Se la sinistra prova a fare la destra

 

 

La triplice crisi – bancaria, monetaria e debitoria – esplosa nel 2008 ha messo in discussione l’egemonia  neoliberale e offerto nuove possibilità alla costruzione di un ordine maggiormente democratico. Il paradosso è che di questa situazione hanno approfittato non i partiti “progressisti”, ma tutta una serie di movimenti anti-establishment provenienti soprattutto da destra. Il disorientamento che ciò ha provocato nei partiti della sinistra mainstream ha spinto – e continua a spingere – una parte della sinistra, quella “sovranista”, a mutuare temi e parole d’ordine dai movimenti populisti e sovranisti. E perciò a indirizzare le ragioni del malcontento popolare contro i soliti capri espiatori agitati dalla destra: l’immigrazione incontrollata, le Ong, l’Unione europea, le burocrazie, le tecnocrazie, le eurocrazie, la globalizzazione eccetera.

Si tratta di una reazione (almeno in parte) prevedibile. Dopo la caduta dell’Unione sovietica, la sinistra mainstream aveva aderito fideisticamente alla ideologia globale neoliberista, nella convinzione che la giustizia sociale fosse possibile solo a condizione che il mercato potesse svolgere liberamente la propria funzione e che la politica avesse unicamente un ruolo di accompagnamento di processi economici sostanzialmente autonomi. Invece di rivolgere la critica alle diseguaglianze e alla subalternità del lavoro che generano precarietà e insicurezza, la sinistra ha provato a rispondere alle ansie dei cittadini mobilitandosi a favore dei diritti umani e civili, considerati come sostitutivi dei diritti sociali.  La denuncia delle storture sociali è stata così lasciata alle sinistre “radicali” oppure ai movimenti populisti e sovranisti, e cioè alle destre di vario orientamento, rivelatesi ben più capaci di comprendere le esigenze di protezione e sicurezza reclamate a gran voce da un numero sempre crescente di cittadini. Così, dopo avere constatato il (prevedibile) fallimento di una politica capace (forse) di attirare la sinistra dei ceti garantiti e cosmopoliti, europeisti e mondialisti, una fascia consistente del mondo “progressista” si è impegnata nel tentativo di recuperare il tempo e lo spazio politico ormai perduti provando a sottrarre la protesta sociale alle destre mutuandone lessico e obiettivi. Si tratta di una prospettiva sbagliata, e per più ragioni.

Innanzitutto, la xenofobia dovrebbe essere qualcosa di moralmente inaccettabile per chiunque si riconosca nella tradizione, nell’eredità e nei valori che sono patrimonio della sinistra. Ora, molti, probabilmente la maggior parte, degli atteggiamenti e delle norme morali si sono storicamente rivelati convincenti solo in comunità solidaristiche, dove cioè gli appartenenti ritengono che vi possa essere un rapporto di reciprocità che immediatamente colleghi le prestazioni alle ricompense – e quindi vi siano giustificate ragioni pratiche per essere “giusti”. Questo tipo di comportamento morale richiede una chiara definizione dell’appartenenza, in modo che non vi siano esitazioni quando si tratta di capire chi è membro del gruppo e di chi non lo è. La solidarietà dei movimenti sindacali si è nutrita proprio di appartenenze di questo tipo. Gli operai di un certo ramo dell’industria erano operai di quel ramo dell’industria, e non i membri di una classe lavoratrice più ampia. Ma la conquista storica dei partiti operai e socialdemocratici è stata proprio quella di saldare queste solidarietà particolari a quelle più ampie – non distruggendole, ma subordinandole a una morale di tipo universalistico basata sulla (ma non limitata alla) appartenenza di classe.

Di fatto, per la maggior parte del XX secolo, “universale” è stato sinonimo di “nazionale”.  Questa sorta di equivalenza nasceva da una sintesi tra calcolo pragmatico (lo Stato-nazione era una struttura politica democratizzabile, mentre le strutture sovranazionali erano prive di autentica legittimazione) e un appello alle forme di solidarietà costruite sulla base della forza socio-integrativa garantita dall’appartenenza alla “nazione”, la sola realtà sovraindividuale di grandi dimensioni capace di creare vincoli di lealtà tra persone fino allora reciprocamente estranee. La moralità universalistica e ugualitaria della sinistra ha sottolineato il primo aspetto; le tendenze esclusiviste ed escludenti della destra il secondo. L’equilibrio tra questi due aspetti è venuto meno quando lo Stato-nazione ha perso la capacità di governare autonomamente lo spazio economico e non è più stato in grado di costruire argini politici e giuridici in grado di porre rimedio alla precarietà e alla insicurezza esistenziale di massa. Al bisogno di protezione e sicurezza di gran parte dei cittadini la destra ha saputo rispondere con forme di unificazione e stabilizzazione identitaria strutturate per combattere un nemico quasi sempre costruito ad hoc, e in questo modo è diventata la principale beneficiaria del disorientamento prodotto dalla globalizzazione.

Per adeguarsi a questo mutamento, e per non perdere ulteriormente terreno politico, una certa sinistra, la sinistra “sovranista”, si è sentita in dovere  di gettare alle ortiche la morale universalistica ed egualitaria che ha caratterizzato tanta parte della sua storia migliore a favore di una concezione esclusivista ed escludente dell’appartenenza. Invece di interrogare radicalmente i modelli economici vigenti e le loro contraddizioni, la sinistra che prova a fare la destra  vede il nemico nelle “parti” che non rientrano in un’idea totalizzante di popolo. Sostenere, per esempio, che i migranti “rubano” il lavoro ai nativi, si adattano a mercati del lavoro che richiedono una manodopera irregolare e priva di tutele e determinano una corsa al ribasso dei salari è sin troppo facile, perché i migranti sono realtà ben più concrete e visibili di astrazioni come le oligarchie economiche e finanziarie, il capitale globale o i fantomatici “mercati”. Ma tutto ciò non solo non significa avanzare una critica di sinistra al capitalismo, ma significa anzi piegarsi al linguaggio di chi sfrutta cinicamente il malessere dei condannati all’esclusione culturale, alla marginalità, all’irrilevanza sociale, preoccupati per la loro precarietà economica e per ulteriori forme di declassamento sociale.

In questo modo, lungi dal sottrarre spazi e parole d’ordine alla destra, ciò che la sinistra ottiene sposando questi temi è legittimare il messaggio dell’estrema destra, unendosi involontariamente a essa per  travolgere gli argini morali che avevano contribuito a impedire il dilagare del sovranismo populista di destra. Non è casuale che violenze e intimidazioni contro migranti e persone di origine straniera siano cresciuti in maniera esponenziale dopo il voto per la Brexit, l’elezione di Donald Trump e l’ingresso della Lega al governo. La crescita dei crimini d’odio e di matrice discriminatoria è indicativa di una tendenza generalizzata, che ha favorito lo sdoganamento di linguaggi e sentimenti, fantasmi e spettri che le generazioni nate nel dopoguerra non avevano avuto modo di conoscere direttamente. La ferocia verbale esibita nei confronti degli “altri” è naturalmente sempre esistita, ma la sinistra “storica” (e la cultura democratica in genere) ha saputo fare da filtro agli istinti distruttivi riuscendo a immetterli nel sistema istituzionale dopo averli depurati. All’odio che nasce dalla paura di chi si sente vulnerabile e cerca protezione e sicurezza la sinistra non può rispondere agitando gli stessi sentimenti primitivi e lo stesso linguaggio, nutrito di risentimento e rancore, adottato dalla destra, magari spuntandolo degli aculei più velenosi, ma solo sfidando la destra sulle politiche del lavoro e su un’idea diversa, non gerarchica, di Europa.

In terzo luogo, i singoli Stati nazionali non possono da soli regolamentare un’economia globale. Ci sono tre possibili risposte in proposito. L’adattamento: l’economia globale funziona al meglio quando la politica lascia fare ai mercati e all’economia globale. Questa è la posizione dell’estrema destra neoliberale, che può quindi lasciare alla destra nazionalista il compito di agitare il fantasma del nazionalismo servendosene come di un’arma di distrazione di massa. Il riflesso sovranista: sigillare lo Stato-nazione dalle pressioni globali attraverso il protezionismo. Questo è l’approccio del nazionalismo anti-globalista, sia di destra che di sinistra, che alimenta l’immagine di un mondo in cui i commerci si contraggono, le economie si riducono di scala e dove le relazioni tra Stati divengono potenzialmente ostili. La risposta democratica: costruire coalizioni tra gli Stati-nazione e le organizzazioni internazionali in grado di regolare le transazioni globali. Questo è l’approccio dei neoliberali moderati e dei socialdemocratici. È il più difficile, perché richiede un accordo tra i diversi Paesi, ma è l’unico modo per combinare i vantaggi del commercio globale con standard decenti di condotta economica, rivisitando la strategia fondamentale della socialdemocrazia: rendere il capitalismo socialmente responsabile.  È ormai diventato di routine assecondare ogni manifestazione di risentimento contro tutte le élites, politiche, economiche o mediatiche, ma è invece contro le élites illiberali e anti-liberali, nelle quali traspaiono esplicite declinazioni antisistema e anche antidemocratiche, che occorrerebbe ri-costruire un progetto politico-culturale capace di riprendere e aggiornare in un’ottica socialdemocratica il rapporto tra capitale e lavoro. Perché, anche se lo slogan della sinistra sovranista sembra riecheggiare quello di Marx, proletari di tutti i paesi unitevi!, implica una chiosa spiacevole: sì, gli uni contro gli altri.


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