Cosa significa esattamente mettere la persona al centro?
Dalla risposta che si sceglie di dare a questa domanda dipende interamente il benessere, laddove non la stessa possibilità d’esistenza a lungo termine, delle società. Nel secolo XXI assumere come nucleo gravitazionale del proprio decision making process l’individuo significa concepire uno sviluppo che vada al di là dell’abusato paradigma della crescita. Difatti, l’investire in un sistema che permette di accrescere il PIL di un paese senza migliorare, o quantomeno mantenere stabili, le condizioni di esistenza di cittadini, lavoratori e persone non è più sostenibile. Ovvero tale approccio economico non è in grado di sostenersi che sul breve periodo, per poi fatalmente collassare sotto il peso del suo stesso difetto di lungimiranza non potendo evitare di innescare dei feedback negativi che ricadono inesorabilmente sull’intera comunità. Del resto − bisognerebbe domandarsi in quanto cittadini − se le variabili economiche e la lotta quotidiana di imprese e lavoratori non portassero alcun implemento nell’indice di felicità di una società perché mai si dovrebbe sostenere questo sforzo?
Sottolineare la centralità della persona nelle strategie di sviluppo industriale si palesa punto nevralgico per comprendere una duplice accezione del termine sostenibilità: essa è ambientale, nel senso che la natura pone costitutivamente limiti ad ogni sistema umano di produzione, ma anche sociale in quanto un sistema di lavoro e mercato che non garantisca la possibilità di autorealizzazione della persona è un meccanismo in sé criminoso e, al giorno d’oggi, più che mai obsoleto.
Sfortunatamente questa stagnazione culturale e pragmatica ha radici storiche relativamente vecchie e non facili da estirpare. Da troppo tempo oramai l’idea di industria e quella di ambiente vengono fatalmente contrapposte in maniera categoricamente inconciliabile. Sovente l’immagine dell’industria è, non senza ragioni, associata a distopici scenari post-apocalittici in cui l’intero landscape è stato soggiogato, inquinato, depauperato e denaturalizzato da scellerate pratiche di appropriazione. Laddove poi tutto il “benessere” post-industriale, edificato sulla sistematica perdita di biodiversità, impoverimento dei suoli, deforestazione, inquinamento dell’aria…, non è più palesemente tangibile, dati gli elevati tassi di disoccupazione e la sempre più marcata difficoltà di trovare un collocamento personale in termini economico-sociali, la situazione diviene psicologicamente e comunitariamente inaccettabile.
La persona nelle società moderne avrà, forse, “un piatto in tavola”, ma ha perso la possibilità di respirare aria pulita, di guardare un cielo stellato sopra le grandi città e di essere partecipe di molta parte del patrimonio naturale e, nonostante il sacrificio di queste ricchezze, viene a trovarsi in balia di un mercato incerto, senza troppe speranze nel futuro. Difatti, al di là della crisi strettamente ecologica, in paesi come l’Italia, è palpabile che la serenità economico-esistenziale raggiunta dalla generazione dei padri non è ereditata dai figli. Intrappolato tra ricchi sempre più ricchi e frotte di migranti incalzanti le frontiere, quello che rimane del ceto medio, sfoltito dei “nuovi poveri”, e politicamente disilluso, con questi diviene facile preda di un diffuso risentimento. In tale cupo quadro, è difficile trovare una cornice teorica che possa mostrare l’auspicabilità di una nuova rivoluzione industriale quale possibilità di restituire ai soggetti e alla natura il proprio inestimabile valore.
Dall’epoca della macchina a vapore e della Prima Rivoluzione Industriale sembra che l’opinione pubblica sia divisa su due binari non convergenti: da un lato industriali e lavoratori sovente accusati di essere nemici della biosfera e dell’altro ecologisti bollati come antagonisti dei lavoratori e del progresso. Tale dicotomia ha sempre contraddistinto ogni tentativo di conciliare il benessere “strettamente umano” con la salute degli ecosistemi, il benessere di Gaia.
Oggi, alla luce degli accordi sul clima di Parigi del 2016 e di tutti i summit sull’ambiente promossi dalle Nazioni Unite negli ultimi decenni, a partire dal convegno “Study of Man’s Impact on Climate” di Stoccolma del 1971, non è più pensabile accettare questi vetusti e dannosi schemi mentali. L’ambiente e il lavoro non possono confliggere, poiché il lavoratore è da sempre anche un essere umano immerso in un ambiente che ne permette la vita. Difatti, nonostante un apparato tecnologico senza precedenti, per usare le ben più autorevoli parole del biologo Edward O. Wilson, «Il nostro corpo fisico è ancora vulnerabile come quando ci siamo evoluti milioni di anni fa. Siamo ancora organismi dipendenti da altri organismi. Possiamo sopravvivere senza l’aiuto di manufatti solo in minuscole parti della biosfera e anche lì siamo notevolmente vincolati» (Wilson, 2016).
Quando si parla di sostenibilità si afferma che vi è un limite da rispettare, che vi sono dei tipping points oltre i quali non è saggio andare se non si vuole compromettere la possibilità di una esistenza dignitosa su questo pianeta. Senza preservare e rispettare quello che il Stockholm Resilience Centre ha chiamato a safe operating space for humanity, non vi potranno essere né crescita né sviluppo alcuno. Questa è forse una banalità, ma purtroppo eccessivamente rimossa nelle decisioni politiche e dirigenziali. Si parla tanto di sicurezza del lavoratore e sul lavoro, ma se un cattivo ambiente di lavoro può essere deleterio per la salute di un individuo, un cattivo ambiente tout court può risultare esiziale.
L’Italia dovrebbe essere tra le prime nazioni ad aver fatto propria questa lezione dati i suoi infelici precedenti storici. Per ricordare un caso emblematico il 10 luglio del 1976 a Seveso, una località nella Brianza, la fabbrica ICMESA (Industrie Chimiche Meda Società Azionaria), produttrice di insetticidi e cosmetici a base di triclorofenolo, subì un incidente industriale che modificò l’assetto ecologico, sociale ed economico del territorio con ripercussioni mediatiche di ampia portata oltre i confini nazionali.
La sera del 9 luglio gli operai, chiuso l’edificio, lasciarono i prodotti in un reattore raffreddato ad acqua che, per un malfunzionamento dell’impianto, durante la notte, si surriscaldò e aumentò di pressione. Verso mezzogiorno del dì seguente, dal camino della fabbrica fuoriuscì una nube tossica che invase i piccoli centri di Seveso, Meda, Desio e Cesano Maderno. Nei giorni successivi si verificarono i primi nefasti effetti: gli animali domestici e di allevamento morirono e le persone, soprattutto i bambini, riscontrarono eruzioni cutanee come pustole ed esantemi. Le autorità locali scoprirono che la nube conteneva diossina, una sostanza cancerogena, che entra negli organismi e provoca effetti a lungo termine. La popolazione fu evacuata e l’economia locale subì un arresto.
Questo non è che uno dei tanti infelici episodi del rapporto tra industrie, sicurezza ecologica, territorio e comunità. Tra i più noti occorre ricordare il caso Ilva di Taranto, un disastro ambientale con 5 milioni di metri quadrati di rifiuti sversati dall’acciaieria nella gravina di Leucaspide. In quell’occasione lo stabilimento siderurgico creò discariche a cielo aperto che portarono principalmente all’inquinamento dell’aria e all’infiltrazione di percolato nelle falde acquifere. Tutto ciò ha significato, in breve, stabilimenti chiusi, posti di lavoro persi, proprietari indagati e un tasso di mortalità per tumori in costante crescita.
A Vado Ligure, invece, la centrale elettrica a carbone Tirreno Power con le sue emissioni nocive ha causato un numero elevato di morti ed un generale peggioramento delle condizioni di salute dell’intera comunità biologica locale nella zona.
E ancora, Porto Marghera, Venezia, nel corso dello scorso secolo è stato luogo di sversamento incontrollato di rifiuti industriali. Negli anni ’70 in particolar modo vennero smaltiti in mare aperto più di 22 mila tonnellate di rifiuti tossici che contaminarono drammaticamente le acque.
Ovviamente l’Italia non è sola in questa casistica, basti ricordare il disastro occorso a Chernobyl, nell’attuale Ucraina, dove una centrale nucleare è esplosa nell’aprile del 1986 propagando nell’atmosfera una elevatissima quantità di radiazioni. A testimonianza di questo disastro ambientale la “foresta rossa”, in riferimento al colore rossastro assunto dai pini attorno alla centrale prima di morire, resta uno dei luoghi più radioattivi al mondo.
Dalle nubi radioattive fuoriuscite dalle centrali nucleari ai fumi tossici dei mega-impianti petrolchimici, dalle discariche a cielo aperto di aziende siderurgiche all’avvelenamento delle falde acquifere e del suolo da parte di grandi colorifici, dalle dispersioni di metalli pesanti dell’industria mineraria ai veleni rilasciati dalle fabbriche di armi chimiche… , ognuno di questi disastri ha la sua bandiera piantata sulla mappa del mondo e la sua unica e drammatica storia da raccontare. Tutti, però, hanno un minimo comune denominatore: sono occorsi in Paesi dove lo sviluppo industriale, senza se e senza ma, è stato considerato più importante dell’ambiente e delle persone. In altri termini, laddove si è portata avanti una politica industriale sia ecologicamente che socialmente non sostenibile.