C’è chi dice no.

 

 

 

 

 

Il terremoto politico provocato dalle elezioni del 4 marzo ha, com’è ovvio, polarizzato l’attenzione dei commentatori sugli esiti del voto e ha reso improvvisamente meno urgente il problema dell’astensionismo, ma la questione rimane, a conferma di una tendenza di lungo periodo. Anche in questa tornata elettorale il partito del non voto ha ingrossato, seppure di poco, le sue fila.  I numeri non mentono. Alle prime elezioni della camera dei deputati (1948) partecipò il 92,23% del corpo elettorale, nel 2013 la percentuale era del 75,20%, per la prima volta sotto la soglia dell’80%. Oggi siamo al 73,1%, in calo di due punti rispetto rispetto alle elezioni precedenti.

Ora, a differenza di quanto si sente talvolta ripetere sulla scia delle teorie della democrazia degli anni Sessanta, una partecipazione elettorale che progressivamente si riduce non significa affatto che i cittadini rinuncino a esprimere la loro opinione perché soddisfatti dell’andamento politico. Anzi, è vero il contrario: il calo della partecipazione elettorale non si spiega con la soddisfazione, ma con la rassegnazione degli elettori, che hanno rinunciato a coltivare qualsiasi aspettativa nei confronti della possibilità di poter incidere politicamente sulle scelte che li riguardano. Non è un caso se molte analisi rilevano un rapporto di proporzionalità inversa nella partecipazione elettorale tra le persone socialmente o economicamente svantaggiate e tra le fasce marginali della società. Chi si sente perdente non riesce a nutrire più alcuna speranza nella possibilità che un ricambio di classe dirigente possa modificare la sua condizione di vita. L’uno vale l’altro si dice, anche perché la politica riassumibile nell’acronimo TINA (There Is No Alternative) è ormai penetrata in tutti i pori della vita sociale.

Tutto ciò non è il frutto di circostanze imprevedibili e fortuite. In tutte le democrazie occidentali la partecipazione alle elezioni è costantemente cresciuta negli anni Cinquanta e Sessanta per poi cominciare a diminuire progressivamente, sino ad arrivare alla situazione attuale. Qual è la spiegazione di questo fenomeno? La risposta è semplice: la vittoria del neoliberalismo, che ha progressivamente ridimensionato la capacità della politica democratica di intervenire, tramite il potere pubblico e in nome dei suoi cittadini, sulla distribuzione dei beni economici prodotta dalle dinamiche di mercato. Vi è, in altre parole, un rapporto di stretta complementarità tra la svolta neoliberale e la regressione della partecipazione politica.

Ma che cos’è il neoliberalismo? Con questo termine ci si è abituati a fare riferimento a un progetto politico-economico volto a introdurre una serie di “riforme” che hanno migliorato le condizioni di valorizzazione del capitale, ma hanno anche finito per imporre un modello di democrazia a sovranità limitata. Il modello neoliberale di democrazia tende infatti a evitare che le situazioni d’interesse controverse possano essere assunte dalle istanze politiche competenti e, soprattutto, possano essere elaborate in proposte legislative capaci di imporre, per ragioni di giustizia sociale, regolazioni dagli effetti redistributivi suscettibili di ridurre i margini di profitto degli imprenditori. La democrazia va posta al servizio delle esigenze di sviluppo e profitto del capitale a prescindere dalle conseguenze sociali che ne derivano.

È questo modello a rendere i governi succubi dei mercati e a compromettere la capacità di una società nazionale democraticamente costituita di autoregolarsi secondo gli interessi dei suoi cittadini – e non degli investitori, interessati unicamente a una remunerativa valorizzazione del capitale. È questo modello che ha alterato le architetture della liberaldemocrazia, o socialdemocrazia, o Stato sociale, le diverse forme della grande costruzione dei Trenta gloriosi, nelle forme della post-democrazia, cioè una democrazia che rimane tale solo nelle forme esteriori, ma non risponde più all’idea di una società conflittuale strutturata sulla mediazione e sui diritti individuali.

In che modo si è verificato questo vero e proprio svuotamento della democrazia? Ridimensionando e sostituendo le procedure e le istituzioni che consentono alla sovranità popolare di esprimersi cooperando alla produzione di decisioni politiche. L’idea neoliberale di democrazia è che la partecipazione dei cittadini ai processi decisionali finisca per subordinare le prestazioni organizzative del mercato alla volontà del legislatore politico. Il processo di ridimensionamento degli spazi democratici che assicurano ai cittadini la possibilità di esercitare la loro influenza sulle decisioni egualmente vincolanti per tutti è avvenuto in vari modi. Per esempio, affidando i poteri politico-decisionali a chi è dotato delle conoscenze tecniche e qualificate necessarie a evitare che i meccanismi del mercato vengano resi disfunzionali da aspettative controproducenti. Si pensi all’accantonamento della volontà degli elettori che si è compiuto tramite l’esercizio tecnocratico del potere, per cui le scelte politiche sono state – e sono tuttora – subordinate alla valutazione selettiva compiuta da una tecnocrazia che non ha alcuna necessità né alcuna motivazione a prendere sul serio le richieste dell’elettorato circa la giustizia sociale, in quanto non ricava la propria legittimazione dal circuito democratico della rappresentanza.

Ma si pensi anche, per esempio, agli sforzi compiuti per fare in modo che lo Stato non sia più uno Stato-nazione, ma uno Stato-mercato, uno Stato che deve autolimitarsi a favore del mercato applicando vincoli cogenti alla propria libertà di azione politica in ambito economico e finanziario. In questo caso, si tratta di strutturare il livello formale del diritto in modo da imporre vincoli “interni” allo Stato di diritto suscettibili di imporsi come vincoli “esterni” al legislatore democratico. L’esempio più clamoroso in questo senso è la legge costituzionale 1/2012 (“Introduzione del principio del pareggio di bilancio nella Carta costituzionale”) che ha modificato gli articoli 81, 97, 117 e 119 della Costituzione, inserendo nella Carta il principio del pareggio di bilancio, che impone limiti costituzionali all’indebitamento e determina così una politica fiscale che prescinde dai risultati elettorali. Principio in aperto contrasto con la necessità dell’intervento pubblico nella regolazione dell’economia prevista nella nostra Costituzione al fine di “rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto libertà e uguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese”.

Per il neoliberalismo, si tratta sempre e comunque di incidere sul complesso istituzionale già esistente con interventi suscettibili di trasformare in profondità le pratiche e le istituzioni ancorate nella cultura democratica. E ciò allo scopo di subordinare ogni settore della vita sociale alla logica seguita dal meccanismo regolativo del mercato, sino a sottomettere la legittimità stessa del potere politico ai criteri della riuscita economica. Occorre creare le condizioni affinché il complesso democratico venga riorganizzato in modo che il processo di valorizzazione competitiva il cui criterio ultimo di valutazione è il mercato sostituisca il processo politico il cui criterio ultimo di valutazione è la legittimità democratica. In tutti i casi, è connaturata allo spirito del neoliberalismo la volontà di impedire che concezioni della giustizia sociale conquistino il potere dello Stato e condizionino la formazione di una maggioranza democratica capace di ripristinare il patto sociale, il “compromesso socialdemocratico” che era stato alla base della democrazia capitalistica.

Perché, allora, recarsi ancora alle urne quando si sa in anticipo che scegliere in un senso o nell’altro non farà alcuna differenza, dal momento che nessuna maggioranza democratica potrà correggere le dinamiche dei “mercati” – che tra l’altro nessuno sa bene che cosa siano – e i poteri delle élite economico-politico-finanziarie che ne traggono tutti i vantaggi? La risposta è semplice: perché proprio la rassegnazione politica di chi attua lo sciopero del voto finisce per lasciare mani libere a chi intende continuare a svuotare la democrazia politica di ogni sostanza reale, privarsi dei fastidi provocati dalle rivendicazioni di giustizia sociale e rendere il capitalismo definitivamente immune agli interventi di chi intende democratizzarlo in nome di un capitalismo sociale come quello che ha caratterizzato il dopoguerra. Certo, i partiti che propongono un cambio di rotta sembrano attualmente occupare, anche dopo il 4 marzo, uno spazio elettorale residuale, ma una eventuale inversione di tendenza richiede che il partito del non voto rinunci a essere il convitato di pietra di ogni chiamata alle urne.


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