SPECIALE ROMA TRE FILM FESTIVAL
DARIO ARGENTO E L’ENFASI DELLA VISUALITÀ

Film dopo film, orrore dopo orrore, Dario Argento ha riscritto la grammatica estetica del terrore al cinema fin dall’esordio alla regia con L’uccello dalle piume di cristallo (1970), imponendosi con uno stile ricercato capace di trasformare delitti e omicidi in suggestive coreografie nere. Quel film, tra i primi gialli italiani, profondamente e visibilmente segnato dallo stile di Mario Bava, Fritz Lang e, ovviamente, Hitchcock, uscito dopo due mesi dalla strage di Piazza Fontana può essere considerato un film emblematico di un profondo cambiamento nella società italiana: la luce, la leggerezza e l’ottimismo degli anni Sessanta lasciano definitivamente spazio ad un nuovo decennio cupo, pesante e violento. Come la vera arte che sa esprimere ed anticipare i cambiamenti sociali, così quel film di Argento, con le sue strade vuote e minacciose, la musica opprimente, la tensione, il sangue ed il terrore, rappresentò lo stato d’animo dell’Italia degli anni a venire.

La sua cifra narrativa fu subito chiara: forte enfasi della visualità in cui stili diversi si mescolano, alterando gli schemi tradizionali imposti dal gusto del cinema. Argento utilizza la macchina da presa in maniera elaborata, associandola ad effetti di luce e colonne sonore che rappresentano la vera quintessenza del suo lavoro e il background perfetto per le scene forti e di grande impatto, anche quando si tratta più semplicemente di inquadrare le mani dell’assassino (che sono le sue). Non è un caso se lo si considera il maestro europeo del concetto di macabro, in cui le immagini di violenza raggiungono il limite estremo della loro capacità espressiva. Insomma, l’immaginario collettivo deve a lui il meglio del cinema visionario splatter made in Italy e un dispendio emotivo unico e irripetibile. E a lui, in fondo, si deve anche aver dimostrato come il vero fenomeno paranormale sia solo l’uomo con le sue paure, a volte irrazionali, a volte no.

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foto: Silvia Iacocagni

 

IN PRINCIPIO C’ERA UNA VOLTA IL WEST

Il Roma Tre Film Festival è stata l’occasione per rendere omaggio alla sua arte, alla sua carriera e ad un periodo, il 1968, anno in cui al cinema uscì – tra gli altri – C’era una volta il West per la regia di Sergio Leone e di cui Argento fu uno dei soggettisti insieme a Bernardo Bertolucci.  In una serata evento realizzata in collaborazione con la Cineteca nazionale, la pellicola è stata proiettata in 35 millimetri dando così vita ad un’occasione di cinema vintage che è stata molto apprezzata dal numeroso pubblico presente in sala al Teatro Palladium. Argento e Bertolucci aiutarono Leone a imbastire un soggetto ambizioso e mastodontico, capace di abbracciare la grande tradizione western e di chiuderne al tempo stesso malinconicamente il cerchio.

Insomma, l’opera più completa di Sergio Leone porta la firma di Argento. “Da Sergio Leone capii cos’è il cinema, scoprii la tecnica, le possibilità della macchina da presa”, ha detto al Festival. In effetti il film è un perfetto esempio di cinema, omerico e chimerico, grazie all’utilizzo razionale e puramente emotivo di parole taciute in favore di primi piani che valgono, da soli, intere frasi e interi pensieri e con un magistrale utilizzo degli attori, del montaggio  e della magistrale musica di Ennio Morricone. Un grande film che sancisce la fine delle storie di frontiera: Cheyenne muore come sta morendo il suo west con la consapevolezza dell’inevitabilità. Ed è proprio qui che in particolar modo si colgono  le atmosfere create dalla scrittura di Argento che Cinecittà reclama fortemente come sceneggiatore con gli spaghetti-western Oggi a me… domani a te! (1968) e Cimitero senza croci (1969) e per il drammatico Metti una sera a cena (1969) di Patroni Griffi.

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foto: Silvia Iacocagni

 

 

L’UNICITA’ DEL DATO VISIVO

Argento ha saputo comunque conquistarsi un pubblico fedele e affezionato: le sue opere sono state distribuite in tutto il mondo ed è sicuramente uno dei registi italiani più noti all’estero. I suoi primi film (il già citato L’uccello dalle piume di cristallo, 1970; Il gatto a nove code, 1971; Quattro mosche di velluto grigio, 1971) hanno creato un genere e numerosi imitatori in Italia e all’estero. Come forse solo Alfred Hitchcock prima di lui, Dario Argento unisce da sempre la voglia di spaventare con il desiderio di farsi riconoscere e apprezzare presso un pubblico sempre più vasto. Ciò lo ha portato, anche negli anni più recenti, a confrontarsi con il mondo dell’arte (La sindrome di Stendhal), della letteratura (Il fantasma dell’Opera, Dracula 3D) e dell’occulto (La terza madre).

A partire da Profondo rosso, che ha maggiormente colpito l’immaginario dello spettatore, l’aspetto centrale delle sue storie è il dato visivo. Molti elementi di continuità nei suoi film concorrono a rafforzare questa scelta stilistica: la claustrofobia di ambienti e situazioni (con una Torino ricreata come città incubo), le nevrosi dei suoi personaggi, un uso libero e delirante della macchina da presa che esalta la forza delle immagini senza troppo interessarsi della verosimiglianza di storie e dialoghi con un impasto di emozioni barocche e musiche che hanno spaziato dalla musica classica al rock più ossessivo, da Ennio Morricone a i Goblin. Nei gialli dei primi anni, per esempio, le vittime sono spesso pedinate dalla macchina da presa, che sembra così rappresentare il punto di vista dell’assassino ma il colpo decisivo viene inferto da un diverso angolo visuale tanto da creare un effetto sorpresa per lo spettatore, violando volutamente le regole auree del giallo cinematografico. Anche quando nel 2000 Argento sembra essere ritornato a una struttura narrativa più tradizionale (il giallo classico) con Nonhosonno le emozioni visive hanno continuato a essere l’elemento più moderno e interessante.

Il suo cinema, non sempre adeguatamente apprezzato dalla critica in Italia, è invece oggetto di culto soprattutto in Francia (dove nel 1999 gli è stata dedicata una retrospettiva completa presso la prestigiosa Cinémathèque française) e negli Stati Uniti dove esiste una vasta e approfondita pubblicistica.

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foto: Silvia Iacocagni

 

 

Bibliografia:

 

Argento D., Peur: Autobiographie, Rouge Profond, Paris 2018

Argento D., Horror. Storie di sangue, spiriti e segreti, Mondadori, Milano 2018

Loucantonio G. (a cura di), Il cinema horror in Italia, Dino Audino Editore, Roma 2001

Uva C., L’immagine politica. Forme del contropotere tra cinema, video e fotografia nell’Italia degli anni Settanta, Mimesis, Milano-Udine 2015

Zagarrio V. (a cura di),  Argento Vivo. Il cinema di Dario Argento, Marsilio, Venezia 2008


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