FEMMINISMO PER IL 99%.

 

 

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Scrivere su di un manifesto femminista, per un uomo, è sempre un’impresa che si presta a innumerevoli rischi, nella misura in cui un soggetto – che, rispetto alla contraddizione posta, si trova in una posizione di privilegio – pensa di poter prendere la parola su di un tema che non vive sulla sua pelle. Una possibile via d’uscita è assumere una prospettiva suppostamente scientifica, ma ciò non è qui possibile visto che, in questo caso, ci troviamo di fronte a un testo radicalmente politico. Una ragione che invece giustifica la mia scelta di recensire questo lavoro è che le autrici assumono apertamente una posizione anti-separatista e, anzi, pensano a una necessaria articolazione fra le varie lotte contro ogni forma di dominio e di sfruttamento prodotta dal sistema capitalista globale. In questo senso la prospettiva dalla quale posso accostarmi al testo, che però non viene menzionata, è quella di una generazione (la mia) a cui è stata negata la possibilità di immaginare una vita degna per il proprio futuro. Il volume di cui stiamo parlando è Femminismo per il 99%. Un manifesto, (ROMA-BARI: LATERZA, 2019) scritto dalle accademiche e militanti femministe degli Stati Uniti Cinzia Arruzza, Tithi Bhattachraya e Nancy Fraser, e recentemente pubblicato in Italia da Laterza, ma uscito contemporaneamente anche in altre lingue, tra cui ovviamente l’inglese e poi il francese, lo spagnolo, il portoghese e altre ancora.

Il punto di partenza di questo lavoro è la partecipazione attiva delle autrici all’organizzazione dello sciopero delle donne del 2017 negli Stati Uniti, prendendo parte a un movimento femminista internazionale che sta reinventando l’idea di sciopero, rendendo visibile, attraverso la sospensione di ogni attività produttiva e di cura, l’importanza del lavoro femminile all’interno delle società. Questo permette di ampliare il discorso al di fuori delle rivendicazioni legate al lavoro salariato, per includere la lotta per il riconoscimento del lavoro riproduttivo e per il sostegno a questo. Il che però, ci dicono le autrici, implica la fuoriuscita dal modello di sviluppo capitalistico, che sullo sfruttamento di questo lavoro silenzioso fonda la propria possibilità di sopravvivenza. L’anti-capitalismo è, in questo senso, il centro di articolazione di tutte le lotte a cui le autrici fanno riferimento, perché è lì che nascono tutte le contraddizioni che producono diseguaglianza, forme di dominio ed esclusione. Il che, beninteso, non significa ridurre le diverse rivendicazioni alla contraddizione di classe, ma al contrario connetterle tutte – mantenendo vive le differenze fra tutti i soggetti, con necessità specifiche – in un’unità “dal basso”, cosciente però che le «le varie forme di oppressione che patiamo non costituiscono una pluralità incerta e contingente», e che, «per quanto ognuna abbia le sue forme e caratteristiche distintive, sono tutte radicate in un particolare sistema sociale, che lo sostiene» (p. 59), il capitalismo. Quello proposto da Arruzza, Bhattacharya e Fraser è un femminismo che, nel suo andare oltre la contrapposizione fra «“politica dell’identità” e “politica della classe”» (p. 59), coniuga universalità e particolarità, cioè pensa l’universalità in senso non omogeneo. Questa unità fa sì che il manifesto proposto non sia in senso stretto un manifesto femminista ma molto di più, come si capisce dal titolo paradossale, facendo riferimento ad un 99% che non è solo il 99% del genere femminile ma include tutta quell’ampia maggioranza sociale (fatta di uomini, donne e soggetti che non si riconoscono nel binarismo di genere) a cui si appellava il movimento Occupy che, nell’immaginario di tutti i movimenti anti-sistema nati dopo la crisi del 2008, ha coniato quest’idea di contrapposizione fra popolo ed élite economico-politiche. In questo senso, nel suo connettersi con tutte le altre lotte degli oppressi contro gli oppressori, il femminismo per il 99% assume una carica universalista che travalica le rivendicazioni di genere raccogliendo l’eredità del movimento operaio e del Manifesto di Marx ed Engels, a cui le autrici fanno apertamente riferimento. Abbiamo detto però anche diversità, e infatti questo femminismo apertamente anti-capitalista dovrà anche essere articolato e coordinato con tutte le rivendicazioni specifiche contro le varie contraddizioni che il sistema produce. In questo senso, un ampio spazio nel libro è dedicato a pensare questa connessione – nell’opposizione al comune nemico, il capitalismo – fra il femminismo e l’anti-razzismo, la liberazione sessuale, i movimenti LGBTQ+, l’ecologia, l’anti-imperialismo, il pacifismo e la democrazia politica. L’operazione di articolazione di tutte queste domande emergenti dalle società del capitalismo in crisi è diretta specificamente contro due alternative oggi egemoniche nel discorso mainstream, rappresentate simbolicamente dalla contrapposizione, nelle elezioni statunitensi del 2016, fra Hillary Clinton e Donald Trump, cioè fra quello che Nancy Fraser ha più volte definito altrove il “neoliberismo progressista” (https://www.senso-comune.it/rivista/oltreconfine/dal-neoliberismo-progressista-trump-oltre) e il “populismo reazionario”. Scrivono le autrici: «la trappola più pericolosa per le femministe sta nel credere che le attuali opzioni politiche si limitino a due: da un lato, una variante “progressista” del neoliberismo, che diffonde una versione del femminismo elitaria e aziendale per stendere una patina emancipatrice su un programma oligarchico e predatorio; dall’altro lato, una variante reazionaria del neoliberismo, che spinge un programma capitalista simile con altri mezzi, utilizzando luoghi comuni misogini e razzisti per brunire le proprie credenziali “populiste”» (p. 63). L’operazione egemonica che il femminismo per il 99% si propone è di disarticolare le connessioni istituite fra politiche dell’identità e sistema capitalistico, come avviene nel femminismo liberale, e allo stesso tempo di riconnettere queste rivendicazioni di riconoscimento con le domande di protezione sociale, strappandole alla significazione anti-femminista e xenofoba che il populismo reazionario ha saputo imprimergli. È infatti il femminismo liberale il grande nemico della proposta di questo Manifesto, quasi più delle stesse tendenze neo-tradizionaliste che interpretano come una reazione fisiologica – anche se ovviamente da combattere – al neoliberismo progressista, con l’idea cioè che l’emancipazione del genere femminile passi dall’occupare posti di rilievo nella gerarchia dell’oppressione anziché dal contestare alla radice il sistema che produce tutte le forme di sfruttamento (quello elle donne come quello della working class maschile e bianca che ha votato Trump o Salvini).

Prendendo nettamente le distanze da entrambi i poli di questa falsa alternativa, Arruzza, Bhattacharya e Fraser introducono una proposta politica che potrebbe segnare un passaggio d’epoca nelle lotte femministe, ma più in generale anti-capitaliste, verso una nuova idea (anche se ben radicata in una lunga tradizione, a cui le autrici fanno riferimento) di lotta ed emancipazione. Arrivati a questo punto, però, ci sembra manchi qualcosa: una mancanza che riteniamo perfettamente giustificata per le finalità del Manifesto ma che non lo sarebbe qualora venisse pensato come autosufficiente. Se, infatti, l’obbiettivo estremamente ambizioso che si pone consiste nel superamento di un sistema economico-sociale, allora sorge la necessità di una teoria della trasformazione (riformista o rivoluzionaria) verso un ordinamento post-capitalista dell’economia globale e delle istituzioni politiche. Questo aspetto non lo troviamo, e del resto la prospettiva globale e il riferimento alla modalità di lotta dello sciopero non permettono di pensare una strategia di appropriazione/trasformazione del potere politico, che necessariamente – salvo cadere in utopie basate su soggetti globali insistenti – deve avere una definizione nazionale. L’articolazione di queste domande non potrà che essere politica e dovrà dotarsi quindi di una strategia per contendere l’egemonia politica e culturale al neoliberismo (progressista o reazionario che sia) diversa in ogni contesto, anche se – per quanto riguarda realtà simili fra loro – potrà avere caratteristiche comuni. In questo può venirci in aiuto (seppur con tutta una serie di limiti che non è questa la sede opportuna per esaminare) un altro libro recentemente pubblicato nella stessa collana della casa editrice Laterza, Per un populismo di sinistra della politologa belga Chantal Mouffe – e ci chiediamo se le autrici del Manifesto siano d’accordo. Se il problema è contendere l’egemonia a proposte politiche che articolano domande sociali in senso regressivo, allora la teoria del populismo di Laclau, a cui la stessa Mouffe si rifà, permette di pensare questa riarticolazione intorno a un significante che le rappresenti. Potremmo pensare quindi, come del resto ha ipotizzato la stessa Nancy Fraser in un’intervista, un populismo femminista e anti-capitalista, che coniughi forme di lotta sociali come lo sciopero femminista a tentativi politici di appropriazione/trasformazione del potere istituzionale (https://www.senso-comune.it/rivista/oltreconfine/non-ce-emancipazione-senza-populismo).

 

Recensione di

Alessandro Volpi


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