Il razzismo italiano, come ha forme particolari, così ha radici più profonde di quanto si possa immaginare. Non sono né un demologo né un sociologo, ma l’età più che avanzata, i luoghi in cui sono vissuto e certe esperienze fatte credo mi consentano di fornire qualche testimonianza non priva di interesse.
Per prima cosa è opportuno chiarire, anche se dovrebbe essere cosa nota, che, diversamente, per esempio, dal razzismo americano, il razzismo italiano non è mai stato contrassegnato da episodi di violenza fisica. Ciò che lo caratterizza, infatti, è la rozzezza intellettuale e culturale, l’ignoranza, il pregiudizio, la violenza verbale e una
aggressività e una avversione che, fino a un certo momento, e per certi aspetti, sono rimasti quasi astratti, forniti di oggetti non precisamente individuati, generici, e presto mitizzati: i “meridionali”, i “terroni”, “quelli del tacco”. Una delle caratteristiche principali del razzismo italiano è infatti il suo carattere mutevole e progressivo: mutando oggetto esso ha aumentato sia la propria intensità, la propria violenza, sia la propria natura, si è fatto esplicito, “parlato”, non soltanto esclamativo e interiettivo, senza però mai raggiungere un vero livello di elaborazione ideologica.
In una città come Bologna, già prima della seconda guerra mondiale, i meridionali in genere venivano indicati dal popolo con il sintagma dialettale “I maruchén” (I marocchini). Non vi era, nel termine, né vera ostilità né vero disprezzo, piuttosto un’ironia quasi affettuosa. Nessuno avrebbe potuto allora prevedere che quella denominazione sarebbe presto caduta in disuso per la semplice ma decisiva ragione che, di lì a non molti anni, i bolognesi, come tutti gli altri italiani, avrebbero avuto occasione di conoscere da vicino, attraverso le migrazioni, i marocchini veri e propri.
Ciò che è importante, in tutto questo, è che , senza sostituirle del tutto, le migrazioni esterne prevalgono sulle migrazioni interne e soprattutto che il razzismo soft dei primi due terzi del secolo si fa sempre più duro quanto più i razzisti, potenziali e reali, lasciatisi alle spalle i fantasmi con i quali di fatto si misuravano, devono fare i conti con dei corpi, con degli esseri umani vivi, che hanno bisogni concreti e concrete aspirazioni. I “marocchini” non sono più alle porte, sono ormai entrati nella città.
Un fatto singolare, che riguarda soltanto il razzismo, è che il passare del tempo e il maturare delle esperienze non apporta alcun miglioramento, alcuno sviluppo positivo. L’ignoranza, il pregiudizio, le deformazioni storiche rimangono intatti quando non si aggravano. Fernando Bandini, vicentino, buon poeta e professore all’Università di Padova, attento osservatore della propria città, mi ha raccontato di alterazioni della realtà storica percepite attraverso le voci di alcuni leghisti che sarebbero incredibili se la fonte da cui provengono non fosse ineccepibile: Daniele Manin – per limitarsi a un esempio -, il patriota che anche i bambini delle Elementari conoscono, sarebbe stato in realtà un traditore venduto agli austriaci. Da notare che l’ignoranza non è inquieta e dubbiosa ma, al contrario, sicura di sé, marmorea, sprezzante, con qualcosa di rabbioso, come se ci si dovesse sempre vendicare di qualche torto subìto e come se nascere in una città lombarda o veneta desse di per sé il privilegio dell’infallibilità e della superiorità. In un cinema di Vicenza mi è capitato di assistere alla proiezione del film Rocco e i suoi fratelli di Luchino Visconti. In una delle prime file torreggiava un cittadino veneto che, esprimendosi naturalmente in dialetto, con parole pronunciate ad alta voce e con grida, aveva già dato segni di irrequietezza. La quale toccò il culmine quando, nel corso del film, i personaggi, meridionali emigrati a Milano, incontrano la prima neve. Lo spettatore, fuori di sé, interrompendosi di continuo per ridere fragorosamente, prese a gridare che naturalmente quei “terroni” la neve non l’avevano mai vista, come se, nel caso, si trattasse di una colpa o di uno stato di inferiorità, e beatamente ignorando che Calabria e Sicilia hanno alture e montagne. Seppi poi da un amico che lo spettatore non era un malato di mente ma un impiegato dell’amministrazione pubblica.
Facciamo un lungo passo indietro, fino a tornare agli anni ’50. A Bari si svolgeva il congresso nazionale della FUCI, la Federazione universitaria cattolica italiana. Non ricordo per quale motivo, fui invitato a partecipare come “osservatore”. E da “osservare” non c’era poco, quando si pensi che il congresso riuniva giovani universitari provenienti da tutte le regioni italiane. Nulla di clericale nelle diverse manifestazioni, al contrario intelligenza critica e ironia. Ma anche un antagonismo fra Università e Università che in realtà celava un antagonismo fra città e città, fra regione e regione, fra Nord e Sud. Alla sera, finiti i lavori, quei giovani si rilassavano
cantando canti dei propri luoghi. L’ultima sera gli studenti trentini (Sottolineo: trentini, non bolzanini) presero a cantare nel loro dialetto questi versi: “Se i ne dan, se i ne dan l’autonomia / i terun, i terun paremo via. / Se continua a andar così / la Teronia la ven chì!”. Questo dialetto ( che mi sforzo di trascrivere più o meno fedelmente) è troppo facilmente interpretabile perché occorra una traduzione. Occorrerebbe invece interpretare l’intenzione e il tono. Era un canto scherzoso? Era un canto ironico? E se era un canto ironico l’ironia era pacifica o aggressiva? In ogni caso, già solo il fatto che l’”osservatore”, a tanta distanza di tempo, conservi perfettamente nella memoria quei versi che non aveva mai sentito prima, mostra quanto ne rimase colpito a udirli.
L’incontro con l’Altro, anche se l’Altro è il proprio fratello, è sempre, in diversa misura, inquietante, problematico. Quando l’Altro è un estraneo, o un avversario, o qualcuno che, a torto o a ragione, si presume essere il Nemico, l’inquietudine cresce d’intensità, si alimenta di sospetti, di paure. Il mito si impadronisce del soggetto e la ragione critica, o il semplice buon senso, là dove sopravvivevano, retrocedono sconfitti, vengono meno, scompaiono. A pensarci bene, il razzismo non è altro che il consegnarsi del soggetto al mito, che lo disarma della ragione e lo domina. E il mito, che si presenta spesso nelle forme più allettanti, ha, altrettanto spesso, come esito estremo la morte.