Intermezzo (semiserio) con intervista a Pat Mastelotto, e poi Stick Men live al Bravo Caffè di Bologna (1 marzo 2018).
E, in effetti, da qualche anno i King Crimson sono rinati come band o, volendo, il concetto/pensiero/atteggiamento/comportamento sintetizzato dal nome King Crimson si è reincarnato in una nuova “line-up”, definita da Fripp come “the seven-headed beast”, “la bestia a sette teste”, e “the eight-piece KC” – a seconda che, evidentemente, i musicisti schierati in studio e sul palco siano sette o otto (in entrambi i casi con tre batteristi, si noti bene). Nelle succitate “liner notes” del magnifico “Live in Chicago 2017”, forse persino superiore per qualità, precisione e soprattutto intensità della performance rispetto al già eccellente “Live in Toronto 2015”, Fripp fornisce una succinta ricostruzione della travagliata, avventurosa e appassionante storia pluridecennale dei King Crimson nelle sue varie incarnazioni, spiegando che la formazione del 1969 vale, a suo giudizio (che, ovviamente, è il giudizio in questo campo), come “first definitive formation”; quella dei primi anni ’70 culminante nella registrazione di “Red” vale come “second definitive formation”; quella dei primi anni ’80 dei dischi “Discipline”, “Beat” e “Three of a Perfect Pair” come “third definitive formation”; il doppio trio del 1994-1997 come “special band” ma non come “defining band”, in cui “l’intero era più grande della somma delle parti”; quella del doppio duo del 1999-2003 come formazione in cui “l’intero non era più grande della somma delle parti”; quella del quintetto del 2008 come “line-up” in cui “la somma delle parti era più grande dell’intero” (il tutto, come si può vedere, ben espresso con una terminologia vagamente “gestaltpsychologisch”); e, infine, quella del 2013-2017 “a sette teste” e soprattutto quella attuale “a otto teste” valgono come “fourth definitive formation”.
In effetti, chi scrive ha avuto il piacere e l’onore di “gustare” una performance straordinaria di questa nuova incarnazione dei Crimson a Firenze il 9 novembre 2016 e può testimoniare che si è trattato di un evento live nemmeno lontanamente paragonabile (in quanto incomparabilmente superiore, cioè) al concerto dei King Crimson a Firenze nel 2003, dunque con una formazione precedente, o anche all’esibizione del Crimson ProjeKCt (in pratica, Belew, Levin e Mastelotto con l’aggiunta di altri musicisti e un repertorio quasi interamente kingcrimsoniano) a Bologna nel 2014. Non saprei dire se si tratti davvero della “fourth definitive formation” oppure no (ma, chiaramente, il mio parere conta poco, quello che conta essendo il parere di Fripp: il suo giudizio è “epistème” in questo campo, laddove tutti gli altri giudizi sono mera “doxa”), ma quel che è certo è che si tratta di una band musicalmente eccitante come poche altre. E, aggiungo, chi scrive conta anche di poter avere il medesimo piacere e onore a Venezia il prossimo 27 luglio (e non vede l’ora, in tal senso!) ma nel frattempo ha avuto anche la possibilità di concedersi un “assaggio” (per rimanere sul piano delle metafore gustatorie) mediante un concerto degli Stick Men al Bravo Caffè di Bologna, l’1 marzo scorso. Stick Men che consistono di una formazione in trio che annovera al suo interno, oltre al chitarrista (o meglio: suonatore di una touchguitar di sua stessa progettazione) Markus Reuter, due membri fondamentali delle incarnazioni dei King Crimson dal 1994 a oggi, ovvero il bassista e suonatore di Chapman Stick Tony Levin, molto noto anche per la sua collaborazione pluridecennale con Peter Gabriel, e il batterista Pat Mastelotto. In questa occasione abbiamo avuto il piacere e l’onore di rivolgere alcune domande a Mastelotto riguardo al succitato abbozzo di interpretazione unitaria dell’estetica dei King Crimson sulla base delle categorie di disciplina e/è indisciplina.
Abbiamo dunque il privilegio di pubblicare qui su “Scenari” una breve intervista a un musicista di fama mondiale come Mastelotto. Intervista che però, come si sarà visto, mi sono permesso di ribattezzare col termine “intermezzo (semiserio)”, per il semplice motivo che, come si vedrà fra un attimo, se è vero che spesso gli artisti sono di poche parole, in questo caso si può dire, scherzando un po’, che persino Sylvester Stallone in “Rambo 3” era più loquace di Mastelotto! Ad ogni modo, se non nel campo dell’epistemologia, almeno nel campo delle interviste coi musicisti rock si può anche dire “anything goes”; e, soprattutto, a un musicista non si richiede tanto di parlare a lungo e bene (spesso non ce lo aspettiamo neanche dai filosofi, figurarsi…) quanto di suonare a lungo e bene: e questo Mastelotto, nel corso di vari decenni e di tante collaborazioni con XTC, David Sylvian e molti altri ancora, ha certamente dimostrato di saperlo fare. Dunque, ecco qui la nostra piccola conversazione con quello che, a eccezione di Bill Bruford (il batterista dei King Crimson per eccellenza), è probabilmente il membro della band più longevo fra quelli incaricati di “pestare” piatti e tamburi con disciplina e indisciplina insieme.
- First of all, I would like to thank you for your generosity and willingness to answer a few questions for this interview. I am planning a book on King Crimson in which I would like to test some ideas that I have developed during many years, ever since I started listening to King Crimson when I was a teenager. More precisely, in this planned philosophical interpretation of the “aesthetics” of King Crimson, the latter is meant more as a “concept” and a unifying “project” than as the simple name of a band. So, in the interpretive perspective that I am trying to develop, the music and, so to speak, the philosophy of King Crimson have always been characterized by a well-defined and determinate “aesthetics” which, despite the many changes in the line-up of the band and also in its musical style, unifies all its songs and records, and makes them immediately recognizable for every attentive listener. I call it “The aesthetics of discipline and/as indiscipline”, by which I do not refer only to the two namesake songs featured on the “Discipline” album but, in a broader and more comprehensive sense, to the constant presence and indeed intertwinement of both these elements in the whole history of King Crimson: just to name a few examples, “21st Century Schizoid Man”, “Larks’ Tongues in Aspic” (pt. 1, 2, 3 and 4), “Fracture”, “Starless”, “The Sheltering Sky”, “Neurotica”, “Thrak” and many other compositions from all eras of the Crimson saga are very rigorously constructed and “disciplined” and at the same time very expressive, free and “indisciplined”. What is your opinion, as long-time member of King Crimson, on this interpretation?
R. Yes, I think your interpretation is fairly accurate.
- In this “aesthetics of discipline and/as indiscipline” a major role has always been played by rhythm, ever since King Crimson’s early progressive-rock albums but especially since the contribution provided by Bill Bruford in the 1970s and 1980s, culminating in the somehow unprecedented line-ups with 2 drummers in the 1990s (Bruford and Pat Mastelotto) and with 3 drummers today (Mastelotto, Gavin Harrison and Jeremy Stacey/Bill Rieflin). And, of course, the contribution of the great bass players and “stickmen” who have joined King Crimson during the years (John Wetton, Trey Gunn and, above all, the “ubiquitous” Tony Levin) has been of no less importance. As a member of King Crimson, what is it like to contribute to such a “disciplined” and at the same time “indisciplined” music from a rhythmic point of view?
- It’s a privilege.
- Another important element of my interpretation of King Crimson as a “concept” and a “project”, or, as it were, as a very particular “entity” in the scenario of rock music (“a small, mobile intelligent unit”, as Robert Fripp once defined King Crimson), is represented by its unique capacity to combine a great level of stylistic self-determination with commercial success: in the terminology of philosophical aesthetics, a great level of artistic autonomy with a certain, unavoidable heteronomy (namely, the necessity to deal with the laws and rules of the market). How it was and still is possible for King Crimson to achieve this important aim?
R. Persistence and presence.
- How does King Crimson succeed in “operating in the marketplace while beingfree of the values of the marketplace”, in Robert Fripp’s own words?
R. Carefully.
- What is typical, really characteristic and, so to speak, unique in taking part to a project like King Crimson?
- Passion.
Detto ciò – e concludendo questo nostro attraversamento di vari momenti della storia ma soprattutto di quella che ho chiamato, con un termine forse un po’ pretenzioso, l’estetica kingcrimsoniana –, riguardo al bel concerto degli Stick Men svoltosi l’1 marzo presso il centralissimo e accogliente club bolognese Bravo Caffè mi limiterò a dire che il succitato trio formato da Levin, Mastelotto e Reuter ha alternato alcune proprie composizioni originali, tratte da vari periodi della loro collaborazione musicale, ad alcuni brani del repertorio kingcrimsoniano. Fra questi, citiamo l’immancabile “Red” (secondo pezzo del concerto: una vera e propria dichiarazione d’intenti iniziale nei confronti degli spettatori), l’altrettanto immancabile “Larks’ Tongues in Aspic pt. 2”, un’azzeccata “Sartori in Tangier” con gli inconfondibili tratti minimalisti dello stile kingcrimsoniano anni ’80, e “last but not least” una versione potente, davvero di grande impatto, di una composizione più recente come “Level Five”. A tali brani, come si diceva, gli Stick Men hanno affiancato un’ampia selezione di pezzi tratti direttamente dal loro repertorio ormai quasi decennale e sedimentatosi, per così dire, negli album in studio “Stick Men” (2009), “Soup” (2010), “Open” (2012), “Deep” (2013) e “Prog Noir” (2016), negli album dal vivo “Power Play” (2014), “Unleashed: Live Improvs” (2014), “Midori: Live in Tokyo” (2016), “Roppongi: Live in Tokyo” (2017), e nelle compilation “Supercollider: An Anthology” (2014) e “KONNEKTED” (2017). Certamente i brani dei King Crimson, in assenza dei veri King Crimson (Belew e Fripp per primi), soffrono un po’ durante l’esecuzione ma, a onor del vero, va detto che Levin, Mastelotto e Reuter – complici anche le straordinarie opportunità melodiche, timbriche e ritmiche offerte da strumenti avanzati come il Chapman Stick, la touch guitar o l’ampio set di percussioni elettroniche – sono riusciti a compensare abbastanza bene le ovvie mancanze sul piano sonoro dovute al fatto di eseguire in trio composizioni solitamente affidate a ensemble di sei, sette o persino otto musicisti: un aspetto, quest’ultimo, su cui Levin e Mastelotto peraltro non hanno mancato di scherzare un po’ con il pubblico accorso numeroso al Bravo Caffè.