Se qualcosa ci hanno davvero raccontato le ultime due edizioni del concorso Carta Bianca Dams (lo spazio dedicato ai cortometraggi realizzati da autori under trenta nell’ambito del Roma Tre Film Festival) è che esiste una spiccata sensibilità ricettiva dei giovani filmmaker italiani e internazionali e una consapevolezza della direzione in cui il cinema contemporaneo si sta dirigendo; della sua trasformazione in un terreno ibrido, dove le linee di demarcazione diventano sempre meno nette; e – più in generale – del ruolo che il cinema può svolgere nel più vasto campo di forze rappresentato dalla cultura visuale e mediale contemporanea.
I due film premiati nell’edizione dello scorso anno – dalla giuria e dal pubblico – si proponevano già chiaramente come sentori di questa tendenza. Le nostre cose importanti di Johnny Carrano riprendeva l’escamotage del meta-cinema per offrire una rappresentazione dello spazio filmico non come universo separato dalla realtà, ma come spazio relazionale che con la realtà stessa istituisce un rapporto di interdipendenza. In questo film appare impossibile definire un ordine di priorità tra gli eventi che si svolgono davanti e dietro la macchina da presa con la quale un gruppo di amici sta realizzando il proprio film. La narrazione, seguendo le dinamiche del mind game film contemporaneo (Elsaesser, 2008), finisce per determinare un efficace stato di confusione e indiscernibilità tra filmico e non filmico, e tra mentale e “reale”.
Sconfinamenti differenti erano invece al centro di Frame di Luca Metodo, vincitore del premio del pubblico 2017, la cui appartenenza a un “genere” pone già dei problemi decisamente rilevanti. Come definire questo breve film? Come un racconto della relazione affettiva tra il regista e l’anziano nonno? Come il tentativo di partire da questa relazione per universalizzare un racconto sul processo di decadimento fisico provocato dalla malattia e dalla vecchiaia? O come un film che sembra sconfinare a tratti nell’astrazione visiva, attraverso la contaminazione dello sguardo documentaristico con uno sguardo fortemente soggettivo e a tratti allucinato, in momenti in cui il dispositivo di produzione del racconto sembra invadere – visivamente – il racconto stesso? Frame è probabilmente tutto questo, e si pone come luogo di evoluzione di un processo di ibridazione che consente continui scivolamenti nell’interpretazione del fatto filmato.
Non meno interessanti, da questo punto di vista, sono apparse alcune opere italiane e internazionali presentate in concorso nell’edizione di quest’anno. Tra i ventiquattro film selezionati per la fase finale, infatti, non pochi sono quelli che pongono il problema della relazione tra sguardo filmico e oggetto filmato, facendo di questa stessa relazione un territorio di conflitto irrisolto dove la posta in gioco è l’attribuzione stessa dello sguardo e la sua relazione con la costruzione di un racconto. Casi esemplari, in tal senso, risultano essere certamente Denise di Rossella Inglese e Un minutito di Javier Macipe, sui quali vale forse la pena soffermare l’attenzione. La domanda che vorremmo porci, in questa sede, concerne proprio la tipologia di racconto che questi due cortometraggi intendono veicolare, dato che se il piano del contenuto sembra farsi portatore di due storie piuttosto semplici e assolutamente lineari, lo stile interviene a ingaggiare un dialogo differente con lo spettatore, al punto da trascinarlo in un “gioco” che si sovrappone al procedere della narrazione. Un gioco che, potremmo dire, consiste nel comprendere pienamente la funzione del dispositivo filmico, che si configura come ambiguo, sfuggente, e capace di disseminare le tracce di questa stessa ambiguità nel tessuto visivo-narrativo di questi cortometraggi. Un gioco che, in Denise, finisce perfino per espandere il piano narrativo del film e includere in esso un elemento di riflessione centrale negli studi di cultura visuale contemporanea: la questione dell’iperesposizione del soggetto ai dispositivi di ripresa, e l’idea del vivere in un regime di costante sorveglianza.
Si rende necessario, dunque, intrecciare tra loro una narratologia del contenuto e una narratologia dell’espressione per analizzare a fondo il racconto che è al centro di ciascuno di questi due cortometraggi. Una narratologia del contenuto che, come illustrato da Andrè Gaudreault, riguarda «il sostrato degli eventi e la sua strutturazione» e una narratologia dell’espressione per la quale a divenire centrale non è soltanto la “materia” (il medium, potremmo anche dire) attraverso cui la storia è veicolata (parola, immagine fissa, immagine in movimento, musica, etc.), ma anche la questione «delle istanze narrative (chi parla? chi vede?) e dei diversi modi e dei diversi regimi di comunicazione narrativa» (Gaudreault, 1989: 52-53). Chiaramente, questi due aspetti della narrazione filmica devono sempre essere tenuti in considerazione per lo studio dell’esperienza narrativa che uno specifico medium può determinare, tuttavia in questi due cortometraggi risultano essere particolarmente significativi perché la loro compenetrazione è decisiva non solo in fase di analisi (per lo studioso, dunque) ma anche durante la visione del film (per lo spettatore), perché è solo a partire da questa compenetrazione che può innescarsi quel gioco di cui dicevamo. Procediamo con ordine, muovendo da un resoconto dei fatti raccontati in Un minutito. Protagonista di questo cortometraggio è Maria, una giovane ragazza che in una strada di Madrid cerca di attirare l’attenzione dei passanti per convincerli a firmare contro una riforma sanitaria che vorrebbe ridurre la copertura delle spese mediche di base ai soli assicurati. Nel farlo, Maria ricorre a una formula che diviene ridondante col procedere del film e che dà senso al titolo: “Tienes un minutito?”
La ragazza si ritrova di fronte a diverse reazioni: chi la ignora, chi si rivela critico nei confronti della sua posizione, chi giunge persino a farle delle avance, mostrandosi più interessato a lei che alla sua causa. La vicenda di Maria si intreccia con quella di un musicista di strada di colore che suona la chitarra e canta a pochi passi da lei. Durante la pausa pranzo i due scambiano alcune battute, si presentano, il musicista dice alla ragazza di averla osservata a lungo. Poi i due si salutano e ciascuno riprende il proprio lavoro. Il musicista continua a osservare Maria e, nel finale, decide di dedicarle una canzone, introducendo il brano con queste parole: “Voglio dedicare questa canzone a Maria, che ha passato mezzo pomeriggio lì a lottare per noi, affinché possiamo sentirci un po’ meno stranieri in queste terre”. Sulle note di Vendièndolo todo, intonata dal musicista, partono i titoli di coda del film. Sul versante della narratologia del contenuto, possiamo dire che questo cortometraggio racconta in poco più di otto minuti un pomeriggio di lavoro volontario della giovane protagonista, il suo impegno per la causa in cui crede, la scarsa attenzione della maggioranza dei cittadini per questioni sociali di assoluta rilevanza, l’importanza del sostegno che può arrivare da una sola persona che condivide il senso di urgenza della causa per cui si sta lottando.
Ma la domanda fondamentale che assilla lo spettatore per l’intera (breve) durata del film è: che cos’è, esattamente, Un minutito? Si tratta di un film di finzione o di un documentario? Tale domanda nasce spontanea dal fatto che, sul versante della narratologia dell’espressione, questo film esibisce dei tratti stilistici che tendono a distanziarlo dal racconto finzionale: uno stile asciutto, la predilezione per delle rapide panoramiche che seguono i movimenti della protagonista, la sistematica negazione del campo-controcampo tra lei e i passanti, gli sguardi in macchina di alcuni passanti incuriositi dalla presenza dell’operatore, il frequente ricorso al montaggio ellittico – tipico di alcuni documentari e di alcuni reportage televisivi – che aiuta a condensare in poche battute, tagliate e cucite tra loro, il senso delle dichiarazioni degli interlocutori della ragazza.
Eppure altri elementi determinano una frizione interna al film, come se la loro presenza eccedesse i confini del documentario: alcune delle persone che scambiano opinioni con Maria sembrano essere perfettamente a loro agio nonostante la presenza della macchina da presa; ci si chiede – per esempio – come sia possibile che alcune persone possano aver concesso il consenso a comparire nel film nonostante le loro dichiarazioni risultino decisamente poco opportune (pensiamo per esempio al passante che si mostra disinteressato alla raccolta firme e cerca solo di avere il numero di telefono di Maria). Il gioco di attriti trova poi pieno compimento nella costruzione della sequenza finale, dove le regole della continuità visiva – e in particolare il campo-controcampo tra Maria e il musicista al momento della dedica del brano musicale – precipitano il film in un clima finzionale che mette definitivamente in crisi la struttura entro cui è venuto a configurarsi il racconto fino a quel momento.
Ciò significa necessariamente che Un minutito è un film di finzione e che è bastato seguire le tracce disseminate al suo interno per scoprire l’inganno cui il regista ci ha sottoposto sin dall’inizio? Non si tratta neppure di questo. Un minutito è, probabilmente, un prodotto ibrido che non mina l’autenticità del personaggio (Maria Jàimez, che interpreta Maria, sta verosimilmente mettendo in scena se stessa) pur inserendolo all’interno di un dispositivo che ricorre a una strategia finzionale per modulare, probabilmente, la partecipazione emotiva dello spettatore e generare un’accelerazione nel finale a partire proprio dal ben calibrato gioco di sguardi tra i due personaggi. In Denise, il ruolo svolto dal dispositivo filmico è decisamente differente, ma anche in questo caso ci troviamo nella condizione di ingaggiare con esso un costante dialogo nel corso del film per seguire le tracce di alcune anomalie che, nel finale, generano un’esplosione del racconto che rivela la partecipazione del dispositivo stesso all’universo finzionale. Il film racconta la quotidianità della protagonista, Denise per l’appunto, adolescente della periferia romana che vive una relazione complessa con la madre e con il gruppo di amici e amiche che quotidianamente frequenta. Al centro della storia sono posti gli attriti all’interno del gruppo, le prime esperienze sessuali della ragazza – anche a pagamento – e la costante necessità di “dover essere” qualcosa per sentirsi parte di qualcosa. Quello che sul piano tematico emerge dalle azioni e dai dialoghi dei giovani protagonisti trova un’amplificazione sul piano dello stile che diviene chiara allo spettatore soltanto col procedere del film.
Quello che Denise racconta, infatti, è l’estensione del piano relazionale della nuova generazione sui social network, individuando questo come un aspetto chiave dei comportamenti messi in atto dai protagonisti anche nel mondo reale. La macchina da presa, pertanto, non si propone soltanto come componente fondamentale dell’istanza narrante del film, ma diviene personaggio interno al film stesso, rivelato in quanto tale dagli sguardi in camera via via più insistenti rivolti dai personaggi. Sguardi ammiccanti, che interpellando lo spettatore non riportano l’attenzione sulla sua condizione (spettatoriale, per l’appunto), ma sulla piena consapevolezza dei personaggi di essere attori di una performance. Sono sguardi assolutamente autoreferenziali.
Denise, allora, è anche – e soprattutto – la storia dello sguardo ossessivo esercitato dalla macchina da presa su dei personaggi consapevoli; è la storia di questa onnipresenza di un dispositivo che trasporta la quotidianità dei personaggi altrove, sui social network probabilmente, amplificando in maniera significativa la loro consapevolezza di essere costantemente “in scena”. Si tratta di un dispositivo che noi non vediamo – e del quale non abbiamo assoluta certezza per lunga parte del film – ma che è percepito dai protagonisti e che influenza i loro atteggiamenti, come se la condizione di iperesposizione mediatica (che è anche auto-esposizione, in quanto consapevole) di cui sono resi oggetto si esprimesse per tramite di un costante first person shot (Eugeni, 2015) – in grado ridefinire significativamente la natura del loro universo sociale, che si configura a partire da una compenetrazione totale tra virtuale e reale. Siamo di fronte all’esibizione di una forma di mediazione che esercita un fondamentale condizionamento della realtà circostante, al punto da divenire un «processo vitale», come è stato definito da Sarah Kember e Joanna Zylinska (Kember-Zylinska, 2012). Questo sguardo ossessivo, costantemente ricambiato, come detto, dallo sguardo in macchina dei personaggi conduce, nel finale, all’esasperazione della protagonista che decide – sotto l’effetto dell’alcol – di ingaggiare una lotta (fisica) di resistenza contro il dispositivo, fino ad aggredirlo e danneggiarlo sensibilmente, ponendo fine al film e mettendo a nudo l’indistricabilità tra l’esistenza dell’universo finzionale e la presenza – al suo interno – dello sguardo che lo sta progressivamente configurando. Indistricabilità, dunque, tra il piano dei contenuti e il piano dell’espressione.
Bibliografia:
T. Elsaesser, The Mind Game Film, in W. Buckland (a cura di), Complex Storytelling in Contemporary Cinema, Wiley-Blackwell, Hoboken 2008.
R. Eugeni, La condizione postmediale, Editrice La scuola, Brescia 2015.
A. Gaudreault, Du littéraire au filmique. Système du récit (1989), tr.it. Dal letterario al filmico. Sistema del racconto, Lindau, Torino 2006.
S. Kimber, J. Zylinska, Life After New Media. Mediation as a Vital Process, The Mit Press, Cambridge, London 2012.