Giovanni Zoda, Maschera
cm 30×90 (trittico), olio e silicone su tela, 2004
Mettere in relazione di continuità il cinema di Carmelo Bene, autore notoriamente conosciuto per essere tormentato da una vera e propria furia iconoclasta, e quel vasto ed eterogeneo bacino di studi attorno all’immagine che si coagula nel filone dei visual studies (Cfr. Pictorial turn: saggi di cultura visuale; La svolta iconica. Per una ricognizione sistematica della sconfinata bibliografia dei Visual Studies in ambito italiano rinviamo a Cultura visuale) può a primo acchito sembrare una forzatura. Parlare del cinema di Carmelo Bene, infatti, significa necessariamente parlare del massacro programmatico portato avanti dal regista ai danni dell’immagine filmica, che demolisce ed eccede dissipando le splendide sequenze nel montaggio fratto e iperaccelareto, nel gonfiaggio della pellicola, nella saturazione estrema dei colori e in altri mille espedienti tesi a conseguire quello che l’“enfant terrible” ha dichiarato essere lo scopo del suo cinema: la cecità dell’immagine.
Afferma invero il Nostro in una conversazione con Thierry Lounas: «Cinema: regno dell’immagine. Provai a eccedere l’immagine, che detesto, massacrandola attraverso il montaggio» (Thierry, 2011: 177). Come non ricordare, allora, l’accanimento sul supporto fisico della pellicola in Nostra Signora dei Turchi (1968), testo filmico che impiega procedimenti apparentabili alle più audaci sperimentazioni di avanguardia, tanto da essere stato «salutato dai Cahiers du Cinéma come la sola risposta europea all’Underground e al New Cinema Americano» (Bene, Dotto, 2005: 263). Una simile lettura è perorata anche in nome di quel corpo a corpo che nel film avviene tra il regista e la membrana fotosensibile, bruciata con sigarette, stropicciata sotto le scarpe e squarciata con coltelli. Si tratta di una ferocia autoriale volta a risolvere magnificamente certe scene di Nostra Signora dei Turchi e dar vita a una sinfonia visiva percorsa da vibrazioni del colore, con stupefacenti cromatismi assimilabili a quelli di Mothlight (1963) o The Art of Vision (1965) di Stan Brakhage. Già a partire dall’esito estetizzante di questa danza lirica del colore, dunque, Bene sembra tradire l’odio irriducibile che nutre nei confronti dell’immagine: «La mia è una congenita allergia all’immagine, quasi sempre volgare, dalla Storia dell’arte visiva al cinema» (Bene, 2008).
Malgrado tali affermazioni, infatti, il cinema di Carmelo Bene è un cinema “dalla parte dell’occhio”. Nel nostro breve saggio cercheremo di scandagliare proprio la dimensione specificatamente visuale della filmografia beniana (per uno studio più approfondito sulla dimensione visuale del cinema di Carmelo Bene rinviamo a Il ritornello crudele dell’immagine. Critica e poetica del cinema di Carmelo Bene), mettendo in rilievo come, seppur in assenza di un aprioristico intento classificatorio, Carmelo Bene tematizzi il rapporto tra cinema e arti visive, assumendolo nella variegata gamma di interferenze semiologiche. I testi filmici del regista, difatti, ripercorrono trasversalmente le teche della storia dell’arte attraverso un uso ipersaturo di citazioni pittoriche. Per sviscerare compiutamente simili ancoraggi figurativi è qui necessario estendere l’accezione di pittura al mondo delle immagini tout court, cioè intendere la «pittura come oggetto o come modello del sistema di rappresentazione filmica» (Costa, 2002: 295), comprendendo anche quei casi in cui essa viene implicitamente evocata dallo sguardo della m.d.p., che si posa sulla superficie e determina l’affezione visuale dell’inquadratura e il suo raddoppiamento in una dimensione “meta”, sicché il modello pittorico si insinua nella continuità filmica producendo quello che Antonio Costa definisce “effetto dipinto”, inteso sia nell’accezione di “effetto pitturato” sia di “effetto quadro”(Costa, 2002: 305-306).
L’effetto pitturato è un’inquadratura di secondo grado, re-cadrages diegetico, per dirla con Metz (1995), che diviene marca di enunciazione autoriale, sintomo di un’esigenza di controllo cromatico assoluto intenzionalmente ricercato ed esibito come artificio dal regista. Pregnanti in tal senso sono, per esempio, le meteriche campiture-colore generate in Nostra Signora dei Turchi dalle torsioni della macchina da presa, che viaggia dentro le pieghe architettoniche del Palazzo Moresco e ne scopre i rigonfiamenti, le cupole, le volute, sfumandole e dissolvendole in evanescenti pennellate fluttuanti che testimoniano l’adozione da parte di Carmelo Bene del modello pittorico dell’Informale e dell’Espressionismo Astratto. La seconda accezione dell’effetto dipinto, ossia l’effetto quadro, è riferita a un’inquadratura che evoca in maniera esplicita la pittura, sia perché la cita testualmente sia perché ne riproduce determinati effetti luministici, cromatici o di organizzazione spaziale o, ancora, perché si iscrive nella logica compositiva o iconografica di un preciso genere; in tal senso ricordiamo, sempre in Nostra Signora dei Turchi, la messa in cornice del tableau vivant diun particolare mutuato da Vergine delle rocce (1486) di Leonardo.
Pure Capricci (1969), il secondo lungometraggio di Carmelo Bene, è intriso di citazionismo pittorico. Già dalla prima scena del film campeggiano riproduzioni di note opere di Schifano, Morandi, De Chirico, Cimabue e oltre, poste a ornamento nel laboratorio del pittore Clarke, il quale ha la peculiarità di dipingere con colori avvelenati tele in grado di uccidere per mezzo del solo sguardo coloro che volgono gli occhi a rimirarle. Clarke è lo stesso personaggio che di lì a breve ingaggerà una bizzarra lotta con Bene fronteggiata a colpi di falce e martello, più precisamente una lotta in cui gli oggetti reali sono branditi contro i quadri che li riproducono; sequenza tesa a ribadire la diffidenza necessaria da riservare verso l’immagine pittorica e il suo potere di imbalsamazione della realtà viva (Cappabianca, 1969: 407). Illuminante in merito è l’esegesi di Maurizio Grande:
«Il pittore e il poeta lottano, distruggendo i quadri e armandosi di una falce-e-martello veri. Il senso di questa lotta condotta contro la falsità di un mondo della duplicazione, della ripetizione illusoria, dell’inganno illusionistico (arte borghese) è documentato dalla presenza di molti piccoli quadri sparsi raffiguranti tante falce-e-martello». (Grande 1973: 97)
Bene dà pertanto voce allo iato abissale tra realtà e rappresentazione mettendo in immagine-movimentoil collasso dell’Arte con la “A” maiuscola, la quale è sempre falsa, sia che la si voglia riprodurre sia che si voglia ergere a simbolo di un’ideologia. La denuncia della falsità dell’arte è un leitmotiv di Capricci, chiaramente ravvisabile anche nella scena in cui il pittore, anziché imitare bene la “bella natura”(Batteaux, 1990), dipinge oggetti veri prendendo a modello quelli dipinti, sicché passa il pennello intriso di colore su dei pesci, su una bottiglia, su una mela. Ne deriva che è la realtà a copiare l’arte e non viceversa. In questa parodia della “creazione delle immagini”, pregna di frustrazione per l’ontologica inattuabilità di una genesi artistica autentica, risuona l’eco della condanna platonica dell’arte come volgare mimesis del mondo ideale, sua mendace copia di copia impossibilitata a priori a coglierne l’essenza (cfr. Platone, 1983).
Nonostante ciò, Carmelo Bene sembra non poter fare a meno nel suo cinema dell’arte, che seguita a saccheggiare di continuo. Così, i tre grotteschi sicari messicani di Capricci richiamano velatamente le maschere tragicomiche di James Ensor e la protagonista femminile (Ornella Ferrari) è sovente inquadrata nell’iconografia di Susanna tra i vecchioni o distesa come la Maja desnuda (1800) di Goya, autore che ritorna pure nella citazione dell’incisione Tántalo, appartenente alla serie Los Caprichos (1799). E ancora, nella scena finale si coglie la citazione de la La caccia notturna (1470) di Paolo Uccello. Ritroveremo quest’ultimo artista anche nel finale di Un Amleto di meno (1972), in cui distinguiamo chiaramente la ripresa dello schema iconico de la Battaglia di San Romano (1440). Tra i rinvii figurativi di Un Amleto di meno, inoltre, ricordiamo i costumi dei commedianti ispirati al Balletto triadico (1922)di Oskar Schlemmer e, ancora, l’Ophelia (1852) di Millais, la cui riproduzione sciaborda nell’acqua in luogo del corpo di Ofelia, impersonata da Isabella Russo.Il film Salomè (1972), invece, è contrassegnato da un gusto Pop, ravvisabile in particolare nel leitmotiv fumettistico del cammello animato che passa attraverso la cruna dell’ago e nella citazione del Cenacolo (1498) vinciano, che con le sue fluorescenti distonie cromatiche sembra anticipare le riproduzioni delle serigrafie del Cenacolo (1986) di Warhol.
È però nel Don Giovanni (1970) che Carmelo Bene esaspera la funzione metalinguistica della pittura diegeticizzata. Il film è innanzi tutto stilisticamente marcato da un tenebrismo caravaggesco, che risalta nei forti contrasti chiaroscurali assunti in funzione drammatica, ed è altresì rembrandtiano, nella misura in cui da uno sfondo nero emerge soltanto ciò che è designato dalla luce. Ma, al di là della connessione con il caravaggismo, il testo filmico pullula di citazioni pittoriche, come i numerosi tableaux vivants che riproducono particolari de La Primavera (1482) di Botticelli, della Venere allo specchio (1648) di Velàszquez, della Lezione di musica (1662) di Vermeer o de La bagnante di Valpinçon (1808) di Ingres. In quest’ultimo caso il regista ricorre all’effetto quadro al fine di imitare la staticità e la sospensione temporale della pittura enfatizzando la dimensione spaziale attraverso il fermo immagine, che eterna la durata alla stregua di un calco iconico.
Tuttavia l’esito estetizzante di “messa in cornice” non è affatto lo scopo del cinema di Carmelo Bene che, al contrario, si prefigge come finalità l’accecamento dell’immagine, per cui non esita a sfregiare in maniera parodica il tableau vivant attraverso giunte visibili alla Stan Brakhage. È doveroso però sottolineare che, sebbene sia deturpato dalle giunte di montaggio, il tableau vivant de La bagnante di Valpinson è uno dei rarissimi casi in cui Bene si sofferma sul quadro. Solitamente, difatti, l’affastellamento citazionionistico di cui è intriso il cinema beniano si disperde nell’oblio del discorso della dépence – nel cinema di Carmelo Bene il dispendio segnico è gratuito e fulminante, mero spreco, consumato all’insegna della nozione batailliana di dépence. Afferma Bene in una conversazione con Maurizio Grande: «Tutti gli altri vengono da Bataille. Senza Bataille non avremmo avuto la grande revisione nicciana, poi Klossowski e tutti gli altri su Nietzsche. Anche se il mio amico Deleuze odia Bataille» (Grande, 2011: 154-155; Vedi anche La parte maledetta, preceduto da La nozione di dépence) – sicché i rimandi figurativi alle storia dell’arte bruciano invano, divorati da un montaggio iper-accelerato che causa il collasso dell’opera consacrata, la quale, anziché essere per lo spettatore un familiare e codificato riferimento culturale, deflagra nel perturbante. Il regista, invero, non mette mai in immagine tableaux vivants che corrispondano interamente al dipinto di riferimento: manca sempre la visione di insieme, sicché la tradizione pittorica è restituita solo a pezzi, falcidiata e riconsegnata per sineddoche è deducibile solo a tratti (Boioli, 2011).
[Estratto del saggio: G. Raciti, “Aprire i corpi come affezione visuale del cinema di Carmelo Bene”, in A. Rabbito (a cura di), La cultura visuale del XXI secolo. Cinema, teatro e new media, Meltemi, Milano 2018]
Bibliografia:
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Cappabianca A. Capricci, «Filmcritica» n. 202, novembre-dicembre 1969.
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Mitchell W.J.T., Pictorial turn: saggi di cultura visuale, a cura di M. Cometa, Duepunti, Palermo 2008.
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Raciti G., Il ritornello crudele dell’immagine. Critica e poetica del cinema di Carmelo Bene, Mimesis, Milano 2018.
Batteaux C., Le Belle Arti ricondotte ad unico principio, a cura di E. Migliorini, Aesthetica, Palermo 1990.
Platone, Repubblica, a cura di F. Sartori, Laterza, Bari 1983.
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Boioli P., Carmelo Bene. Il cinema della dépence, Edizioni Falsopiano, Alessandria 2011.