uno status socialmente riconosciuto, non sta più entrando in relazione con l’altro, suo simile, come avveniva attraverso lo scambio (sia esso simbolico o economico), ma unicamente con il codice che decide della sua vittoria o del suo fallimento. Se questo è vero, allora, si può dire insieme a Costa che la socialità è stata sterminata e che ormai solo l’adesione al codice, promosso e introiettato attraverso l’azione incessante della pubblicità, dispensa soddisfazione e felicità.
Sulla base di queste considerazioni, si capisce meglio l’importanza della nota introduttiva sulla ‘decostruzione fenomenologica’, da intendersi come quell’approccio epistemologico che, ricostruendo le condizioni di possibilità di un orizzonte di senso, permette di restituire all’esistente e al discorso su di esso il carattere contingente che è loro proprio. Non si può, quindi, negare che oggi l’individuo realizzi la propria identità nella pratica democratica del consumo, attraverso la quale ottiene gratificazione e potere di emancipazione. Bisogna riconoscere, però, che questa stessa nozione di felicità è prescritta da quel codice semiotico che, pur essendosi fatto realtà e pur mostrandosi necessità, può e deve essere decostruito. Per farlo, è opportuno innanzitutto pensare la società dei consumi e il suo ordine di senso come risultati della contingenza storica e, in quanto tali, suscettibili di trasformazione. Consapevoli delle condizioni che rendono possibile il presente, si tratta di infrangere il monopolio che il codice del consumo ha imposto sull’essere e, dunque, di riattivare il ventaglio di modalità d’esistenza altre.
Abbandonare l’idea della necessità del fatto sociale significa ripristinare la potenza dell’evento come apertura delle molteplici possibilità sull’avvenire. Ora, anche ammesso che la storia abbia sempre riprodotto la struttura del potere in forme diverse (quella dello scambio o quella dell’asservimento al codice, per fare degli esempi), diventa legittimo pensare un diverso ordine di senso. Pensare una nuova realtà, anche se essa fosse impossibile, è già un modo per attualizzarla, pensare l’assenza è già una strategia per farla presente. Si potrebbe credere, a esempio, che la società rigetti le strutture del dominio, per abbracciare invece una nuova logica, non più fondata sull’idea di scambio come creazione di debito e di potere bensì su quella di ‘resa’. Riferendosi al mondo come a un insieme in cui le cose non appartengono a nessuno perché esse circolano senza inizio e senza fine tra le diverse mani degli individui, i beni non verrebbero più scambiati o donati ma semplicemente restituiti. La logica della resa sarebbe capace, per Costa, di annullare le relazioni di potere e di promuovere, differentemente, una socialità fondata sulla fiducia che nasce dal sapersi tutti, allo stesso modo, appartenenti alla circolarità. L’individuo, dinnanzi al bisogno, è sicuro che qualcuno gli restituirà quello che ora sta restituendo a un altro. Non importa se chicchessia giudicherà questa logica impossibile: pensarla significa già realizzarla come guida di un progetto presente e significa altresì invitare l’essere ad accogliere in sé nuove possibilità d’esistenza.
recensione di Pietro Caldirola