Questo breve saggio nasce dall’esigenza di sviluppare una prospettiva interpretativa sulla scrittura musicale: un tema, quest’ultimo, che sarà analizzato secondo alcune coordinate spazio-temporali ricondotte a loro volta a osservazioni di carattere filosofico e artistico. L’argomentazione qui esposta qui in forma sintetica vorrà poter essere sviluppata in una forma di più ampio respiro con la stesura di un prossimo libro. È bene precisare che questo scritto nasce dalle mani di un musicista, per cui l’approccio alla scrittura è volto a rappresentare un’esperienza attiva nel campo di questa disciplina. Punto di partenza è la pratica del fare musica e dell’insegnarla, e l’approccio qui adottato è pertanto fondamentalmente dettato dall’esperienza e intende procedere immergendo subito il lettore in medias res in un universo fatto di suono e immagine.
Si immagini dunque una farfalla. Sinfonia di colori, leggero e silenzioso emblema della Natura che si rinnova, del nascere e morire ciclico di tutte le cose. Metafora della metamorfosi cara a Hegel. Il suo pensiero interpreta l’esistenza come processo dialettico secondo un principio di circolarità, con l’evolversi continuo di un’affermazione o posizione iniziale (tesi: il bruco) in negazione della stessa (antitesi: la crisalide) e infine superamento dialettico e nuova affermazione/conciliazione (sintesi: la farfalla). Un volo di farfalle stilizzate e astratte traduce in immagini le note della Quinta Sinfonia di Beethoven in Fantasia 2000, seguito del celebre capolavoro di Walt Disney. Da bambini ci piace immaginare che quelle ali leggere siano cosparse di una polvere magica. Di certo una specie di magia (per dirla con le parole del grande regista) avviene quando la musica sa ispirare tante immagini.
Trasformare la musica in un’immagine è conferire spazio visivo al suono. Questo non solo nei termini del singolo suono, ma anzi della musica nel suo insieme, e cioè nella misura in cui il succedersi degli eventi sonori si realizza in una forma sintetica unica, che trova ragion d’essere nel tempo che intercorre tra il suo inizio e la fine. Musica che prende forma attraverso un moto di continua trasformazione (un processo antitetico e sintetico, nella visione hegeliana) che alterna essere e non-essere, inizio e fine, e poi ancora nuovo inizio, nei termini temporali della sua durata.
La traduzione del suono in immagini, diciamo così l’arte di disegnare la musica, ha radici profonde nella sfera emotiva. Essa ha il potere di ampliare i confini dell’immaginazione, amplificando la nostra idea affettiva di musica. La naturale corrispondenza tra sentimento ed espressione musicale è un tema comunemente diffuso, patrimonio collettivo di chi ama, ascolta e fa musica. È il criterio di valutazione del gusto soggettivo nei confronti dell’estetica musicale, che porta ognuno di noi a esprimere delle possibili preferenze per genere, stile, strumento e così via. Riprendendo il pensiero di Platone dal mito di Eros, l’amore-piacere è il primo stimolo che ci spinge verso la conoscenza e la comprensione, ed è nel Rinascimento che si teorizza una stretta interdipendenza tra emozione e suono organizzato, che si sviluppa poi nella cosiddetta teoria degli affetti in epoca barocca. L’idea affettiva della musica si riferisce in particolare alla sua forma definitiva e sintetica, valutando quindi lo sviluppo degli eventi sonori secondo la variabile temporale. Il tempo è il collante della musica, il modo proprio che essa ha di manifestarsi (come del resto qualsiasi realtà viva, nella circolarità dell’esistenza). Una musica è fatta di ritmo, nota, pausa, melodia, armonia, timbro…ma è al contempo molto più che questo. Il risultato finale ha un valore più esteso rispetto a quello delle singole parti. Per dirla con la terminologia della Gestalt, che è alla base di gran parte della moderna psicologia musicale, il tutto è più della somma delle parti.
Il tutto, cioè (volendo riprendere nuovamente la terminologia e concettualità poc’anzi evocata e volendo collegarla a quella di matrice gestaltica appena introdotta) la sintesi hegeliana nel processo musicale creativo, è determinato dalla ricostruzione psichica che il cervello sviluppa come conseguenza di un insieme di vibrazioni, e che avviene nel tempo. Un corpo elastico che vibra di moto armonico emette tutta una serie di frequenze, fondamentali e armoniche, tradotte poi dal cervello in un’immagine sonora. Si tratta di una rappresentazione che sta a valle del processo fisico di produzione e propagazione dell’onda di vibrazione, onda che si trasforma definitivamente in un suono dalle caratteristiche proprie nella nostra mente. Ognuno percepisce come tale il timbro di un pianoforte piuttosto che il canto di un usignolo, perché è questo il modo specifico in cui lo rappresentiamo. La musica è quindi una vibrazione del corpo che diventa rappresentazione intellettuale, e come immagine interiore essa ha, in particolare, una propria struttura emotiva.
Nella sua visione antroposofica, Rudolf Steiner riconosce nelle creazioni dell’uomo un’impronta del mondo spirituale. Sostiene che l’agire dell’uomo, anche attraverso le arti e la musica, è la realizzazione sul piano fisico di una realtà sottile che dimora nell’anima, nell’Io più profondo, facendo propria l’antica massima di Ermete Trismegisto: “Fai che ciò che è in alto diventi come ciò che è in basso, e poi che ciò che è in basso ritorni a ciò che è in alto, creando in questo modo il miracolo di una cosa sola”. La musica, in una tale prospettiva, è un mezzo di conoscenza per dialogare con la nostra spiritualità. Il suono dell’anima.
Ancora, per Shopenhauer la musica ha un posto tutto speciale tra le arti, perché è l’unica a essere espressione diretta della volontà, una sorta di emanazione della forza originaria che sta alla base della vera realtà, quella a cui la coscienza rappresentativa dell’uomo non può accedere. La forma sonora sa penetrare le profondità del nostro intimo, è una lingua archetipale che, esprimendo il concetto in termini non necessariamente “filologicamente” schopenhaueriani, parla direttamente all’anima. (Nella lettura di questo scritto è curioso far notare ora che l’anima in passato era anche chiamata ‘angelica farfalla’, secondo un’accezione ora in disuso).
Disegnare la musica è un atto che nutre la nostra modalità affettiva di viverla. Essendo un’arte che parla a e con la nostra sfera emotiva, essa sa liberare in noi molte immagini, in una sorta di flusso di idee. Potremmo dire che la materialità (aspetto particolare e microscopico) delle parti che costituiscono un discorso musicale si traduce nella spiritualità del tutto (aspetto universale e macroscopico), insieme organico e vibrante dove nasce un dialogo tra le parti, e si amplifica la capacità di entrare in empatia con la nostra interiorità. La musica è un tramite tra materia e spirito, e tra spirito e materia essa crea un ponte. È prodotta da moto vibrante sul piano fisico, e sempre sul piano fisico mette in vibrazione il nostro corpo. Poi si esprime nel suo insieme come una realtà interiore impalpabile, assolutamente reale ma immateriale. Esiste come una realtà eterica simile a quella del pensiero, dell’idea e del sogno.
Creando e ascoltando musica, il tempo si fa significato, caricandosi di un senso soggettivo che dimora in uno spazio astratto, un luogo-immagine che ognuno costudisce nella parte più profonda del proprio Io. Esiste un processo che si attua grazie alla musica, che permette di fare del tempo uno spazio spirituale. Lo scorrere del tempo, riempito dall’ascolto o dall’azione musicale, serve a sublimare il suono fisico in rappresentazione di uno spazio sonoro, un luogo fatto di sensazioni e immagini. Riprendendo l’interpretazione dell’essenza della musica sviluppata da Steiner, secondo la quale essa esiste nel sogno prima di tradursi sul piano fisico, si può intendere questo spazio sonoro come una sorta di realtà onirica, in cui i suoni acquistano un significato che ormai prescinde dalla realtà materiale (anche se qui trova necessariamente origine), all’interno di una dimensione del nostro Io spirituale che vive nei corpi sottili.
La musica è un’arte che sublima la realtà fisica per ricollegarla a quella spirituale, un’alchimia di eventi sonori dei quali godiamo nel nostro spazio-immagine, una sorta di luogo-non luogo che segue le leggi naturali del mondo interiore. Il nostro corpo è lo strumento di dialogo tra, diciamo così, i due mondi. Attraverso il corpo (fisico) noi percepiamo il suono, che si trasforma in rappresentazione psichica ed emotiva (spirito). Nell’interpretazione che vorrei proporre qui al lettore, è questo processo a rendere possibile la trasformazione della dimensione temporale esterna del mondo fisico in dimensione spaziale interna del mondo spirituale. Spazio e tempo sono due variabili interconnesse in particolare nella nostra rappresentazione soggettiva della musica: ascoltando il suono artisticamente formato che si snoda attraverso il tempo, noi dipingiamo man mano il nostro paesaggio sonoro, come rappresentazione interiore, luogo delle emozioni, dimensione non tangibile del vivere la musica.
Tutto il corpo umano è impegnato in questo processo, il quale origina dai corpi e dal moto: l’esperienza musicale è un’esperienza totale, perché mette in vibrazione e in risonanza il nostro essere nel suo complesso. Il suono è percepito dalla pelle e dall’orecchio. L’udito serve a individuare la fonte da cui proviene un suono, offrendo un’idea direzionale, e cioè spaziale, degli eventi attorno a noi (e segnalando i pericoli). Si tratta di una percezione involontaria, a differenza degli altri sensi (non si può volontariamente smettere di sentire). Lo stesso dicasi per la percezione a tutto tondo, cioè quella che avviene attraverso la pelle, organo che racchiude tutta la forma del corpo (percezione questa di primaria importanza nel caso di sordità). L’orecchio però è anche la sede dell’equilibrio, che ci permette di stare al mondo e di stare in movimento nello spazio. Anche l’equilibrio è sempre presente nella nostra esistenza (ci accorgiamo subito se viene a mancare). La sede dell’udito che usiamo per ascoltare la musica è quindi l’organo preposto anche al senso dello spazio. Anche dal punto di vista fisiologico siamo in grado di individuare così una possibile dipendenza naturale tra la dimensione sonoro-temporale e quella percettivo-spaziale. Si permetta qui di forzare questa idea rimarcando che certi atteggiamenti del corpo sono usati come tratto stilistico da alcuni artisti quasi a dimostrare lo stretto legame tra suono ed equilibrio. Si pensi alla circumambulazione di Thelonious Monk, al flauto suonato stando su una gamba sola di Ian Anderson, oppure alla roteazione, culturalmente strutturata, nella danza Sufi.
Se nella nostra interiorità la musica si trasforma in immagini mentali, siamo in grado sul piano fisico di restituirle attraverso il disegno. La rappresentazione soggettiva del suono si può quindi tradurre in un segno oggettivo, un di-segno, oppure in un complesso sistema di segni come la scrittura. Ciò che arriva dall’esterno come evento vibratorio si imprime sul tessuto psichico e può ritornare all’esterno, di nuovo secondo un processo circolare di trasformazione. Il segno è una realtà di tipo spaziale. Così come la musica trasforma il tempo in uno spazio simbolico, così la notazione rappresenta con il simbolo scritto nello spazio ciò che avviene nel tempo. Serve a dare una dimensione spaziale agli eventi sonori che noi distinguiamo secondo la dimensione temporale. Da un certo punto di vista, se la musica è uno spazio simbolico che si crea nella soggettività, così lo spartito musicale è lo spazio simbolico della musica nel momento in cui essa si traduce in forma scritta.
In quanto forma di linguaggio, seppure con caratteristiche peculiari ed esclusive, anche la musica ha prodotto una semiologia propria, sviluppando diverse forme di scrittura. Nella notazione musicale tutto è spazializzato, perché si tratta fondamentalmente di un disegno. La musica è un’azione nel tempo, e crea uno spazio (immateriale) intimo in cui la vivo. Conviene qui definire una distinzione tra chi produce la musica e chi la ascolta. Il musicista svolge l’atto musicale come azione nel tempo e anche nello spazio (rapporto con lo strumento, gestualità, emissione vocale, tutto ciò che di corporeo e strumentale si impiega per produrre il suono). Lo spazio musicale dell’ascoltatore è invece quello della percezione (il teatro, la sala prove, le cuffie, ecc.) e poi lo spazio-immagine della rappresentazione. È chiaro che questa distinzione è solo formale e dunque in una certa misura solo apparente, o per così dire convenzionale, perché i due soggetti possono coincidere, e le due situazioni descritte possono compenetrarsi a vicenda. Assistere ad un concerto non fa del pubblico l’esecutore, ma lo spazio e l’azione sono condivise da entrambi. A livello empatico, in quello spazio può esistere un alto grado di compartecipazione. La musica come azione nel tempo e nello spazio trova una sua nuova immagine spaziale nella scrittura.
I sistemi di notazione sono diversi e vari. Non è utile allo scopo di questo saggio distinguere tra sistemi convenzionali e non-convenzionali (e poi, rispetto a che cosa?), né rivelarne le differenze, mentre sarà utile considerarne la varietà nel suo insieme, riportando alcuni esempi. Le scritture musicali sono fatte di codici simbolici, in cui i segni rimandano ad azioni e/o ad intenzioni che determinano la produzione sonora. L’esperienza diretta di chi scrive insegna che, ad esempio, i bambini si divertono a disegnare una piramide o una scala (con i gradini) per indicare una progressione di note ascendente o discendente, indipendentemente dallo strumento. Si tratta qui di disegnare un concetto, di portare a raffigurazione l’idea di moto ascendente o discendente di una scala, che si esaurisce con un tempo, e che ognuno poi saprà adattare e riprodurre liberamente allo strumento (nel caso di una scrittura strumentale) e, in maniera aleatoria o variamente ragionata, al contesto (nel caso di una scrittura a-strumentale).
Al segno può certo seguire un insieme di regole codificate per definire come i singoli segni vadano interpretati e messi in correlazione (spazio-temporale) tra di loro. La nostra notazione tradizionale (di antica origine europea e ormai accettata a livello internazionale) posiziona sulle righe del pentagramma le figure (note) sulle righe o negli spazi tra esse. Si tratta di un sistema quasi geometrico che si può assimilare a un grafico cartesiano, prendendo in prestito il linguaggio della matematica. La correlazione spaziale è verticale, riguarda l’armonia e la polifonia o poliritmia; la correlazione temporale è il ritmo, la disposizione orizzontale degli eventi nel tempo. Lo spazio dello strumento e dei suoni (comprese le pause) è sull’asse y, la cui interpretazione è determinata dalla chiave (di Sol, di Fa, di Do, o chiave ritmica) che dà effettivamente la chiave di lettura delle altezze, e lo scorrere del tempo è sull’asse x, da sinistra a destra. Uno spartito così scritto può sintetizzarsi, a livello grafico s’intende, come una funzione matematica (o meglio una complessa sommatoria di funzioni) che rappresenta gli andamenti melodico-armonici nel tempo, su un piano a due dimensioni.
L’applicazione di termini di paragone matematici non deve stupire poiché la quantizzazione ritmico-temporale della musica si esemplifica usualmente secondo questo tipo di linguaggio. Si tratta del binomio musica-matematica sempre vivo fin dall’antichità. Nella nostra cultura occidentale la geometria, in particolare, governa questo tipo di scrittura (e sta inoltre alla base dei temperamenti per quanto riguarda i sistemi di intonazione). In più, non è un caso che l’aspetto acustico della musica sia oggetto di studio della fisica, in particolare della meccanica e del moto armonico.
Ancora però si escludono elementi fondanti, se non strutturali, della musica. Essi sono l’agogica, la dinamica, i suggerimenti sull’interpretazione espressiva. Nella notazione classica tutti questi elementi sono presenti sotto forma di segni o indicazioni testuali. Il risultato è un ricco sistema di simboli che permette, diciamo così, una riproduzione il più possibile dettagliata.
Di certo non si tratta dell’unico sistema possibile. Molti altri sistemi hanno strutture diverse perché diverse sono le condizioni artistiche e culturali in cui si sviluppano e gli obiettivi che si pongono. Si pensi agli innumerevoli sistemi che, per riprendere il primo esempio qui esposto, ogni bambino potrebbe inventare. Oppure si pensi ai codici simbolici creati da Anthony Braxton, come anche a quegli ‘spartiti’ contemporanei espressi in forma di fumetto in stile comix, o magari a una partitura a tre dimensioni.
Gli obiettivi della notazione sono direttamente legati alla forma della musica che si vuole rappresentare. In particolare l’insieme dei sistemi notazionali, anche considerandoli nella storia della musica, si distingue per il grado di libertà che è affidato all’interprete. Usiamo qui il termine libertà per esemplificare quello che nella pratica musicale da un lato si definisce come improvvisazione (un grado di libertà maggiore, cioè relativo alla forma, al materiale sonoro nella complessità della sua organizzazione), e dall’altro come interpretazione (un grado di libertà minore, cioè relativo alla maniera in cui suono), pur nella consapevolezza che la distinzione tra improvvisazione e interpretazione è a sua volta discutibile, cioè aperta alla discussione e passibile di revisione, ma al contempo utile per gli scopi del presente contributo.
Un dato stupefacente della notazione musicale è come essa sia sempre un sistema aperto, capace di rinnovarsi e ampliarsi con nuovi segni rispondenti a nuovi concetti, come pure di liberarsi del superfluo, mantenendo solo gli elementi fondamentali. Un sistema può servire da linea guida per l’interpretazione, su più livelli (melodico, armonico, ritmico, timbrico, ecc…) oppure può definire una forma fissa, cristallizzata, che va suonata così com’è, o semplicemente stimolare il musicista a proporre un gesto, una tecnica, un’idea musicale. Tutto serve a dare una traccia, è un rimando alla memoria, un appunto, più o meno preciso. Qui risiede la validità di tante scritture, e qui sta il bisogno di crearle sempre nuove e diverse. Così come per le altre lingue, anche grammatica, lessico, semantica della musica si trasformano nel tempo. Riprendendo la metafora della farfalla, c’è continuo movimento nella creazione dei mondi-spazi musicali, scritti, ascoltati, o semplicemente immaginati. Spazi in cui, nonostante l’uso della scrittura (se presente), si assiste al continuo dialogo con l’oralità, la quale determinerà forma della musica e di conseguenza forma della scrittura, come avviene per ogni evoluzione linguistica.
Elemento costante è la presenza e l’utilizzo di segni. Possono essere codificati, cioè rimandare a un preciso effetto, condivisi dalla comunità musicale, oppure, al limite opposto, essere dei segni che di volta in volta si ricontestualizzano e re-interpretano diversamente. Se disegno una serie di punti colorati e chiedo di suonarla, forse non tutti gli esecutori coinvolti renderanno la stessa ‘idea’ musicale. Forse molti condivideranno in parte una stessa idea, però se decido che una certa figura è Do e condivido questo codice (se abbastanza ‘forte’ da essere di immediata trasposizione sonora) allora tutti suoneranno Do.
Un sistema aperto è efficace nella fruizione della musica, nella didattica, nella conservazione così come nel creare una solida base per l’improvvisazione (quello che avviene nei lead-sheet della tradizione jazzistica). È essenziale per la memorizzazione e reiterazione, in spazi e tempi anche lontani tra di loro, e nella composizione, che spinge sempre oltre i confini del creato musicale, soprattutto se orchestrale e/o polifonica.
La natura della musica che canto, suono, creo, ascolto, ricordo, immagino, ecc. determina la natura del linguaggio più efficace alla sua rappresentazione. Più la musica è libera (più, cioè, ha bisogno dell’intervento strutturante del musicista) e più essa è funzionale a un sistema aperto di rappresentazione. Un esempio sono le sigle accordali in uno standard di Irving Berlin o della mia canzone preferita di Lucio Dalla, il basso cifrato di una sonata di Benedetto Marcello, il codice della conduction di Butch Morris.
Perché scrivere la musica? Perché rappresentare o, come si diceva prima, raffigurare/spazializzare la musica, l’arte temporale per definizione? Forse la notazione risponde a un ineludibile bisogno umano di soddisfare la curiosità, quella curiosità creativa che cerca di dare risposte, che semplicemente ci gioca e si diverte, a inventare metodi di comunicazione, soprattutto per provare a dire l’indicibile, l’emozione più profonda, i giochi magici della psiche e del sentimento. Disegnare il suono, disegnare l’emozione del suono: non è questa di per se stessa un’idea tanto ambiziosa quanto giocosa? Ci serve a fissare nella memoria, per poi poterla richiamare, per poter lavorare con la polifonia, la poliritmia e l’orchestrazione, per insegnare, per non dimenticare. Anche per non rimandare necessariamente tutto a memoria (questo potrebbe al contrario limitare la libertà di chi fa più fatica), per trovare un appiglio mentre studio o sviluppo un’idea, o se sto registrando una canzone arrangiandola in studio.
Si è introdotto questo saggio parlando (in maniera forse un po’ poetica ma proprio per questo, ci auguriamo, più efficace) di metamorfosi, di incontro tra dimensione spaziale e dimensione temporale della musica che danno vita a una dimensione grafica, a una rappresentazione.
È chiaro (ma ne siamo oggi tutti convinti?) che la musica esiste prima ed indipendentemente dalla sua realizzazione sul piano della scrittura. (Aldilà di ogni interessante osservazione che si potrebbe fare a tal proposito, in particolare per il grande peso assunto dalla scrittura dal Romanticismo europeo in poi – quando si sono andate allontanando le figure del compositore, da una parte, rispetto a quella dell’esecutore, dall’altra – qui si vuol fare riferimento alla musica in genere, come forma d’arte, escludendo ogni rapporto privilegiato con una cultura e/o epoca precisa). La notazione-visualizzazione ha senso di esistere nella misura in cui risponde a certe esigenze, e per questo rimane un sistema aperto, suscettibile di modifiche, proprio per rispettare la sua stessa natura (che non è una natura ‘strutturale’ dell’atto musicale, ma solo ‘funzionale’). Secondo la natura della musica stessa la scrittura trova senso di essere nella misura in cui è funzionale a una certa pratica, se serve a fare esperienza. Un mondo di rappresentazione così vasto e soggettivo si può ridurre a un disegno-segno se questo è un medium per ampliare la comunicazione.
Un esempio di questa comunicazione è l’insegnamento. Le più recenti scoperte e sperimentazioni in campo neurologico stanno mettendo in luce come l’apprendimento umano si attivi principalmente attraverso il sistema motorio. Non a caso anche nella didattica musicale e linguistica si stanno aprendo nuovi scenari (ad esempio per la musica il metodo Bapne basato su danza ritmica e canto, così come il metodo Suzuki, anche se meno recente, basato sull’imitazione) legati a un approccio fondamentalmente fisico-gestuale. Anche imparare a scrivere (lingua o musica) è legato a questa realtà biologica, e in particolare è ormai dimostrato come per sviluppare la lettura sia fondamentale aver iniziato dall’esperienza del gesto che scrive il segno sulla carta, attività che permette la formazione del codice d’interpretazione del segno stesso e del suo suono relativo. Si auspica qui lo sviluppo di un approccio didattico che non prescinda dal fatto che la musica, come ogni attività umana, segue il ritmo della Natura. L’interpretazione qui esposta, legata anche alla scrittura, vuole mettere in luce come la musica, al pari di altre esperienze e forme d’arte, risponda alle leggi naturali che ci vedono immersi, per dirla secondo la teoria einsteiniana, in una dimensione spazio-temporale quadridimensionale in cui tutto, in definitiva, è variabile, e niente è fisso. Questo continuo moto è assimilabile, forse con un eccesso di poeticità, allo scambio perpetuo tra realtà e fantasia che si attua nella lingua musicale. Non a caso la musica è davvero una lingua universale. La notazione stessa è uno strumento che ha origine secondo questo principio di dialogo tra dimensione spaziale e temporale. Forse con un po’ di azzardo, vorrei qui spingermi a dire che scrittura e lettura sono due estremi dello stesso segmento, due direzioni di un possibile viaggio nel tempo fatto con e nella musica. Questa visione dinamica è di grande aiuto in un approccio didattico che segua il ritmo tipico dell’apprendimento di ognuno di noi, e che non usi la scrittura-lettura come punto di partenza, ma come strumento, come uno dei tanti strumenti possibili. Si può insegnare la musica prendendo semplicemente spunto da tanti dei suoi aspetti, poiché essa stessa si fonda sulla varietà. Posso imparare a scriverla, e di conseguenza a leggerla, e poi comporla, memorizzarla, reinventarla, per poi finalmente dimenticare tutto e riprendere daccapo, in un percorso (guidato, educato, o autogestito) di autoapprendimento. L’unico, questo, in grado di dare forma alla propria rappresentazione del mondo musicale, che anche attraverso la scrittura poi si trasformerà e si diffonderà. È bello leggere la musica classica brasiliana ed eseguirla come probabilmente avveniva quando è stata composta, ed è altrettanto bello poter inventare il mio (e solo mio) assolo su un blues di Charlie Parker, o lasciare al caso più caotico lo sviluppo di un brano di Pierre Boulez. Non posso scrivere tutto, né in verità sarebbe sensato scrivere tutto alla stessa maniera.
Un seme di rinnovamento, portato dalla nostra farfalla colorata, è anche racchiuso nell’interpretare il segno della scrittura musicale, che altro non è che uno dei molti, e forse infiniti aspetti non quantificabili della musica, ma che pur sempre riusciamo a rappresentare al nostro interno e all’esterno.