Parlare del ’68 è sempre molto difficile perché siamo di fronte ad un tema ed una problematica così vasti e coinvolgenti a vari livelli che si rischia di generalizzare troppo e quindi perdersi in difficili analisi storiche, culturali e politiche. Innanzitutto non è facile definire il periodo temporale che possiamo indicare come riferimento di tempo quando usiamo la tradizionale affermazione, il ’68. Credo che, come sempre accade nella storia, gli eventi che esplosero tra il ’68, il ’69 e il ’70, siano la proiezione di tutta una serie di fatti ed avvenimenti che iniziarono molto prima e si conclusero, a mio parere, nel mai dimenticato ’77, nel quale a Bologna si scatenò uno scontro durissimo tra la cultura politica di un movimento rinnovato, “rivoluzionario”, ed il potere che in quella occasione costruì un’alleanza tra conservatori e riformisti (PCI versus il movimento antiautoritario e antistituzionale). Per intenderci nei “mitici” anni ’60 sta la genesi delle lotte del ’68, e degli anni ’70, a tutti i livelli, dalla scuola alla fabbrica e certamente il cinema italiano (e non solo) fu uno degli elementi culturali e politici (anche etici) più forti in quel processo “eversivo” di consapevolezza critica e “rivoluzionaria” che porterà a quelle giornate, a quegli anni così creativi e propositivi.
Sì, proprio il cinema, ancora il medium più popolare e coinvolgente (la televisione non aveva conquistato l’egemonia che detiene oggi), un cinema che incarnava l’immaginario collettivo della stragrande maggioranza della popolazione. Ma quale tipo di cinema? Un cinema che aveva esaurito la spinta sociale e di denuncia della stagione neorealista e si apriva a due nuove linee di tendenza:
1) la commedia all’italiana con tutti i suoi pregi e difetti; da una parte una commedia che mantiene il suo profilo critico e di evidenziazione delle contraddizioni della società con un linguaggio che si affida all’ironia, alla satira, al grottesco; dall’altra una linea (maggioritaria) più prettamente commerciale che perde sempre di più la sua forza di critica del costume e delle tradizioni della collettività;
2) il cinema politico (termine forse improprio ma di maggiore comprensione); un cinema culturale (d’autore) che scava nelle contraddizioni di una società in forte sviluppo economico con un’analisi-denuncia che utilizza mezzi espressivi e narrativi diversi, più consoni al proprio messaggio, per penetrare anche nei mondi, nei miti e nei misteri più nascosti del suo tempo; un cinema che vuole dissacrare e liberare la società da tutta una serie di pregiudizi, principi, valori, mistificazioni su cui si fonda il potere e che paralizzano lo sviluppo civile e culturale del paese.
In questo contesto si inserisce di prepotenza il cinema di Marco Bellocchio a cui riconosco un rigore ed una coerenza di analisi unica e molto rara nel cinema italiano. Anche Marco Bellocchio, come la maggioranza degli autori di quella stagione straordinaria e irripetibile del cinema italiano (Pasolini, Bertolucci, Vancini, i Taviani, Orsini, Zurlini, ecc.) è figlio di quelle contraddizioni, è il prodotto di quella stagione che troverà nel ’68 il suo momento più alto e dirompente.
Lui forse più di altri, perché l’inizio del suo cinema coincide fortemente con una militanza politica accentuata e chiara che, seppure dimenticata, lascia nell’opera del regista piacentino alcuni segni che ritroveremo in tutto il suo lavoro.
Il ’68 era stato l’apice di una rivolta (più che rivoluzione), di una serie di azioni eversive contro le istituzioni del potere ed i suoi strumenti di controllo e di repressione: la famiglia, l’esercito, la chiesa, la magistratura, il manicomio, i partiti, la scuola, che avevano prodotto i valori su cui si fondava l’intera società. Sono gli stessi obbiettivi contro cui si scaglia la cultura dominante del ’68 con i suoi “maestri”: Laing, Marcuse, Deleuze, Sartre, Lacan, Althusser e in Italia, Pasolini, Fortini, Asor Rosa, per citarne solo qualcuno.
“Caro Bellocchio, per finire questo nostro dialogo di isolati, le auguro, come devono suonare le conclusioni, di turbare sempre di più le coscienze dell’esercito, della magistratura, del Clero reazionario, e insomma della Piccola Borghesia italiana, a cui dobbiamo il disonore d’appartenere. Saluti affettuosi dal suo P.P. Pasolini” (Lodato, 1977); in queste parole di una lettera di Pasolini a Marco Bellocchio troviamo alcuni dei “valori” dell’arte cinematografica del regista piacentino, “valori” che raccolgono contenuti e forme di una “rivolta” vissuta, interpretata e proposta in una chiave di originalità assoluta nel panorama del cinema italiano (solo Pasolini, forse, è equiparabile all’esperienza “eversiva” e anticonformista di Bellocchio) e allo stesso tempo di una coerenza di linguaggio e di ricerca altrettanto unica. Coerenza non come univocità e/o omogeneità (uniformità), ma come perenne dialettica e contraddizione. E proprio qui in questa “teoria” politica e narrativa del cinema di Bellocchio si ricompattano tutti quei “valori” che hanno contraddistinto gli anni del ’68.
Da una parte l’uomo, l’individuo nella sua solitudine, nella sua angoscia esistenziale, nella sua alienazione sociale, dall’altra le istituzioni “repressive”: la famiglia, l’esercito, la scuola. Da una parte una borghesia piccola (ma anche per alcuni aspetti la grande), incapace di “liberarsi” dalla sua corruzione morale ed economica, dall’altra i sogno di liberazione (la rivoluzione?) politica e psicologica. Un sogno per raggiungere la piena consapevolezza della propria crisi e della propria forza volontà di riscatto che prende corpo e materialità nel ’68.
Il cinema di Bellocchio indaga e lavora per raggiungere questa piena “consapevolezza”, per conquistare una coscienza critica del mondo e della nostra esistenza. Il cinema di Bellocchio aggredisce la società, la svuota dalle ripetute ipocrisie, dalle modalità ripetitive e dai modelli obsoleti che ne contraddistinguono il costume e la quotidianità; la violenta, la mette a nudo e ne estrapola i più intimi segreti e misteri (consci e inconsci) per una lettura in piena e assoluta libertà e chiarezza. Un cinema di indagine e di provocazione che utilizza tutti i generi cinematografici e le metafore possibili. Sempre in una dimensione di ricerca artistica e psicanalitica che tende a tradurre in immagini ciò che ci è negato, sottratto. Bellocchio ha assunto e assume sempre prese di posizione, atteggiamenti “politici” (anche nel suo impegno privato) che mirano a decodificare e destrutturare codici e convenzioni fortemente radicati e mistificanti, in un continuo scontro-confronto con la realtà ed i suoi protagonisti.
Per tutto questo Bellocchio è uno dei “maestri” del ’68; lo anticipa e lo interpreta con una propria originalità artistica e politica. Infatti si può riconoscere come nelle sue opere non si rappresenta mai un confronto diretto e chiaro di denuncia e di analisi sociologica, ma si impone sempre la mediazione di una metafora che si evince da microcosmi privati nei quali tutte le contraddizioni ed i conflitti (anche di classe) si manifestano nei suoi film con inaudita violenza. La riflessione di Miccichè a riguardo risulta di particolare utilità: “in un cinema pur così evidentemente collocato a sinistra come quello bellocchiano si evita accuratamente ogni mito operaistico, ogni ‘rituale’ progressista, ogni illusione palingenetica: gli operai, come classe e ‘uti singuli’ , sono anzi programmaticamente assenti dai film di Bellocchio o, quando presenti come Nel nome del padre (i servi, gli sguatteri e i cucinieri), volutamente relegati al ruolo di ‘estranei’, portatori di una voluta incomprensibilità, simboli indefiniti di una Storia (e di una story) ‘autre’, pedine fuori del gioco che è, appunto, soltanto un distruttivo gioco di specchi che si infrangono fra loro e riflettono, ghignanti, le reciproche mostruosità” (Miccichè, 1975).
Bellocchio indaga e denuncia i mali della borghesia, si fa carico della lacerazione dell’intellettuale (artista) diviso tra l’essere parte integrante di una società, di un mondo che vive una drammatica crisi di identità e il raggiungimento di una frattura, di una separazione conquistata attraverso un itinerario sofferto e dissacrante che parte dalla sua infanzia e dai luoghi dove la stessa e la sua formazione di artista “eversivo” si sono costruite.
Quali sono i riferimenti stilistici e cinematografici di Bellocchio? Pochi nel cinema italiano, solo Pasolini può essere considerato l’autore più vicino a Bellocchio, non certo per lo stile o le scelte artistiche, ma sicuramente per il perseguimento di quella libertà creativa e di lotta al conformismo che sono la base fondamentale del lavoro dei grandi artisti e che fondarono la “rivolta” del ’68.
Mentre sono più presenti nel cinema europeo tra quei registi che hanno analizzato la caduta e la frantumazione di un mondo (e di una società) senza avere “la presunzione di proporre modelli alternativi”: Robert Bresson, Joseph Losey, Luis Malle, Fritz Lang, fra i principali.
Bellocchio rimane soprattutto un regista unico, solitario che cerca di equilibrare due linee di indagine: quella autobiografica (I pugni in tasca, Nel nome del padre, Il gabbiano, Salto nel vuoto, Il sogno della farfalla, Il principe di Homburg, La balia) e quella “politica” più intrisa di “socialità” (Discutiamo, discutiamo, Sbatti il mostro in prima pagina, Marcia trionfale, La Cina è vicina, Matti da slegare, I sogni infranti, L’ora di religione, Buongiorno, notte). Due linee di indagine che si sostanziano e si rafforzano nella metafora che permette al regista di distaccarsi dagli oggetti trattati.
Fare un film per Bellocchio significa comprendere la realtà, pensare, prendendo lo spunto da elementi oggettivi e soggettivi; fare un film significa un “divenire”, un processo di comprensione e di riflessione, avendo ben chiaro il punto di partenza e quello di arrivo. Il cinema di Bellocchio dalle origini ai giorni nostri è sempre in bilico tra una coerenza analitica e di contenuti (nonché metodologica) ed una contraddizione di proposta e di rendimento stilistico e artistico. E non poteva essere diversamente (e per fortuna non lo è stato e non lo è) per un autore che ha fatto della provocazione un momento centrale del suo lavoro. Una provocazione che inizia con I pugni in tasca e che non si è ancora conclusa. Una provocazione che sceglie quali temi centrali della propria dimensione narrativa la normalità (la cronaca, la storia, la quotidianità) e la follia che ritornano ad essere protagonisti e accompagnano Bellocchio nel suo itinerario nell’inconscio dell’individuo e del mondo che lo circonda. Come scrive Nicastro: “l’itinerario artistico di Marco Bellocchio cambia quasi ad ogni film, riprendendo vecchi temi a lui indispensabili, per poi aprire nuove problematiche, senza mai cadere così nell’impoverimento. Attraverso questi tentativi vitali ha sempre cercato di fare cose nuove, rispetto a quelle che aveva fatto prima” (Nicastro, 1992). Ma è una produzione, quella di Bellocchio, che si sviluppa sempre all’interno di un programma artistico di ricerca e di analisi unico ed originale. Alcuni esempi per spiegarmi: in Buongiorno, notte ritroviamo la “provocazione” delle origini, de I pugni in tasca, seppure in un contesto storico e politico radicalmente mutato. O si prenda uno dei temi che segnò profondamente la rivoluzione del ’68, quello della follia, dei manicomi e della loro cancellazione; con un nome su tutti, Francesco Basaglia. Ecco, dopo lo splendido Matti da slegare, il tema della follia in Bellocchio ritorna con Enrico IV di Luigi Pirandello e nella Visione del sabba.
Dopo le motivazioni che nascono dal suo vissuto personale, i suoi nuovi personaggi hanno altre provenienze, e soprattutto quella di Massimo Fagioli che gli creerà molte critiche soprattutto dopo il film La condanna, anche se la collaborazione con Fagioli si era già evidenziata nel film Il diavolo in corpo. Ma non voglio approfondire questo discorso che rischierebbe di portarmi fuori strada. Il rapporto con Fagioli (ormai concluso da anni) è parte integrante di un percorso che trova nella follia e nella segregazione che impone a molti un punto di riferimento importante. Cambiano i contenuti ma il filo “forte” dissacrante della provocazione che caratterizza tutto il suo cinema rimane il punto centrale della sua analisi e della sua narrazione cinematografica. Ed è lo stesso Marco Bellocchio ha sottolineare questa caratteristica delle sue opere cinematografiche: “se per provocazione intendi cercare strade nuove, rischiare, direi proprio di sì. La ricerca analitica mi ha portato sempre più a fondere la realtà personale con la ricerca artistica e dunque il mio modo di muovermi per cercare di capire, di vivere, diventa sempre più controcorrente. Il problema, infatti, è che qui si vive in una dissociazione totale, riconosciuta, data per scontata, mentre è importante non perdere di vista la propria vita e continuare una ricerca che riguardi sempre la propria esistenza e il proprio lavoro. Non è facile, ma è necessario; lo è per l’arte, per gli artisti e non solo per loro” (Caputi, 1991).
In queste parole di Bellocchio troviamo tutto il valore, la forza e la profondità del lavoro del regista emiliano e spiega le intrinseche relazioni tra il suo cinema e la “rivoluzione” del ’68. Quelle relazioni che sono state le protagoniste dell’ultima edizione del Roma Tre Film Festival e nel quale, per la serata conclusiva, abbiamo avuto il piacere di dialogare e confrontarci con Bellocchio per riflettere e ricordare un passato importante che non dovrà e non potrà mai essere dimenticato.
Bibliografia:
N. Lodato, Marco Bellocchio, Moizzi Editore, Milano 1977.
L. Miccichè, Il cinema italiano degli anni ’60, Marsilio, Venezia 1975.
A. Nicastro (a cura di), Marco Bellocchio. Per un cinema d’autore, Ferdinando Brancato, Firenze 1992.
S. Caputi, “Interviste a Marco Bellocchio. L’arte di provocare”, in Prima Visione Cinematografica, n. 4, aprile, 1991.