Jazz e femminismo: intervista a Maria Pia De Vito

 

 

 

Il jazz viene spesso considerato una musica di libertà, di dialogo (ma anche di lotta e conflitto) e di emancipazione. E ciò, a sua volta, sia in senso strettamente inframusicale (perlopiù in riferimento ad alcune sue caratteristiche-chiave, come l’improvvisazione o l’interplay), sia in un senso più ampio che collega quanto avviene sul piano musicale a quanto accade su scala sociale, etica e politica. Sotto quest’ultimo punto di vista, essendo il jazz interpretato normalmente come la tradizione musicale afroamericana (o afroamericana e insieme europea, secondo certe letture) di maggior successo e impatto nel XX secolo, il riferimento alla conquista della libertà e dell’emancipazione tramite la musica viene declinato perlopiù nei termini del tentativo di liberazione dei neri rispetto al potere e all’oppressione dei bianchi. Tuttavia, se il ’900, oltre che un secolo di grandi prigionie, miserie, malvagità e oppressioni, è stato anche un secolo di grandi conquiste, ciò non è avvenuto solo sul piano “etnico-razziale” ma anche sul piano sessuale e di genere. Alla luce di ciò, posto che il jazz abbia dato un grande contributo alle rivendicazioni di libertà ed emancipazione del primo tipo, ci si potrebbe legittimamente chiedere se esso abbia contribuito altrettanto bene anche alle rivendicazioni del secondo tipo. A tal proposito, per interrogarci su questa questione, abbiamo pensato di intervistare una delle principali protagoniste della scena jazz italiana attuali, la cantante e compositrice Maria Pia De Vito, che ha gentilmente accettato di rispondere ad alcune domande sul tema “jazz e femminismo”.

S.M.

Secondo numerose ricostruzioni storico-interpretative di importanti studiosi, così come secondo il senso comune e l’immaginario collettivo sia del pubblico che degli stessi musicisti, il jazz è una musica di emancipazione par excellence. Condividi una tale visione diffusa del jazz, soprattutto in relazione ai neri e alle culture e comunità afro-americane?

MP.DV.

Che il jazz sia stato e sia ancora una musica liberatrice ed emancipatrice in relazione ai neri e alle culture afroamericane, lo dice la storia e sanno dirlo storici più avveduti di me, ma è comunque evidente che con lo spiritual e il gospel da una parte, ma soprattutto con i meno beneducati blues e  jazz, la cultura nera emerge dai terreni della schiavitù e impone la sua bellezza. L’incontro fra la multiforme cultura africana, una “cultura a maglie larghe” come dice il nostro Marcello Piras, e la “rigida” cultura europea, produce dei frutti di per sé mutanti, per metà a trasmissione orale, corporea, e per metà scritti, sistematizzati. Terreni porosi per loro natura. Quindi, come la scala maggiore settima di dominante “s’impiglia” alla pentatonica generando le blue notes, le poliritmie e gli scarti ritmici s’impigliano nel sistema binario europeo generando lo swing, generando danze e una musica che in poco più di un secolo si evolve vertiginosamente nelle forme grazie alla forza propulsiva dell’improvvisazione, una pratica del qui ed ora, che attinge al presente, vive della modernità. Il jazz è destinato a rimanere una musica che evolve, attraverso il rischio della trasformazione. In qualche decennio la musica nera esce dai ghetti, viene assorbita dall’industria bianca, diventando oggetto di mercato ed intrattenimento. Ma nei club e nei piccoli gathering dei musicisti l’evoluzione continua e a fine anni Quaranta nasce il bebop, una spontanea risposta a un desiderio di riappropriazione della propria cultura, di rispetto e individuazione rispetto allo strapotere della cultura bianca. La rivoluzione si compie nei club, in un contesto libero da pressioni di mercato: il rito della jam session, dell’improvvisazione, produce un meccanismo evolutivo nei musicisti: è una sfida tra solisti, ma anche il raccogliersi delle forze migliori intorno alla musica. C’è un forte senso del lignaggio, una venerazione per i maestri. Il jazz è una musica che si suona peer to peer, da pari a pari: esiste una cosa che si chiama interplay, il musicista fa esercizio di indipendenza e autoperfezionamento mentre è in dialogo continuo con gli altri elementi del combo. Così, con il bebop si va verso un virtuosismo estremo come sfida sociale, come rito di ammissione (Charlie Parker, Dizzy Gillespie propongono un modo di improvvisare che è rivoluzionario per i tempi e che diventa un terreno di sfida, in cui bisogna essere ammessi come nelle notorie jam session in cui poteva accadere che un solista non capace di capire al volo il brano staccato dal leader – spesso senza preavviso né indicazione di tonalità – venisse buttato fuori dal palco), e in questa natura interconnessa, di elementi paritari che dialogano fra loro, nasce fondamentalmente il grande potenziale evolutivo del jazz, anche nel sociale. Dal bebop in poi il jazz prende un’accelerazione incredibile, in soli vent’anni gli input si ramificano e si consolidano esperienze come il cool jazz, l’hard bop, il jazz modale, il soul jazz, con l’avvento del rock ’n’ roll vedremo primi esempi di rock jazz, il free jazz che dirà la sua in momenti di contrasti sociali, i suoi cortocircuiti con la classica contemporanea e l’incontro con le “musiche del mondo”. Seguirà lo sviluppo della scena europea del jazz dagli anni Settanta in avanti. Quindi la metodologia dell’improvvisazione “allarga”, si espande inevitabilmente e produce grandi mutazioni: la matrice è senz’altro afroamericana, le propaggini arrivano dappertutto.  È proprio questo senso di “pratica” del jazz come possibilità di elaborazione e integrazione di matrici culturali diverse attraverso l’improvvisazione che mi ha consentito una piccola personale rivoluzione quando, dopo i miei quattordici anni di apprendistato nel jazz, moltissimo bebop, tanti concerti in club, qualche festival, qualche disco e molte  collaborazioni tra Roma e New York, nel 1994 produssi Nauplia insieme a Rita Marcotulli, iniziando un lavoro sulle mie radici napoletane e i miei interessi musicali per i ritmi dell’Est europeo, dell’India, la musica barocca. Mi si sono aperte delle porte, e si è anche creata una scissione nella mia vita e carriera musicale: come due fiumi, uno legato alla tradizione afroamericana e all’evoluzione della forma-canzone anglofona, e un altro che è una sorta di “archeologia all’incontrario” – come argutamente Vincenzo Martorella definì allora il lavoro di Nauplia – che dalla cultura napoletana si diparte per incontrare… altro. Mi si sono aperti enormi terreni di ricerca grazie alla pratica improvvisativa. Questo è il “grande poder transformador” (come dice Caetano parlando del samba, altro prodotto africano) del jazz. Può essere una pratica spirituale, come in Coltrane. È sempre una pratica spirituale, il jazz, e l’improvvisazione una potentissima forma di meditazione.

S.M.

In determinati ambienti musicali la discriminazione verso le donne, un certo sessismo apertamente e orgogliosamente rivendicato come legame di fondo tra i fan (e dunque come valore di appartenenza), e una misoginia esibita in modi a volte sconcertanti nei testi delle canzoni e negli atteggiamenti nei videoclip o sul palco, sono purtroppo fenomeni ben noti. Come stanno le cose nell’ambiente del jazz riguardo al tema dell’emancipazione femminile? Nella comunità jazzistica trovi che una musicista goda di pari opportunità e di pari riconoscimento del proprio valore e del proprio talento rispetto ai colleghi uomini?

MP.DV.

Restando ancora per un attimo su un’impostazione storica del discorso, direi sicuramente che grandi cantanti blues degli anni Venti-Trenta come Bessie Smith, per esempio, fecero letteralmente nascere un’industria: Bessie Smith vendeva milioni di dischi, cantò con grandi come Armstrong e Goodman, salvò da sola un’etichetta discografica (la Columbia). I cantanti avevano un certo peso all’epoca! E poi penso a Ella Fitzgerald che, orfana, molestata, a volte homeless, arriva al Teatro Apollo ad Harlem dove si fa notare alle serate per dilettanti, viene assunta nell’orchestra di Chick Webb e alla morte di quest’ultimo prende le redini dell’orchestra (e, a quanto pare, aveva un certo “polso” da leader): una cosa straordinaria per l’epoca, un esempio per le donne di come una persona dalle origini più che umili e con la propria arte potesse arrivare a essere una leader. Ma perché questo? Perché Ella rispondeva al peer to peer, come dicevamo, era alla pari con gli altri musicisti per il suo talento musicale. Billie Holiday, Ella, erano riconosciute, amate dai loro musicisti anche se autodidatte, perché profondamente indipendenti e capaci di essere “dentro” il tessuto della musica, non solo “stelle” davanti a una ritmica. Piccolo aneddoto: Ella si beccava una certa quantità di rimproveri da Norman Granz, il grande produttore di suoi dischi di songbooks con grande orchestra che le aprirono la strada alla grande fama, perché adorava raggiungere Gillespie a tarda notte per fare jam nei club, mettendo a suo parere a rischio la voce e l’immagine rassicurante da jazz star. Più avanti altre grandi, come Sara Vaughan o Carmen McRae, furono cantanti ma anche pianiste e compositrici, cioè delle musiciste complete non relegabili a un ruolo di cantante “carina”, “rassicurante”, che esegue musica d’ascolto senza troppi sussulti. Quelle appena citate sono invece musiciste che, con il loro esempio, tracciano una strada; così come nella cultura africana non esiste un modello unico di “perfezione vocale”, esse si affermano via via con delle vocalità peculiari, fino ad arrivare, sempre nell’ambito del jazz afroamericano, a una figura come Betty Carter che è tutto tranne che una voce gradevole e rassicurante: una grandissima improvvisatrice, incredibile leader, direttrice e compositrice, che porta il bebop da un’altra parte, quasi in un luogo d’avanguardia, dirigendo i musicisti con un piglio e un carisma assolutamente eccezionali. In tutto questo, a queste donne non veniva richiesta e imposta “forma fisica”, cura dell’immagine; la potenza della loro arte (e un buon contratto discografico) le metteva al riparo dal peggio. Un ottimo risultato, dal punto di vista di emancipazione professionale femminile. Degli esempi luminosi, ma non indicativi della situazione femminile in generale! Il privato di queste grandi stelle molto spesso è un campo di battaglia, o un deserto. Ma questo è un altro discorso, o no? La storia del jazz indica una strada alle donne; una strada che, comunque, è tracciata in un mondo che era maschilista ai tempi, continua a essere maschilista oggi, ma per me – come musicista che ha deciso di cantare jazz per via dell’improvvisazione di Ella Fitzgerald, quindi con il desiderio di essere “ad armi pari” con gli altri musicisti  come massima forma di espressione – questo modello è quello che ha diretto il mio agire, che mi ha ispirato e che mi ha fatta sentire “alla pari” con i miei colleghi, vivendo un rispetto e un’amichevolezza da parte loro (tranne in qualche raro caso non degno di nota) che sono stati la mia spina dorsale in tutta la mia vita artistica. Dopodiché, poiché non viviamo in una bolla separata dalla società (anche se l’artista vive in una strana collocazione, tra i margini e la visibilità), ovviamente nella realtà che viviamo quando scendiamo dal palco ci scontriamo con cose diverse… Per quel che riguarda il codice linguistico di ambiti come heavy metal, rap e pop, diciamo che l’ipnosi dei media, del mercato, gli effetti negativi della rete (di contro a quanto di meraviglioso c’è nel sapere tanto ed essere esposti a tanto) espandono a macchia d’olio queste sacche di subcultura sessista, nelle quali la cosa più triste è vedere l’animale-donna consenziente a essere semplicemente quotata in quanto oggetto di sollazzo, e questa dovrebbe essere un modello di autodeterminazione.  Questi sono “mali” che da noi sono nati “televisivi”, prima ancora dell’espansione globale di smartphones e web. La televisione ha fatto molto male all’Italia, in particolare. Io avevo 16 anni nel ’76 e il modo in cui vivevamo il nostro femminile, e il senso della libertà rispetto a quel che si è visto negli anni berlusconiani, e rispetto a quello che ci ritroviamo oggi con gli attuali rigurgiti postfascisti, mi fa sentire amaramente la differenza. Credo che ci sarà sempre da lottare, in questo senso.

S.M.

Nel corso della tua carriera, ti è sembrato di poter scorgere differenze significative, sotto questo specifico aspetto, fra ciò che accade nella comunità jazzistica del nostro paese e ciò che caratterizza invece le comunità di altre nazioni?

MP.DV.

Nel jazz la presenza di donne strumentiste è sempre stata più rara, ampiamente più rara, rispetto alla presenza maschile. Per una musica come il jazz, che era ai confini della decenza ed era chiamata “musica del diavolo”, sicuramente c’erano meno opportunità per le strumentiste donne. E poche ancora oggi riescono a conciliare la vita da madri e da artiste. Ma tutto questo sta cambiato e oggi ci sono musiciste meravigliose, compositrici o soliste meravigliose in giro per il mondo, e anche in Italia, perché anche socialmente si sta anche ridiscutendo la questione dei ruoli. In Italia vedo sempre più strumentiste e cantanti preparate, e sono testimone del fatto che di fronte a una musicista brava non esiste un limite “perché si è donna”. Penso a Rita Marcotulli, con la quale ci siamo conosciute quando avevamo poco più di vent’anni, che per me è stata una grande ispirazione perché circondata da un rispetto che invece spesso non c’era verso i cantanti. Altro è il passaggio successivo, il rapporto con il mondo del lavoro, con organizzatori pubblici e privati: lì conta anche quanto siano colti ed educati i tuoi interlocutori. Non è stata e non sarà mai una passeggiata, se non riesci ad avere la rete “protettiva” di un agente o del tuo stesso ambiente. In quanto donna, ho vissuto le piccole penose cose quotidiane che hanno vissuto tutte. Posso dire che c’è una forma di “sotto-razzismo” molto presente ancora oggi verso i cantanti: l’ho riscontrata in tutto il mondo, nelle jam session, andando in giro, tanti anni fa, perché c’è una presunzione di ignoranza, come se il cantante fosse ancora visto come il fortunato o la fortunata con la bella voce che sa solo cantare il proprio tema ma poi non sa andare oltre. Ecco, questo accadeva molto spesso in passato, ma ancora oggi ci sono pregiudizi da parte di persone che pensano che la musica jazz sia solo strumentale, o che il cantante debba solo intrattenere. Più che legittimo da un punto di vista del gusto, che non discuto! Comunque, sono testimone di questo fenomeno e ho sempre furiosamente insegnato ai miei allievi che bisognava essere musicisti-cantanti; per fortuna i giovani nascono già evoluti rispetto a noi: vedo delle giovani cantanti e musiciste sempre più indipendenti e colte, capaci di individuazione di un proprio stile e di un rapporto pienamente integrato con i musicisti. Mentre, ripeto, per quanto riguarda l’emancipazione femminile, al pari della possibilità di raggiungere certi ambienti e di ricoprire ruoli “alti” nella politica, nell’industria, così come nella musica, in Italia i livelli dirigenziali vedono percentuali bassissime di donne in carica rispetto agli uomini: questa è un’evoluzione che deve avvenire tutta insieme, se mai avverrà… e non avviene grazie alle “quote rosa”, che sono irritanti. In paesi come Norvegia, Svezia, Danimarca, Olanda, ma anche Germania e Francia, paesi più ricchi e più colti, vi sono pari opportunità di genere, perché ci sono sostegni alla cultura e sostegni alle donne e alle famiglie! Nei paesi scandinavi la situazione è esemplare e si riflette anche nel modo di stare insieme fra musicisti e condividere progetti, il modo in cui il mondo del jazz, la produzione e promozione culturale, l’insegnamento nelle scuole e nei conservatori è tutto un gran mondo che insieme va avanti, ben supportato dallo Stato e con un imprenditoria collegata con un occhio ben rivolto al futuro dei propri giovani. Hanno donne che possono avere una carriera e una famiglia, e dei giovani che hanno la sensazione di avere un futuro davanti a loro. Beati loro.

 

S.M.

Mentre preparavo questa intervista mi è capitato di riascoltare un brano di John Lennon che, lo confesso, pur non essendo mai stato un fan o un estimatore eccessivo della carriera solista dell’ex-Beatles, mi ha colpito davvero molto. Si tratta di “Woman is the Nigger of the World” (dall’album Some Time in New York City, 1972) e, come si può facilmente vedere fin dal titolo, esso intreccia in modo certamente provocatorio ma anche intelligente e, soprattutto, finalizzato all’emancipazione femminile anziché al mantenimento di una condizione di subordinazione, aspetti “etnico-razziali” e socioeconomici, da un lato, e dinamiche di sesso o genere, dall’altro. Contemporaneamente, mi è capitato di rileggere un’intervista con la studiosa di femminismo Cinzia Arruzza, apparsa poco tempo fa proprio qui su “Scenari”, in cui, rispondendo a una domanda dell’intervistatrice che evocava il fatto che “gli ‘avversari’ teorico-politici di Angela Davis” fossero spesso “gli stessi attivisti neri” (proseguendo così: “chiunque abbia frequentato ambienti politici, non solo negli anni ’60-’70, sa quanto paradossalmente molto spesso proprio ambienti progressisti siano concretamente ostili alle battaglie femministe. Sembra quasi, oggi come ieri, che il primo vero nemico sia ‘in casa’”), Arruzza spiegava: “persino quando rappresentano momenti di rottura della continuità storica, i movimenti sociali e politici non rompono magicamente con i pregiudizi, le dinamiche psicologiche, il senso comune e le gerarchie esistenti al livello dei rapporti sociali. […] Il conflitto anche all’interno dei movimenti sociali e delle organizzazioni politiche di cui si fa parte è spesso l’unico modo efficace per avviare un processo di trasformazione interna che porti a superare il più possibile atteggiamenti e pratiche sessiste o razziste” (http://www.mimesis-scenari.it/2018/05/31/donne-razza-e-classe-intervista-a-cinzia-arruzza). Vorrei sapere se tu, da jazzista, da cittadina impegnata su un piano etico-politico e, in generale, da donna, hai mai avuto l’impressione che, all’interno della comunità musicale, ci si ritrovi a dover constatare con amarezza che talvolta i primi a opporre un muro al giusto riconoscimento delle proprie rivendicazioni di emancipazione femminile possano essere paradossalmente i propri colleghi e amici, con cui sul piano musicale si condividono magari momenti indimenticabili, e che sul piano etico-politico, soprattutto nel caso di jazzisti neri, sollevano giustamente le proprie pretese e rivendicazioni, ma non sembrano disposti a sposare la medesima causa quando si tratta di spostare il discorso dalla variante “etnico-razziale a quella di genere o sessuale.

MP.DV.

In parte ho già risposto prima, dicendo che nella mia esperienza di musicista che ha suonato tanto anche all’estero, tra i musicisti ho quasi sempre riscontrato un’attitudine aperta, corretta, attenta e sensibile a questo tipo di tematiche. Poi, è chiaro, ci sono singoli casi, sacche di machismo qui e là, ma sono delle tristi eccezioni che mi disgustano abbastanza. D’altra parte, invece, in posti “duri” come New York fui testimone di un senso notevole di comunità e di protezione da parte dei musicisti nei confronti delle proprie colleghe. Mi colpì molto. In Italia al tempo eravamo molto più “cani sciolti”. Ad ogni modo, il mondo dei musicisti jazz, seppur con tutti i suoi difetti, si evolve, ha dai suoi giovani gli esempi migliori, è un’isola felice paragonata ad altri ambiti. Pensiamo al movimento #metoo (che in me provoca mixed feelings, ma questa è un’altra storia…) che, partito dal mondo del cinema, si sta espandendo ai piani alti… Non potrebbe accadere nel jazz, non in quella misura. Una musicista mediocre non potrebbe mai per raccomandazione o altro ritrovarsi su un palco insieme a Sonny Rollins o Wayne Shorter… Confesso che mi sembra di stare parlando al passato. Stiamo vivendo un momento storico difficile, terribilmente confuso, di ipnosi collettiva, ispirata alla più bieca “cultura del nemico”. Può capitare di vedere sui social un jazzista leghista o sovranista, un ossimoro vivente. È un momento di grandi contrapposizioni, anche nel nostro paese, in cui le forze che portano il “nuovo” mettono addirittura in dubbio la legge sull’aborto e tutta una serie di conquiste delle donne degli scorsi decenni. Si tratta di fenomeni che fanno abbastanza impressione e che credo richiederanno ai noi donne tutte, ma a quelle impegnate nella cultura in particolare, di essere presenti: chi ha la visibilità dia l’esempio. Questi anni caotici ci hanno fatto danno da tanti punti di vista: c’è nel nostro paese, più che negli altri paesi europei senz’altro, una decrescita per mancanza di ricambio nel pubblico; i giovani non ci sono più tanto ai concerti e un tipo di cultura nazionalpopolare che sembra avanzare a grandi passi in Italia mi fa temere molto. In molti paesi nel mondo la donna è ancora “the nigger of the world” e in quelli dove l’analfabetismo è pesante i rischi per le donne aumentano in modo esponenziale. Il cosiddetto femminicidio fa vittime in famiglia. In questo caso, il nemico può essere in casa.

S.M.

All’interno della tua vasta e poliedrica produzione musicale, mi ha sempre colpito in maniera particolare il tuo disco So Right del 2007 (con Enzo Pietropaoli, Aldo Romano e Danilo Rea), dedicato interamente a riletture in chiave jazz di alcuni classici di Joni Mitchell. Tenuto conto di ciò, vorrei sapere se, per una jazzista come te, confrontarsi con la rilettura di uno standard (in un senso ampio del termine) o di un repertorio “maschili” o “femminili” quanto alla loro composizione comporta delle differenze oppure no, per esempio sul piano delle emozioni ricevute dai brani e ritrasmesse poi, mediante l’esecuzione, al pubblico. Puoi dirci qualcosa su ciò che è in gioco sul piano espressivo, emotivo e comunicativo in un’operazione musicale interamente “al femminile”, come quella di So Right?

MP.DV.

Non ci sono assolutamente differenze, nel senso che la bellezza vince! Scelgo brani che sento profondamente e chiaramente amo l’opera di Joni Mitchell, sono attratta profondamente da lei come artista, come penna, ma così come sono attratta dalla scrittura poetica di Leonard Cohen o Bob Dylan. Su questo piano, non sento particolarmente questa tematica; né la sento particolarmente rispetto a un testo, a meno che non parli di qualcosa che è esclusivamente maschile; e, comunque, nell’interpretazione c’è sempre l’entrare in contatto con i sentimenti, i pensieri, le istanze che si stanno narrando. Tutto quello che pertiene all’umano è cantabile e interpretabile. Diciamo che nei miei lavori come So Right il rapporto con la penna di Joni Mitchell è un rapporto di interesse per il suo essere un’artista quasi rinascimentale: poetessa, dove la poesia governa la forma musicale, perché alcune sue strutture asimmetriche mi suggeriscono proprio questo; e la sua capacità di incontrare musicisti come Jaco Pastorius o Wayne Shorter, e di esporsi al cambiamento dopo l’incontro con questi musicisti, mi parlano di una musicista che in fondo, anche se non lo dice, procede come una musicista jazz. I soundpaintings da lei ricercati nella realizzazione del disco Mingus sono un manifesto di interplay, di inter-relazione estrema nel fornire una tessitura mobile, pulsante, alle strutture delle sue composizioni e a quelle di Mingus. Essere una musicista jazz per me significa agire in questo ambito di relazione viva con i musicisti con un ascolto reciproco basato sulla fiducia. Il mio femminile è parte del mio strumento, del mio bagaglio, questo è tutto. Non vi è stata in me differenza di sentimento o approccio ai testi di Joni Mitchell e quelli di Chico Buarque nel mio disco Core / Coração. È una domanda che non mi pongo.



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