La figura di Giuliano Montaldo, assoluto protagonista della giornata del 9 maggio scorso al Roma Tre Film Festival, congiunge alla perfezione due degli snodi ricorrenti nelle riflessioni intavolate nel corso dell’evento: il dibattito sui 50 anni di ’68 e la necessità di assottigliare la distanza teorica, storicamente frutto di un atteggiamento snobistico da parte della critica “colta”, tra i generi cinematografici e il concetto, sempre evanescente, di “Autore”.
Vedendoci costretti, nell’evidente impossibilità di imbarcarci in una riflessione talmente vasta quale quella inerente la nozione di autorialità nel cinema, ad abbracciare di essa una lettura vaga e piuttosto onnicomprensiva, è evidente come Montaldo possa essere considerato una personalità autoriale di grande rilievo nella cinematografia nostrana, e come il suo film più celebre, Sacco e Vanzetti (1971), possa forse essere elevato a vero emblema di quel cinema di impegno civile e politico che, per usare le parole di Brunetta, assimila «lo spirito del ’68» e si incarica «di tener accesa la fiamma rivoluzionaria, di rimanere un punto di riferimento ideale e ideologico forte» (Brunetta, 2003: 219). Meno immediatamente intuitivo, ma senza dubbio altrettanto presente, è il radicamento del cinema di Montaldo in una tradizione dei generi che ne influenza l’estetica e di cui partecipa anche Sacco e Vanzetti (d’altronde in precedenza il regista aveva realizzato due thriller puri: Ad ogni costo e Gli intoccabili, rispettivamente nel 1967 e 1969).
In questa occasione ci piacerebbe mettere in risalto tale ambivalenza estetica e servirci di Sacco e Vanzetti come di un “dettaglio”, per usare una metafora inerente al linguaggio cinematografico, a partire dal quale si potrà poi, in un’altra occasione, allargare il campo fino a un “totale” del corpus della produzione di Montaldo; nella speranza che il dettaglio possa essere rivelatore di una qualità condivisa dal totale. Nell’adottare un approccio di questo tipo per analizzare il capolavoro di Montaldo, ci troviamo a seguire, anche se solo in parte, il consiglio di Flavio Vergerio: «Bisognerebbe rileggere il film in una dimensione non realistica come invece tutta la critica ha fatto, non documento, ma ricostruzione fantastica dei fatti. Il “realismo” del film è un’illusione dichiarata nelle scelte linguistiche di “genere”. Ma questo, lungi dal diminuire la forza del film, ci dovrebbe permettere di rileggerlo nella giusta chiave» (Vergerio, 1999: 72). Solo in parte perché gli sforzi di Vergerio sono orientati a legittimare il recupero di precisi codici di genere nel film a tal punto che, a nostro parere, si finisce per lasciare in ombra le altrettanto presenti manifestazioni di uno stile registico maturo e personale, questo sì “autoriale”.
Sacco e Vanzetti si alimenta dunque della coesistenza (invero pacifica) di due registri espressivi ben distinguibili: l’uno convenzionale e affabulatorio, l’altro eccentrico e dinamico. Vediamo meglio.
Prima di tutto, il film può essere ascritto al fenomeno che Spinazzola definì «superspettacolo d’autore» e a cui attinge ampiamente Morreale per mettere in luce il circolo virtuoso tra autori, industria e pubblico nel cinema nostrano degli anni ’60 (Morreale, 2011). Ma rispetto all’ermetismo dei lavori di Antonioni, Fellini, Ferreri che vengono sussunti alla definizione di Spinazzola, l’opera di Montaldo si carica di una valenza diversa, di cui è spia proprio il ricorrente affidarsi alle regole dei generi. Nello specifico, sono almeno tre i riferimenti individuabili in merito.
Si noti intanto come la struttura di Sacco e Vanzetti si rifaccia alla tradizione del trial movie hollywoodiano, organizzato sull’alternarsi delle sequenze didascaliche relative ai processi, e di scene realizzate in altre location che rendano più vivace e vario il tessuto narrativo. Ancora, nella seconda parte soprattutto (dopo che è stata emessa la condanna nei confronti dei protagonisti) il film tende ad assumere i toni della detective story, concentrandosi maggiormente sulle indagini degli amici di Sacco e Vanzetti per risalire alle identità dei veri artefici della rapina. Infine, la scelta di Gian Maria Volonté come interprete connette automaticamente Sacco e Vanzetti al filone (se non al vero e proprio genere, come veniva considerato da alcuni critici dell’epoca; cfr. Brunetta, 2003, pp. 218-219) del film politico italiano, e ne sottintende l’orientamento ideologico di fondo, dato che la forza iconica della presenza di Volonté rappresentava «la vera e propria incarnazione di una parte intera d’Italia, quella larga fascia di Paese intellettuale, di sinistra, largamente schierata contro il nascente fenomeno terroristico, ma anche fermamente in opposizione ai poteri forti, militaristi e massonici» (Catanea, 2007: 152).
Tutto ciò è posto al servizio di una ricerca di chiarezza discorsiva che ci permette di riferirci a Sacco e Vanzetti come a un superspettacolo nel quale, almeno a un primo livello di significazione, l’espressione di un punto di vista autoriale cede il passo all’applicazione delle norme consolidate dei generi filmici, cosicché il “messaggio” da comunicare sia facilmente accessibile per qualsiasi tipologia di spettatore. Il massiccio sfruttamento di questi stilemi di genere tuttavia non esaurisce la ricchezza estetica del film. La sua superficie all’apparenza piana e ordinata è come continuamente percorsa da increspature che ci si presentano in veste di segni tangibili delle peculiarità dello stile di Montaldo, il quale allora può essere considerato appartenente a quella «rara frangia di autori che in apparenza sembrano narratori o artigiani che lavorano su commissione, ma che invece sono veri e propri autori perché filtrano costantemente attraverso la propria ottica e attraverso le proprie sensazioni la realtà con cui si confrontano, fino a restituirla corredata da una precisa visione del mondo» (Natta, 1999: 33).
Chiara esemplificazione di quanto detto è riscontrabile, ad esempio, in un’analisi dell’incipit di Sacco e Vanzetti, nel quale la tematica fondamentale dell’intero film, ossia la denuncia della violenza coercitiva esercitata dal Potere sull’uomo, è espressa dal regista in modo sofisticato. La violenza del contenuto, vale a dire la rappresentazione dei rastrellamenti, si rispecchia e concretizza, sul piano della forma, nelle asperità delle soluzioni visive adottate. Il bianco e nero livido conferisce un’apparenza quasi ieratica ai volti delle vittime dell’ingiustizia e al contempo rimanda alle proprietà visive delle foto segnaletiche, testimonianze brutali, nella loro pretesa oggettività, del pregiudizio politico. Inoltre, per aumentare la sensazione di presenza dello spettatore nella situazione raccontata, Montaldo si serve di apparecchiature di ripresa leggere, che consentono un elevato grado di aderenza ai corpi e ai fatti. Va notato che queste inquadrature “sporche” ricorreranno in diversi frangenti del film, dando luogo a un circuito dialettico con le riprese statiche e geometrizzate proprie delle sequenze processuali; e che sembrano richiamare l’estetica del «cine-pugno» ejzenštejniano – anche letteralmente: si guardi alla scena del pestaggio, con i pugni che colpiscono, in soggettiva, la macchina da presa (Ėjzenštejn, 1986).
Le soluzioni espressive summenzionate postulano una linea di senso ulteriore rispetto alla comunicazione della tesi ideologica che sostanzia il film. Questo secondo livello della significazione sembra rivolto allo spettatore dotato di superiori competenze interpretative e, pur lavorando in antitesi rispetto alla chiarezza discorsiva garantita dalle strutture di genere impiegate, non ne mina l’efficacia, consentendo anche al pubblico comune di fruire proficuamente del testo. Nella fattispecie, si tratta di una meditazione sullo statuto finzionale delle immagini che mira a produrre un distanziamento critico nello spettatore, invitandolo non tanto all’identificazione patica, quanto all’assunzione di un atteggiamento riflessivo.
Già l’effetto contrastivo che il bianco e nero dell’incipit e del finale produce in rapporto ai colori naturalistici del resto del film muove verso tale scopo; ma è soprattutto la tematizzazione dell’invadenza dei media a farsi carico di questa istanza metadiscorsiva. Ricorrente è la presenza dei flash delle macchine fotografiche durante le varie fasi del processo, così come le vignette satiriche che accompagnano le udienze. Tali occorrenze esibiscono “sguardi” mediali che tramutano la tragedia umana di Sacco e Vanzetti in un evento mediale, influenzandone le dinamiche e l’esito. I due anarchici sono quindi vittime anche di un processo di spettacolarizzazione della loro persona, non meno disumano della sentenza pregiudiziale che sarà inflitta: particolarmente dolorose in questo senso risultano le scene in cui i due sono costretti a mimare l’atto di sparare, o quando a Sacco è fatto calzare un cappello ridicolmente troppo piccolo rispetto alle dimensioni del suo capo. In entrambi i casi, la presenza di media che catturano le “performance” coatte di Sacco e Vanzetti, e il costituirsi di un vero e proprio pubblico di spettatori, danno luogo a un rituale di degradazione in cui si chiarifica l’essenza più profonda dell’ingiustizia sociale: la riduzione dell’uomo a oggetto, e il suo metaforico confinamento nella dimensione del guardato piuttosto che in quella del guardante; dinamica oltretutto ben esemplificata nel voyeurismo dei carcerieri che spiano Sacco e Vanzetti chiusi nelle loro celle, e che riportano alla mente la teoria foucaultiana del Panopticon (Foucault, 2014).
Per concludere il percorso interpretativo che speriamo di aver suggerito, menzioniamo la sequenza che condensa massimamente questo doppio movimento del lavoro di regia di Montaldo: la messa in scena della rapina. Qui il regista gioca in modo diretto col suo spettatore, perché lo rende consapevole solo a posteriori che ciò cui ha assistito è una ricostruzione degli eventi. Analogamente a quanto accadeva nell’arte barocca, dapprima lo induce alla credenza in ciò che sta vedendo; poi, rivelando un senso nascosto e imprevedibile dietro l’apparente chiarezza dell’immagine, lo disorienta e lo invita a stare in guardia, a guardare “con la testa” piuttosto che lasciarsi sopraffare dalle emozioni e dalle sensazioni (Rabbito, 2015).
E questa ci sembra una chiave di lettura proficua per rileggere sotto un’altra ottica un’opera – o addirittura, si spera, una filmografia intera – che troppo spesso è stata discussa solo in termini di empatia e immedesimazione. Proprio l’opposto di quello che Montaldo, a un certo livello di profondità testuale, sembra suggerire.
Bibliografia
Brunetta G. P., Guida alla storia del cinema italiano 1905 – 2003, Torino, Einaudi, 2003.
Catanea A. O., “Ribaltamenti pericolosi. L’immagine divista di Gian Maria Volonté negli anni di piombo”, in Christian Uva, Schermi di piombo. Il terrorismo nel cinema italiano, Rubettino, Soveria Mannelli 2007.
Ėjzenštejn S. M., Il montaggio, Marsilio, Venezia 1986.
Foucault M., Sorvegliare e punire. Nascita della prigione, Einaudi, Torino 2014.
Morreale E., Cinema d’autore degli anni Sessanta, Il castoro, Milano 2011.
Natta E., “La stanza di Giuliano”, in Franco Mariotti (a cura di), Giuliano Montaldo. L’insofferenza per l’intolleranza, ANCCI, Roma 1999.
Rabbito A., L’onda mediale. Le nuove immagini nell’epoca della società visuale, Mimesis, Milano-Udine 2015.
Vergerio F., “Dall’ideologia al linguaggio: chi ha paura del cinema di “genere””, in Mariotti F. (a cura di), Giuliano Montaldo. L’insofferenza per l’intolleranza, ANCCI, Roma 1999.