Giovanni Zoda
Tifeo, cm 118×86, grafite su tavola, 2013
Come può un soggetto della società secolare, addestrato a
ignorare l’invisibile, tornare a riconoscerlo?
Roberto Calasso, L’innominabile attuale
Zelig e Sril
Non vi è immagine che racchiuda più profondamente in sé il senso della Shoah, della sua sfida alla ragione e della sua irredimibile invisibilità, della fotografia che ritrae a Birkenau i fratelli Zelig e Sril (Israel) Jacob. Zelig e Sril, rispettivamente nove e undici anni, vennero prelevati nel ghetto di Berehove, oggi in Ucraina, insieme ad altri due fratelli e ai genitori. Arrivati a Birkenau tutti sul medesimo convoglio, i membri della famiglia Jacob non si incontrarono mai più. Giudicati inadatti alla vita del campo, i figli vennero tutti uccisi ad eccezione della sorella diciottenne Lili, la quale, per un caso che procura una emozione di indicibile potere narrativo e simbolico, sopravvisse e ritrovò nel distante campo di Mittelbau-Dora un album contenente all’incirca duecento fotografie scattate da SS ad Auschwitz-Birkenau nella primavera del 1944. Fu in quell’album, oggi noto come Album Auschwitz, o Album Lili Jacob, che la sorella superstite poté rivedere il volto dei suoi cari perduti per sempre.
Zelig e Sril sono appena scesi dal treno che li ha condotti, come bestie, al campo di sterminio. Sono diversi, nel corpo e nella psicologia. Il più grande, Sril, è contratto, le spalle nervose, il braccio teso in una linea spezzata che culmina nella mano quasi chiusa. Guarda fuori campo, col volto preoccupato e impaurito. Non sapremo mai raccordare quel fuori campo allo sguardo di Sril, non potremo mai riempire la «lacuna» del lager, come direbbe Giorgio Agamben (1998: 9). Non vi sarà mai luogo di articolazione per la memoria di Sril, luogo di enunciazione per la sua testimonianza. Altri lo faranno per lui, altri riempiranno l’impossibilità di Sril a raccontare e l’impossibilità nostra a vedere: in luogo della memoria, rimane persistente e perturbante in questa immagine il non-riproducibile del campo di sterminio.
La fotografia scattata ai fratelli Jacob va letta secondo ciò che non si vede: non è pensabile immaginare la tragedia concentrandosi sui due bambini e riempiendola con immagini provenienti dalle molte storie che hanno tentato di descrivere la vita e la morte del campo. Non è pensabile anche perché quella fotografia è un attimo che precede la morte dei fratelli Jakob, che non vivranno il campo; quel che occorre fare – e in fondo il solo atto a noi possibile – è pensare l’invisibile, prenderlo di petto in quanto tale, ponendo la nostra attenzione unicamente sulla «disumanità» che i fratelli fissano e che è per sempre fuori campo, sia essa lungo lo sguardo spaventato di Sril, o lungo quello troppo adulto di Zelig. L’indicibilità di quel che Sril vede corrisponde in maniera perfetta alla sua invisibilità ed è su quella invisibilità che bisogna scommettere, non solo per capire la Shoah, ma per capire il rapporto di interazione e potenza tra noi e lo scandalo della ragione e dell’umano.
Tutt’attorno ai due fratelli, vediamo scene quasi di genere che potremmo calare molto facilmente entro strutture di narrazione e «contenimento» dell’Olocausto, cui ci siamo con il tempo abituati: spunta alle spalle di Sril una bambina, che sembra correre al livello del binario; a sinistra la madre con il piccolo figlio o la piccola figlia in braccio sembra uscita da una fotografia della Depressione americana, non fosse per quella stella così visibile sul petto. Il resto è anonimato, sono cappotti scuri, nuche, stelle, massa contro il legno scuro del vagone. I fratelli Jacob sono diversi. Indossano cappotti eleganti, con il collo in pelo, berretti ben cuciti, segno di uno stato sociale differente. Ma mentre Sril è stretto nel suo cappotto, Zelig, il minore, lo tiene aperto, incurante del freddo esibisce una disinvoltura tra l’impunito e la follia. Non è contratto come il fratello, è naturale e morbido come fosse in posa. Soprattutto, non guarda fuori campo, guarda in macchina, fissa il fotografo. Noi non sapremo mai «che cosa» guardava Sril, ma sappiamo «chi» guarda Zelig. Zelig guarda il suo assassino, che lo sta «immortalando», che senza saperlo sta raccontando in quella foto l’irraccontabilità di ciò che sta succedendo. Zelig, foss’anche solo per quell’istante, non ha paura e in quello sguardo perfetto, definitivo, incorniciato dalla linea del cappello, non c’è interrogazione, sembra piuttosto rabbia trattenuta ed invece è epifania del campo di sterminio. Gli occhi di Zelig Jacob sono Auschwitz. Fissano il fotografo e dunque, per sempre, fissano noi. Noi siamo il campo, noi siamo colui che sta di fronte a Zelig Jakob e lo interroga anziché rispondere al suo sguardo.
L’invisibile
Per usare le parole che Régis Debray scrive a chiusura del suo Vita e morte delle immagini, il compito che ci deve animare rimarrà quello di «perorare la causa dell’invisibile» (Debray, 1999). Significa fare ritorno a quel che non si vede. Non, finalmente, vedere, ma indirizzarsi verso ciò che non si potrà mai vedere. Perorare la causa dell’invisibile, non vuol dire far diventare l’invisibile visibile e dunque disperderne la potenza, ma ribadirne con decisione l’esistere, investire la lacuna del visivo con nuova luce, renderla produttrice di senso e affrontare quella sua misteriosa sacralità che ci mantiene in un ruolo di subalternità ermeneutica inemendabile. Si tratta di ridefinire il visuale attraverso il suo contrario e una tale ridefinizione, nel corso del tempo, ha trovato proprio nei campi di sterminio un’inattesa occasione di approfondimento e quasi un paradigma metodologico. Lasciamo da parte il dispositivo campo come luogo di una visione coercitiva dell’abominio che si pensava non credibile e lasciamo da parte anche il desiderio e il bisogno di continuare a vedere il campo, che fa dei lager una delle mete turistiche più importanti del mondo. Soffermiamoci piuttosto sulla visione proibita, sulla cecità degli osservatori e sull’invisibilità dello sterminio, cui a lungo e in più studi si è dedicato Georges Didi-Huberman. Nella splendida lettera che lo studioso francese scrive al regista László Nemes per parlargli delle sue impressioni riguardo il suo film Il figlio di Saul, si legge:
“Sans doute la Shoah est-elle, irréductiblement, ce «trou noir au milieu de nous». Mais cela, loin de nous donner une réponse définitive, ne fait qu’ouvrir toute une série de questions irrésolue. Et d’abord la question – esthétique et éthique, psychique et politique – de savoir que faire devant ce «trou noir», avec ce «trou noir». Que faire en effet ? Laisser le «trou noir» nous miner de l’intérieur, muettement, absolument ? Ou bien tenter d’y faire retour, de le regarder, c’est-à-dire de le mettre en lumière, de le sortir du noir ? On connaît les facilités philosophiques, voire religieuses, à quoi prête la première attitude : faire du «trou noir» un «Saint des Saints», un espace fantasmé comme inapprochable, intouchable, inimaginable, impossible à figurer. Consacrer le règne du noir.” (Didi-Huberman, 2015: 13)
Didi-Huberman riprende in sostanza i grandi temi posti da Agamben: il «trou noir» è la lacuna di Auschwitz che ne regola l’attualità, una lacuna che se mai si potrà colmare, va però guardata dritta negli occhi a meno di non volerle riconoscere una sacralità che la rende inavvicinabile, intoccabile, priva di forma immaginabile all’uomo. Il pericolo che Agamben paventa e Didi-Huberman riprende in queste righe è che insistere sulla indicibilità del campo di sterminio equivalga ad «adorarlo in silenzio, come si fa con un dio […]. Noi, invece, non ci vergogniamo di tenere fisso lo sguardo nell’inenarrabile» (Agamben, 1998: 30). Considerare l’inenarrabile qualcosa di intoccabile equivale, per usare le parole di Didi-Huberman, a consacrare il «regno del nero». Renderlo narrabile, come molta letteratura e molto cinema hanno fatto, spesso con deboli risultati, può significare disperderlo, tradirlo, perderlo. Gli occhi, dice Agamben, vanno tenuti fissi nell’inenarrabile, senza farne un feticcio e senza pensare di doverlo trasformare nel suo contrario, cioè nel narrabile. Se volessimo cambiare le parole, potremmo dire che gli occhi vanno tenuti fissi nell’invisibile, senza volerlo tramutare nel suo contrario, come la fotografia dei fratelli Jakob ci insegna.
Simone de Beauvoir riconosceva a Claude Lanzmann di essere riuscito a mostrarci, nell’invisibilità delle parole dei suoi tanti volti recuperati, l’erba e le fattorie mute attorno ai campi, di avere in sostanza disvelato lo «scandalo» e scalfito il «regno del nero» di Didi-Huberman. Ci ha messo anni Lanzmann per capire «que faire» del «trou noir» della Shoah e, soprattutto, cosa farne da un punto di vista «estetico, etico, psichico e politico». Lanzmann ha fatto ciò che Didi-Huberman, molto dopo, riconosce a Nemes: ha «fatto ritorno», ha fissato, ha portato alla luce, ha tratto fuori dal nero. Nel suo film Shoah l’invisibile non diventa visibile, ma il tornare porta alla luce e se non riempie la lacuna, la rivela, la desacralizza. Ecco perché sono le immagini e la ridefinizione del concetto stesso di visione e di visuale il cuore del campo di sterminio e la sua attualità. Le immagini portano alla luce, che non significa rendere visibile l’invisibile, ma offrire la possibilità del ritorno verso il nero della Storia per uscirne: lo fa Lanzmann, lo fa la fotografia dei fratelli Jakob, lo fa Il figlio di Saul, l’ha fatto in modo non meno radicale e critico Austerlitz di Sergei Loznitsa (su questo film, in rapporto ai temi trattati, rimando a M. Guerra, Sul principio di retrovisione, e ora anche in Fata Morgana Web 2017. Un anno di visioni).
Sono tutte opere in cui il fuori campo gioca un ruolo decisivo, in cui l’immagine denuncia di continuo la sua insufficienza, perché è un’immagine in abisso, che in buona sostanza ci coinvolge in una vertigine di sguardi che finisce per denunciare una impossibilità di vedere, uno scacco della visione. Di questo scrive Didi-Huberman a Nemes (in quella lettera che sembra un’appendice di Scorze pur poggiando in maniera esplicita e dichiarata sulla comune fonte che aveva originato Immagini malgrado tutto), questo mette in scena Loznitsa analizzando il comportamento dei turisti nei campi, questo, senza volerlo, fa l’SS che fotografa i fratelli Jakob.
Nessuno meglio di Agamben ha teorizzato questa impossibilità di vedere come «fondo dell’umano», come condizione che nel campo riguardava il cosiddetto «musulmano», già non più uomo. Il musulmano, dice Agamben, è colui che ha visto la Gorgone, ciò che non ha volto, ciò che uccide: «la Gorgone non nomina qualcosa che sta o avviene nel campo, una cosa che il musulmano avrebbe visto e non il sopravvissuto. Essa designa, piuttosto, l’impossibilità di vedere di chi sta nel campo […] La Gorgone e colui che l’ha vista, il musulmano e colui che testimonia per lui, sono un unico sguardo, una sola impossibilità di vedere» (Agamben, 1998: 49). Nella fotografia dei fratelli Jakob sarebbe forte la tentazione di dire che Zelig e Sril hanno visto la Gorgone, e anche più forte dire che Zelig muore perché la fissa dritta negli occhi. È un fatto, però, che quell’azzeramento della loro visione, quella impossibilità di sapere cosa vedono, che si sovrappone in modo estremamente proficuo alla nostra impossibilità di vedere, equivale al nostro testimoniare. Siamo stretti in un unico sguardo, in un’unica impossibilità di vedere.
[Estratto del saggio: M. Guerra, “In luogo della memoria”, in A. Rabbito (a cura di), La cultura visuale del XXI secolo. Cinema, teatro e new media, Meltemi, Milano 2018]
Bibliografia:
Agamben G., Quel che resta di Auschwitz. L’archivio e il testimone, Bollati Boringhieri, Torino 1998.
Calasso R., L’innominabile attuale, Adelphi, Milano 2017.
Debray R., Vita e morte dell’immagine. Una storia dello sguardo in Occidente, Il Castoro, Milano 1999.
Didi-Huberman G., Sortir du noir, Les Editions de Minuit, Paris 2015.
Guerra M., Sul principio di retrovisione, in De Gaetano R., Tucci N. (a cura di), Fata Morgana Web 2017. Un anno di visioni, Pellegrini, Cosenza 2017.
Sitografia:
http://www.fatamorganaweb.unical.it/index.php/2017/04/30/loznitsa-austerlitz/